24 marzo 1721 / Bach e i trecento anni dei Concerti Brandeburghesi

24 Marzo 2021

Il documento è ampolloso, ossequioso e curiale, formalmente ineccepibile, come si conviene a un atto ufficiale e per questo in francese, la lingua della diplomazia, delle corti anche in Germania e in generale della cultura europea nel Settecento: “Monseigneur, comme j’eus il y a une couple d’années le bonheur de me faire entendre à Votre Altesse Royalle, en vertu de ses ordres, & que je remarquai alors qu’Elle prennoit quelque plaisir aux petits talents que le Ciel m’a donnés pour la Musique…”.

Si tratta di una dedica a “Son Altesse Royalle Monseigneur Cretien Louis Marggraf de Brandenbourg”, preambolo all’autografo contenente “Six Concerts avec plusieurs Instruments”, sentito omaggio firmato dal “tres-humble & tres obeissant Serviteur Jean Sebastien Bach, Maitre de Chapelle de S.A.S. le Prince reignant d’Anhalt-Coethen”. In calce la data: 24 marzo 1721. 

Nascevano così, trecento anni fa, preceduti da sussiegose parole di circostanza, quelli che solo dalla seconda metà dell’Ottocento sarebbero stati chiamati “Concerti Brandeburghesi”. Musica che a tre secoli di distanza non cessa di sfidare i grandi interpreti e di affascinare gli ascoltatori, saldamente inserita nel maggiore repertorio concertistico, consegnata a una discografia vastissima.

 

Quando scriveva quelle righe, con calligrafia controllata ed elegante, tutti gli svolazzi al posto giusto, Sebastian Bach aveva compiuto da tre giorni 36 anni. Da circa otto mesi era rimasto vedovo della prima moglie, la cugina Maria Barbara, che in tredici anni di matrimonio gli aveva dato sette figli (tre erano morti piccolissimi; fra i sopravvissuti, destinati a fama musicale, Wilhelm Friedemann e Carl Philipp Emanuel). Nel dicembre di quello stesso anno avrebbe sposato Anna Magdalena Wilcke, ventenne cantante, quinta figlia di un suonatore di tromba in servizio alla corte di Weissenfels, che gli avrebbe dato altri tredici figli, gli sarebbe sopravvissuta di un decennio, fino al 1760, e sarebbe passata alla storia della musica come “intestataria” di molte preziose pagine “domestiche” per la tastiera.

 

In quell’inizio di primavera del 1721 Bach era da oltre tre anni al servizio del principe Leopold di Anhalt-Cöthen, in qualità di Capellmeister. Un periodo caratterizzato dalla dedizione quasi assoluta al genere strumentale in tutti i suoi diversi aspetti: Hofmusik e Hausmusik, musica di corte e musica “privata”, musica per orchestra, concertante o meno, e musica da camera. Erano nati allora i “Soli” per violino e per violoncello, le Sonate per violino e cembalo, quelle per flauto e cembalo, quelle per viola da gamba e cembalo, come pure le sontuose Ouvertures per Orchestra, i due Concerti per violino e quello per due violini, ma anche il primo volume del “Clavicembalo ben temperato” e le Suite francesi. Una prodigiosa onda creativa felicemente agevolata dalle condizioni in cui il compositore si era trovato nel nuovo ufficio, dopo le incomprensioni e le beghe dell’ultima parte del servizio a Weimar, culminate nella carcerazione di oltre un mese durante il vero e proprio “braccio di ferro” per ottenere il congedo e raggiungere finalmente Cöthen (ottobre-novembre 1717).

 

Christian Ludwig, Margravio del Brandeburgo (1677 - 1734).


