Il linguaggio al centro / Morte della democrazia: è tutta colpa della retorica

14 Giugno 2017

L’ondata di articoli e dibattiti su post-verità e fake news ha ricondotto l’attenzione del pubblico su una questione dirimente. Che quella delle democrazie occidentali fosse una crisi di valori e di vedute, dunque più generalmente di cultura politica, lo si era già capito. Ma che fosse principalmente una crisi di linguaggio, lo si scopre solo recentemente. Nonostante la storia ci insegni che a ogni crisi di civiltà corrisponde anche una crisi di linguaggio politico, il decadimento del dibattito pubblico continua a sembrare una conseguenza e non la causa fondamentale del declino dell’intero sistema liberal-democratico. L’ardito compito che si pone un trascinante M. Thompson in La fine del dibattito pubblico (Feltrinelli, 2017) è esattamente l’inversione del nesso di causalità tra linguaggio, cultura e politica.

L’autore difatti vuole ribaltare tale prospettiva mettendo al centro dell’analisi la retorica. Scienza un tempo nobile, che però ha subito una sorta di declassamento intellettuale proprio quando, paradossalmente, la pervasività del dibattito politico, la sua ubiquità e illimitatezza temporale (dalle reti all news di cui parla in diverse occasioni a Twitter), hanno reso tale “oggetto” il fulcro dell’attività dei media. Dunque da variabile dipendente dalle trasformazioni complesse che investono il mondo contemporaneo, la retorica viene eletta a variabile indipendente, ovvero a principio di spiegazione di una complessità che straripa dalle capacità cognitive del cittadino globale. Questione a cui Thompson concede particolare evidenza in uno dei passi chiave del suo saggio.

 

"In questo libro sosterrò che, più delle carenze di un gruppo o dell’altro, al cuore del problema c’è il linguaggio stesso. Non sto dicendo che la retorica sia una sorta di primo motore del cambiamento politico e culturale… Però, invece di trattarla come se fosse un effetto collaterale di altri fattori più profondi, vorrei piazzarla al centro del dispositivo causale. Le nostre strutture civiche, le nostre istituzioni e organizzazioni, sono organismi viventi del linguaggio pubblico, e quando cambia la retorica loro fanno altrettanto. La crisi della nostra politica è una crisi del linguaggio politico" (p. 29). 

 

Opera di Alessandro Gallo.


A dimostrazione della tesi sopra elencata, Thompson procede con un’esplorazione attenta del linguaggio politico contemporaneo. Resuscitando e ricoprendo di nuova luce una categoria che la retorica tradizionale prima e la linguistica poi avevano seppellito sotto una coltre asfittica di polvere: le figure retoriche. Sin dall’introduzione il testo propone un’esplosione pirotecnica di metonimie, truismi e figure prolettiche (p. 16), per descrivere gli espedienti retorici tutt’altro che barbari di una certa politica americana. La guerra comunicativa mossa contro l’Obamacare è forse l’esempio più lampante del modo in cui l’emotività del pubblico può essere incanalata scientemente contro un provvedimento politico squisitamente di sinistra, volto a migliorare le condizioni delle classi più svantaggiate. Contro di essa, i Repubblicani si sono esercitati in un fuoco incrociato che partiva da figure diverse ma sempre molto ben studiate nella definizione della loro origine sociale e nel linguaggio.

 

Come ad esempio Betsey McCaughey, proveniente da un ambiente umile nei pressi di Pittsburg e con il titolo di dottoressa per via del suo Phd in Storia che, all’attenzione di un pubblico meno istruito, suona come una garanzia di competenza nel settore medico-sanitario. La ex vicegovernatrice dello stato di New York, intervistata nella trasmissione radiofonica di Fred Thompson, ha elaborato un sottile stratagemma retorico per colpire al cuore la tanto osannata (da sinistra) e vituperata (da destra) riforma della sanità di Obama, appigliandosi a un cavillo, la sezione 1233 che riguarda questioni bioeticamente complesse come l’interruzione delle cure per i malati terminali, verso cui la legge avrebbe voluto estendere la copertura assicurativa. Dalla trovata della “dottoressa” alla sua trasformazione pubblicitaria il passo è stato breve, grazie all’astuzia di Sarah Palin che schiera in campo la figlia down minacciata, a detta della madre, appunto da tale provvedimento. La definizione di “commissione della morte” associata alla Obamacare per via di quella sezione molto specifica della legge, può in tal modo investire con la sua negatività l’intero impianto della riforma. La potenza di quella sineddoche è stata in grado di associare un frammento della legge a concetti deplorevoli e più generali, come quello di eugenetica e di rigorismo burocratico che, indirettamente, rimandavano ai regimi totalitari europei, a quello sovietico ma ancor più irrazionalmente al nazionalsocialismo. 

