"Colpa di chi difende ancora il catenaccio” / Marcature a uomo, gioco di squadra e movimenti senza palla

20 Gennaio 2018

Sono mesi, anni difficili per il calcio italiano: i rapporti non limpidi tra società e ultras, il razzismo delle curve, l’eliminazione dai mondiali, l’urgente bisogno di riorganizzare un sistema in crisi.

In tutto questo pesa un silenzio, quello dei protagonisti. Loro, i calciatori, non escono mai allo scoperto e non prendono posizione, dove invece potrebbe sfruttare il loro essere “megafoni” naturali dello spettacolo sportivo.

Ci sono stati anni in Italia in cui alcuni giocatori provarono a prender voce. Questo articolo racconta la loro storia.

 

Enzo Belforte è un giornalista sportivo, è lui che ha l’idea della riunione. 

Ad aiutarlo c’è Paolo Sollier, centrocampista noto per la sua passione politica che non manca di esternare anche nel rettangolo di gioco. Di lui, in calzoncini e maglia del Perugia, che il destino volle di colore rosso, è rimasta negli annali una foto: un pugno chiuso alzato al cielo in un campo di serie A. 

Dopo una breve esperienza alla Fiat, per Paolo il pallone è diventato un mestiere. Nello spogliatoio, a differenza della fabbrica e della scuola che aveva frequentato, non c’è spazio per la politica. 

«Io stesso me lo ero auto imposto: come linea di principio non volevo usare lo spogliatoio per fare propaganda». Ma non manca di dire ciò che pensa, e poi quel pugno che diventa un simbolo: «non è mai stata un’ostentazione o un desiderio di protagonismo, piuttosto un ricordarmi da dove ero venuto».

Enzo e Paolo si conoscono perché entrambi sono cresciuti a Torino e lì hanno frequentato i movimenti. Belforte, prima di fare il giornalista, ha lavorato per un po’ all’università come ricercatore. Faceva parte di un gruppo di sociologi della conoscenza e anche lì scriveva e parlava di calcio. Era già papà e l’università non garantiva molti soldi, così accetta prima la proposta di «Stampa Sera» e poco dopo approda a «Tuttosport». Ha una memoria archivistica forgiata negli anni del liceo: «studiavo poco ma leggevo sempre di sport, sapevo tutto». In redazione lo apprezzano perché è uno dei pochi che s’interessa quasi esclusivamente del calcio «basso»: «mi hanno dato la serie C, poi la B e tutto il calcio giovanile. Per quello li conoscevo tutti quei ragazzi». 

 

L’idea di Belforte è mettere intorno a un tavolo calciatori dalle idee comuni, provare a scrivere un manifesto e poi magari un libro collettivo dove proporre un calcio un po’ diverso. 

La riunione è organizzata per il febbraio del 1979 a Terni. Sono tante le questioni da discutere: l’interesse per l’attività sindacale e i diritti in quanto lavoratori dello spettacolo sportivo; il rapporto con le società padrone del «cartellino»; il legame con i tifosi; il ruolo dello sport nelle scuole. 

E poi perché come giocatori non cercare di prendere parola su ciò che succede al di fuori degli stadi? 

«Si domandavano come stare in quel mondo e in quelle contraddizioni. Come vivere bene l’essere calciatori con idee di sinistra e radicali». È sempre Enzo a ricordare: «pensavo fosse possibile organizzare una realtà di squadre che ragionassero in maniera diversa. E alla sinistra volevamo dire che il calcio è importante, non va snobbato. Anche nel rapporto con il proprio popolo».

 

Gli invitati

 

A fare gli onori di casa, nel senso che proprio a casa loro si tiene la riunione, sono Maurizio Codogno, Andrea Mitri e Gabriele Ratti. Giocatori in serie B nella Ternana allenata quell’anno da un giovane Renzo Ulivieri. Con il mister c’è rispetto ma si litiga sulle regole: in particolare i ritiri e i coprifuoco alle 22. «Il lavagnone nello spogliatoio per le tattiche e gli schemi era diventato per noi come un tazebao. Ci scrivevamo ogni giorno farsi a effetto, dichiarazioni, concetti».

 

«Mister, io vado a un concerto di Patti Smith, tornerò tardi, alle 2 o alle 3.» 

«Cosa ti devo dire? Se ti dico di no?»

«Mister, se mi dice di no dovrò inventarmi qualche balla, e non mi fa piacere.»