Il principe Leopold (1694 -1728) era uno spirito musicale dal gusto raffinato, formato non solo in Germania ma anche in Italia, ed era egli stesso un valido esecutore al violino, alla viola da gamba, al cembalo, che non disdegnava di cantare con voce di basso. Aveva creato un’orchestra di notevole qualità, fra l’altro invitando presso di sé vari strumentisti della Cappella sciolta a Berlino dal “re sergente” di Prussia, Federico Guglielmo I di Hohenzollern. Poiché la sua corte non era luterana ma calvinista, le necessità musicali per la chiesa erano ridotte al minimo e tutte le energie del Capellmeister potevano concentrarsi sul servizio “civile”, per il quale gli esborsi erano cospicui. Un grande specialista come il musicologo Christoph Wolff, per quasi un quindicennio direttore del Bach-Archiv di Lipsia, ha calcolato che durante il servizio di Bach (1717- 1723) le spese annue per la musica a Cöthen sono sempre state superiori ai 2.000 talleri (il Capellmeister guadagnava 400 talleri all’anno). Rispetto alle uscite complessive dello staterello in quel periodo, il finanziamento per la musica sfiorava il 4 per cento (Johann Sebastian Bach – La scienza della musica, Bompiani, 2003).

 

Per dire quanto la musica fosse considerata imprescindibile nel piccolo principato, in almeno due occasioni, nella tarda primavera del 1718 e del 1720, Leopold non aveva esitato a portare con sé – nell’andare a “passare le acque” a Carlsbad – il suo Maestro di Cappella e un discreto numero di strumentisti, in maniera da non interrompere l’attività musicale della corte.

Nel pieno di questa esperienza artistica senza eguali nella vita di Bach, al centro di un’esperienza creativa multiforme e complessa, campeggiano dunque i “Six Concerts avec plusieurs instruments”, inviati al Margravio del Brandeburgo Christian Ludwig di Hohenzollern (1677-1734).

L’autografo sarebbe rimasto per alcuni decenni nell’archivio del castello di Berlino, dove il nobiluomo aveva la residenza; toccò quindi per via ereditaria alla principessa Anna Amalia di Prussia e alla morte di questa (1787) finì dapprima – con tutta la sua biblioteca – allo Joachimstahl Gymnasium e da lì all’inizio del XX secolo alla Biblioteca di Stato di Berlino. Il nome con cui sono universalmente noti, “Concerti Brandeburghesi”, risale al 1873 e fu escogitato – per le ovvie implicazioni della dedica – dal biografo bachiano Philipp Spitta.

 

Anche Christian Ludwig era un grande cultore di musica. Escluso dalla successione al trono di Prussia in quanto appartenente al ramo cadetto, dopo che il re di cui era lo zio aveva sciolto la Cappella di corte, in un certo qual modo si era diviso i componenti dell’orchestra con il principe Leopold di Anhalt-Cöthen, creando a sua volta una formazione strumentale che faceva suonare nelle sue residenze del Berliner Stadtschloss e di Malchow ed Heinersdorf, piccole tenute a pochi chilometri dalla capitale. La sua biblioteca musicale era più che cospicua: conteneva una settantina di opere teatrali, quasi trecento Concerti, decine di Cantate, di Ouverture e di Sonate da camera.

Nella dedica, Bach fa riferimento a un loro incontro, avvenuto circa due anni prima e dunque all’inizio del 1719. A quell’epoca il musicista si era recato da Cöthen a Berlino per l’acquisto di un clavicembalo, costato al principe Leopold 130 talleri più il rimborso delle spese di viaggio al suo Capellmeister: è più che probabile che proprio in quell’occasione il Margravio – in quel momento l’unico membro della famiglia reale prussiana ad avere un genuino interesse per le cose musicali – abbia avuto modo di ascoltare il celebre compositore e virtuoso e che proprio allora si sia “ingolosito”, chiedendogli di fargli avere qualche composizione.