 

Un altro esempio che Thompson discute è quello della crisi finanziaria. Evento di portata globale rispetto al quale si è verificato il paradosso della “presunzione di complessità” (p. 28): nonostante la profusione di disamine e di spiegazioni proposte dai media, o forse proprio in virtù di esse, la sensazione del pubblico rispetto alle tematiche inerenti la finanza e il suo crescente potere è quella di un difetto di comprensione. 

Sebbene il libro sia focalizzato sul presente, dedicando vari capitoli a questioni attuali come i vaccini di Trump (p. 226) e la retorica post-Charlie Hebdo (p. 316), esso si spinge anche al di là del nostro tempo, alla ricerca del punto d’inizio della crisi. Attraverso un incrocio tra il vissuto biografico e quello professionale dell’autore, l’analisi ci conduce agli albori dell’epoca thatcheriana quando Thompson, da poco laureato, iniziava un tirocinio presso la BBC. L’impatto della gestione thatcheriana sulla cultura politica inglese fu tale che non solo i Tories dominarono ininterrottamente per quasi un ventennio, ma anche che dopo la loro sconfitta a opera di Toni Blair nel 1997, essi continuarono a influenzare le scelte della politica laburista ormai sulla rotta ineludibile della terza via. Altro testimonial di interesse della nuova retorica politica è ovviamente Ronald Reagan, su cui l’autore si sofferma in varie occasioni, quasi recuperando indirettamente alcune considerazioni elaborate nel grandioso compendio di C. Lasch Il paradiso in terra (recensione), che però Thompson non cita.

 

La famosa “relazione speciale” tra i due leader del resto non si fonda solo su analogie nell’uso retorico del linguaggio ma su qualcosa che, in accordo con una tradizione di studi marxista (dall’italiano A. Gramsci al jamaicano-inglese S. Hall), possiamo definire “ideologia”. Tale concetto risulta un po’ sacrificato dall’analisi linguistico-retorica proposta nel testo, come quando l’autore esamina il passaggio dalla solennità della politica tradizionale, ma anche di quella più antagonista come nel caso di Mandela (p. 61), alla deriva pubblicitaria condannata a suo tempo dagli stessi laburisti che accusavano la Thathcer di rivolgersi ai geni pubblicitari della Saatchi&Saatchi come una banale azienda di detersivi (p. 65). È probabilmente vero che l’ideologia risente del linguaggio corrente, ma è certamente molto più palese il modo in cui essa modifica le prassi linguistiche in funzione dei valori e del sistema di interessi che la contraddistinguono. Forse per questo nel capitolo dedicato a Reagan e Thatcher si trascura il legame profondo, potremmo dire costitutivo tra linguaggio e ideologia neoliberista – a cui si preferisce l’analisi della “tecnocrazia” – che non a caso sopravvive al cambiamento di “regime” avvenuto con la vittoria di Blair, il quale, pur rivoluzionando la politica del suo tempo, si pone in linea di netta continuità con le politiche (specialmente economiche) che lo hanno preceduto.

 

In ultima analisi, e in accordo con la questione della post-verità, la deriva retorica ha posto sempre più ai margini della politica la scienza, che invece “un tempo godeva di uno status privilegiato nel discorso pubblico” (p. 31). Se è vero pertanto che “queste tendenze negative scaturiscono da un insieme di forze politiche, culturali e tecnologiche interconnesse, forze che travalicano qualsiasi ideologia” (p. 31), è altrettanto vero che tuttora permane una matrice ideologica specifica capace di connotare lo stile retorico dei singoli leader e delle loro formazioni. Un po’ come il problema del populismo discusso in molte delle mie ultime recensioni per doppiozero. Esso è da un punto di vista linguistico-comunicativo un fenomeno trasversale che “infetta” posizioni politiche molto diverse (ad es. da Obama a Sanders o da Renzi ai 5stelle), mentre dal punto di vista ideologico e operativo esso vuole essere la “cura”, la sola terapia contro una politica solipsistica che si è allontanata cinicamente dalle esigenze del cittadino comune. La crisi politica contemporanea è data forse proprio da questa irrisolvibile aporia: l’impossibilità di mantenere un approccio scientifico ai problemi complessi senza scadere nella tecnocrazia; l’impossibilità di contrastare il populismo senza assumerne il medesimo linguaggio. 

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