Si può immaginare che Bach avesse chiaro fin dalla commissione, peraltro così informale che si potrebbe definire piuttosto una richiesta, quali pezzi “accomodare per numerosi strumenti” (così nella dedica) ad uso del Margravio (cioè per l’esecuzione nelle sue residenze). Occorsero due anni per la messa a punto della raccolta: si trattò, in molti casi, di un lavoro di elaborazione su materiali o su brani già esistenti. 

 

Non si conosce oggi alcun documento che testimoni come il Margravio accolse il musicale omaggio bachiano, né si hanno prove di esecuzioni berlinesi. La tesi che i “Six Concerts” non ebbero l’accoglienza che meritavano e che l’autografo fu lasciato a impolverarsi sugli scaffali della biblioteca del castello di Berlino prese piede in maniera quasi apodittica nel corso dell’Ottocento, quando la figura dell’artista come genio incompreso era particolarmente apprezzata. In realtà, sarebbe davvero singolare che il Margravio avesse perduto ogni interesse per l’arte di Bach nel giro di un paio d’anni, ed è improbabile che la sua cancelleria abbia omesso i protocolli formali di consuetudine in questi casi, dei quali però si sono perse le tracce.

D’altra parte, il tono della dedica lascia intendere che il compositore aveva voluto fare omaggio della sua musica a un augusto intenditore, che tanto l’aveva lodata, senza un interesse immediato (o il pagamento di un corrispettivo; ma certo una regalia sarà stata gradita…), lasciando aperta la porta a generiche possibilità future, più che altro accennate per deferenza: “Nulla mi sta tanto a cuore quanto il poter essere impiegato in occasioni più degne di Lei e del suo servizio…”. 

In quel marzo 1721 Bach non vedeva segni di crisi nel suo impegno a Cöthen, ma sapeva bene per esperienza personale che la condizione del musico al servizio dei potenti o delle istituzioni religiose era soggetta a mille imprevisti e difficoltà. E infatti, nel giro di un anno anche l’idillio artistico nel principato sarebbe giunto a conclusione, e si sarebbero create le condizioni perché il Capellmeister aspirasse a un altro impiego. Non poteva essere il Margravio del Brandeburgo, con la sua piccola Cappella musicale, a soddisfare le sue ambizioni. La strada bachiana portava a Lipsia e alle sue chiese.

 

 

Per la complessità della genesi e le multiformi caratteristiche dello stile, che del resto nulla tolgono all’affascinante immediatezza dell’ascolto, i “Concerts avec plusieurs Instruments” ancora oggi dividono gli storici e i musicologi. Forma e struttura sono così originali e particolari che sfuggono alle usuali definizioni di genere e insieme le giustificano tutte. L’unicità della raccolta e di ogni singolo brano appare evidente: ciascun Concerto è il punto d’arrivo di una vasta e approfondita riflessione sulla civiltà strumentale europea del primo Settecento e il possibile punto di partenza di uno stile che in realtà non ha avuto seguiti. Ha ragione Christoph Wolff: «Ciascuno dei sei Concerti fissava un modello di orchestrazione e ognuno di essi sarebbe rimasto ineguagliato».

 

La principale controversia fra gli studiosi riguarda l’appartenenza dei Brandeburghesi a una o l’altra delle due grandi famiglie dello stile concertante del Barocco maturo, il Concerto Grosso e il Concerto solistico. Lo storico della musica tedesco-americano Manfred Bukofzer non aveva dubbi: «Con i loro temi di Concerto meravigliosamente equilibrati, il loro contrappunto coloristico eppure compatto e la loro esuberanza ritmica, i Concerti brandeburghesi sono i Concerti Grossi più ispirati e complessi dell’intero periodo barocco» (Music in The Baroque Era, 1947, traduzione italiana, Rusconi 1996). Alberto Basso, autore di una grande monografia bachiana, oltre un trentennio dopo le considerazioni di Bukofzer la vedeva in maniera opposta: «Il solismo sarebbe una caratteristica assoluta dei Brandeburghesi e in tal modo cadrebbe definitivamente qualsiasi tentativo – per altro già arduo dal punto di vista formale  – di valutare tali concerti nell’ambito “storico” del genere del Concerto Grosso, come invece è stato fatto per vari decenni» (“Frau Musika – La vita e le opere di J.S. Bach”, due volumi, EDT 2018).

 

Più sono rigide, più le classificazioni tendono a semplificare. In realtà, almeno una parte della straordinarietà dei Brandeburghesi consiste nel fatto che essi sono il frutto di un sofisticato e solitario sforzo compositivo volto a fondere la logica formale e strumentale del Concerto Grosso con quella del Concerto solistico. Quest’ultima, peraltro, emerge il più delle volte in controluce all’interno di complessi rapporti dialettici fra le parti. Se si esclude la quasi generale adozione della successione tripartita dei movimenti tipica del Concerto vivaldiano, infatti, il solismo si afferma soprattutto come punto di arrivo di un virtuosismo strettamente correlato ai valori timbrici. Resta il fatto che lo spirito generale di ciascuno dei Brandeburghesi deriva dal trattamento dei materiali tematici e dalla loro disposizione formale secondo la tradizione del Concerto Grosso: giustapposizione fra “ripieno” e “concertino”, vivacità e ricchezza del discorso orchestrale strettamente legata al confronto di gruppi sonori, siano essi omogenei o arditamente contrastanti.

D’altra parte, la questione di genere può risultare perfino stucchevole se si considera che la vera caratteristica fondante di questi sei brani è quella che si coglie fin dal titolo autografo apposto da Bach: sono Concerti “avec plusieurs instruments”.

 

La ricchezza dell’organico è un unicum nella storia della musica nel periodo barocco, avvicinato soltanto da poche partiture vivaldiane. Il Concerto n. 1 in Fa maggiore prevede un gruppo di solisti formato da due corni da caccia, tre oboi, fagotto e violino piccolo; il ripieno è dato da due parti di violino, una di viola e basso continuo; nel n. 2 (pure in Fa maggiore) i solisti sono tromba, flauto dolce, oboe e violino; nel Concerto n. 4 in Sol maggiore si hanno come strumenti solisti o di concertino un violino e due flauti dolci (“fiauti in echo” scrive Bach nell’autografo: probabilmente si tratta di strumenti assimilabili ai “flageolet” della tradizione francese, quindi con tessitura acuta); nel n. 5 in Re maggiore c’è ancora un trio solistico, formato questa volta da flauto traverso o “traversiere” (una novità per l’epoca), violino e clavicembalo.

Molto particolare è il caso dei due Concerti che non abbiamo ancora nominato, il terzo e il sesto. In entrambi il gioco timbrico è dato da una raffinata tavolozza tutta all’interno della famiglia degli archi, secondo la logica dei Concerti “di gruppo”. Il n. 3 in Sol maggiore si basa sul dialogo paritetico a parti separate di tre violini, tre viole e tre violoncelli; se si aggiunge il basso continuo, si constata come le parti reali siano dieci, solo una in meno del Concerto n.1, il più ricco di colori. Il n. 6 approfondisce ancora l’idea del dialogo interno a tessiture omogenee, questa volta distribuendolo nelle famiglie degli archi bassi, fra moderno e antico: accanto a due viole “da braccio” suonano due venerabili viole da gamba e un violoncello, in un fittissimo scambio di ruoli fra uscite solistiche e ripieno, cui dà man forte il solo basso continuo.

 

[Concerto Brandeburghese n. 3]

 

 

Quasi sempre indiziaria è la cronologia, tutta a ritroso a partire dal termine del 24 marzo 1721, quando naturalmente il complesso lavoro di sistemazione della raccolta fu consegnato alla sua forma ultima e definitiva. Secondo il musicologo tedesco Heinrich Besseler, la composizione si sarebbe svolta nel triennio 1718-1720: il Concerto n. 1 (nella prima versione), il n. 6 e il n. 3 risalirebbero al 1718; il n. 2, il n. 4 e l’Allegro del n. 3 al 1719; il n. 5 al 1720. Secondo Wolff la maggior parte dei Concerti risalirebbe addirittura, almeno nella stesura iniziale, a prima dell’inizio del servizio a Cöthen: lo si dedurrebbe dagli aspetti stilistici (avendo come punto di riferimento centrale il “Clavicembalo ben temperato”) ma anche da questioni protocollari: Bach avrebbe evitato di offrire al Margravio composizioni create per il principe Leopold. L’ipotesi è plausibile (anche se non confermabile sul piano documentale) soprattutto alla luce del fatto che prima di giungere a Cöthen, quando prestava servizio a Weimar, il compositore aveva avuto modo di conoscere e studiare la tradizione concertante da Corelli a Vivaldi, da Torelli ad Albinoni e fu allora, nella prima metà degli anni Dieci del Settecento, che si delineò il decisivo apporto della scuola italiana allo stile bachiano.

 

In realtà, esistono tracce di quello che poi sarà il primo Concerto già nella Sinfonia che potrebbe essere stata introduttiva della Jagdkantate BWV 208, datata 1713. Rispetto a quella composizione, il Concerto presenta un secondo Allegro in terza posizione, ma l’eccentricità formale di questo pezzo, unica in tutta la raccolta, è determinata dalle scelte del compositore per quel che segue. Dopo una prima sezione – se così si può chiamarla – basata sulla tripartizione dei movimenti tipica del Concerto vivaldiano, se ne ha infatti una seconda costruita come una sorta di piccola Suite alla francese con Minuetto, Trio e una “Poloinese” (così Bach nell’autografo), cioè una Polacca. Tipica del gusto francese anche l’introduzione fra gli strumenti concertanti del “violino piccolo”, con la sua accordatura più acuta del violino tradizionale.

 

[Concerto Brandeburghese n. 1]

 

L’eclettismo stilistico spinto e la singolarità formale del n. 1 sono episodi isolati, che non trovano analogie nel resto della raccolta. Tutti gli altri Concerti sono in tre movimenti con l’eccezione del n. 3, che prevede fra l’Allegro iniziale e quello conclusivo – entrambi trascinanti per ritmo – soltanto una cadenza in due accordi. Rispetto alla corposa struttura tematica e alle inserzioni fugate dei movimenti estremi, quelli lenti centrali si configurano il più delle volte secondo una logica prettamente cameristica (dunque, Hausmusik “dentro” alla Hofmusik: ancora un elemento di sincretismo stilistico). A questo scopo, la formazione del “concertino” viene rivista e limitata con l’esclusione degli strumenti più sgargianti (nel n. 2 la tromba) o comunque di quelli che non sono funzionali a questa particolare linea espressiva (nell’Adagio del n. 6 tacciono le viole da gamba). L’obiettivo è spesso quello di dare vita a vere e proprie piccole Sonate: per flauto dolce, oboe e violino nel n. 2, per traversiere, violino e cembalo nel n. 5.

Quest’ultimo Concerto è ancora oggi, insieme al terzo, il più noto. Lo era anche all’epoca bachiana, come dimostra la quantità di copie manoscritte esistenti: 11 in partitura e 8 in parti separate, più di tutte le copie d’epoca di tutti gli altri Concerti. È la pagina in cui le innovazioni e le invenzioni sono più evidenti e diventano decisive per quello che sarà della logica concertante in un futuro ormai prossimo. È il capolavoro “esemplare” nel quale nitidamente si coglie la “ratio” dell’invenzione bachiana, il suo svilupparsi facendo della partitura un “cantiere” fino alla rifinitura conclusiva affidata all’autografo inviato al Margravio.

 

L’idea si sviluppa ancora una volta dal solido tronco del Concerto Grosso, che presenta però qui un ripieno più solisticamente connotato, con la rinuncia a una seconda parte di violino che si spiega con la netta aspirazione concertante perseguita dal compositore. Il “concertino” è formato oltre che dal violino, da uno strumento mai prima impiegato dal Capellmeister, il flauto traverso con la sua tinta ben più concreta e viva di quella rarefatta e sottile dei flauti a becco, o flauti dolci; e da uno strumento invece ben noto e praticato, il clavicembalo, impiegato però in una funzione assolutamente innovativa: non più elemento di basso continuo, ma protagonista solista.

“Cembalo concertato” è l’indicazione nell’autografo e lo sviluppo del discorso fin dalle prime battute del primo movimento – con il dialogo fra i tre strumenti di concertino, nel quale alla tastiera spetta un’evidente primazia – realizza con palmare evidenza l’intenzione. Già così ci sarebbe di che sottolineare l’importanza storica della composizione, il suo porsi come antesignana del Concerto con tastiera solista, ma Bach si spinge molto più avanti. Alla fine dello stesso primo movimento il musicista sottolinea vigorosamente la nuova concezione attraverso un’invenzione che offre con plastica evidenza il senso del ruolo rivoluzionario concepito per il cembalo, in superba sintesi di virtuosismo e di pensiero. Dunque, mentre lo sviluppo dei nuclei tematici, affidato a violino e flauto con le sottolineature del ripieno, diviene sempre più una trama quasi trasparente, il cembalo si lancia per una decina di battute in volate sempre più vorticose, dal sapore prettamente toccatistico. Quindi la tastiera si prende tutto lo spazio: “solo senza stromenti” scrive Bach sopra i due pentagrammi della parte cembalistica, nel punto in cui inizia una delle più celebri Cadenze nella storia della musica.

 

[Concerto Brandeburghese n. 5 – Cadenza]

 

In realtà, il termine potrebbe essere considerato per certi aspetti improprio: queste 65 battute (quasi un terzo dell’intera estensione del movimento) non sono semplicemente il luogo di un excursus virtuosistico fine a se stesso, che nasce dalla sospensione del discorso musicale (com’è abitualmente nelle Cadenze dei Concerti solistici). Sono piuttosto – e la preparazione musicale dell’evento lo dimostra chiaramente – la prosecuzione dell’invenzione con altri mezzi ma sulla base del nucleo tematico comune a tutte le parti. Senza soluzione di continuità, con una fluidità di linguaggio che mostra la miracolosa tenuta del complessivo discorso concertante. Nasce così il “nuovo” clavicembalo, quello che anche nel contesto orchestrale saprà ritagliarsi una parte da protagonista. Nasce per progressiva elaborazione: in una prima versione di questo movimento, presente in una copia da far risalire a ben prima del 1719-20 – il periodo che si considera l’epoca ultima di completamento del quinto Concerto – la Cadenza consta soltanto di 18 battute. Si può immaginare il lavoro di Bach intorno a questo nucleo primigenio, e si può ritenere del tutto probabile che una evenienza pratica sia stata decisiva nel portare il compositore alla versione definitiva di questa pagina, più che triplicata nelle dimensioni.

 

Questa evenienza fu – come si diceva all’inizio – l’acquisto a Berlino per conto del principe Leopold di un magnifico clavicembalo a due manuali, opera di Michael Mietke, reputato cembalaro di corte. Su questo strumento e per questo strumento berlinese, “brandeburghese”, giunto a Cöthen nel marzo 1719, Bach plasmò con ogni probabilità la grande, innovativa Cadenza del quinto Concerto.

A maggior ragione, allora, era in fondo naturale che il capolavoro di cui fu il tramite e gli altri suoi “fratelli musicali” di così seducente ricchezza strumentale fossero consegnati alla storia come i “Concerti Brandeburghesi”. 

 

Concerti Brandeburghesi 1- 6. Orchestra Mozart, direttore Claudio Abbado.

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