È Ulivieri a cedere a Maurizio Codogno e alla sua passione per la musica. Quest’ultimo è il riferimento del gruppo, classe 1954, bergamasco di origine. Ottimo difensore tutto cuore arrivato a Terni nel 1977 dalla Pro Vercelli. Nel rettangolo di gioco non si risparmia perché in città «c’erano le acciaierie, io mi sentivo fortunato a giocare. Sputavo sangue in campo, sia in partita che in allenamento». 

Insieme a lui ci sono il terzino Gabriele Ratti di Lecco, arrivato nella squadra umbra lo stesso anno e il mediano triestino Andrea Mitri unitosi al gruppo nel 1978.

A Terni, oltre a una vita comunitaria, i ragazzi trovano il movimento operaio, una tifoseria orientata a sinistra e una radio libera, Evelyn, dove spesso intervengono. 

Oltre al nucleo ternano Enzo e Paolo contattano per la riunione anche Maurizio Montesi e Ezio Galasso, quell’anno entrambi in forza all’Avellino neo promosso in serie A. Il primo, destinato a far parlare di sé, è una giovane promessa laziale in prestito agli irpini con i quali ha conquistato la storica promozione. Il secondo è un centrocampista di origini friulane, anche lui arrivato in Campania l’ultimo anno di B.

Da Monza viene invitato invece Ezio Blangero, centrocampista cresciuto nella primavera del Torino. Infine vengono contattati anche Pino Lazzaro che gioca quell’anno in serie C nella padovana Monselice e Luciano Cesini della Cremonese. 

Paolo Sollier che dopo Perugia è andato a giocare a Rimini, coinvolge anche Dino Pagliari: «calciatore-hippy» quell’anno a Firenze dopo una stagione passata a Terni dove era stato compagno di squadra di Codogno e Ratti.

 

22 febbraio 1976, Lazio-Perugia. Nello striscione si legge "Sollier boia”.


 

Videla, Pertini, Basaglia

 

Pochi mesi prima della riunione di Terni il calcio ricorda al mondo di essere un gioco maledettamente serio. È l’estate del 1978 e l’Argentina del generale Videla ospita l’undicesima edizione dei mondiali. Le istituzioni dello sport non si scompongono e dinanzi alle richieste di boicottaggio tutti, o quasi tutti, preferiscono vedere lo spettacolo continuare. 

L’Italia, arrivata poi quarta, si presenta al gran completo con l’ossatura della squadra che avrebbe poi vinto i mondiali in Spagna. L’undici di casa si aggiudica il torneo e si racconta che durante le partite dell’albiceleste le torture e i «voli della morte» venissero sospesi per assistere alle gesta dei campioni. 

Come nell’Italia mondiale voluta da Mussolini nel 1934 e capitanata dal “balilla” Meazza, o come per le olimpiadi di Hitler del 1936, lo sport aveva scelto da che parte stare.

La nazionale di calcio che torna dal mondiale della dittatura trova a capo della Repubblica il socialista Sandro Pertini, eletto a seguito dello scandalo Lockheed che ha obbligato alle dimissioni il presidente Giovanni Leone. Il 23 giugno, due giorni prima della finale dei mondiali dove l’Argentina di Kempes batterà l’Olanda priva di Crujiff, a Torino si conclude il primo processo alle Brigate Rosse con le condanne ai capi storici Renato Curcio, Alberto Franceschini, Prospero Gallinari. 

Non sono settimane semplici quelle in cui Paolo e Enzo preparano la riunione del febbraio 1979. Due omicidi politici occupano le prime pagine dei giornali. Il 24 gennaio del 1979 le BR hanno assassinato a Genova il sindacalista della CGIL Guido Rossa e cinque giorni dopo un commando di Prima Linea fredda a Milano il giudice Emilio Alessandrini. 

 

Ma non sono solo gli scandali e la violenza a raccontare quei mesi. Tra il maggio e il dicembre del 1978 vengono infatti approvate la «legge 180» meglio nota come «legge Basaglia», la norma sull’equo canone per gli affitti e, a ridosso del Natale, la «legge 833» che istituisce il Servizio sanitario nazionale.

E in quell’Italia dalle mille contraddizioni lo spettacolo del calcio continua a scandire l’avanzare delle settimane con i suoi riti: alla radio le inconfondibili cronache di Sandro Ciotti in «Tutto il calcio minuto per minuto», al bar la schedina del Totocalcio, allo stadio la domenica le curve del tifo ora organizzato. E in strada per Terni ci sono due giocatori che più di altri sono il simbolo, loro malgrado, di una ribellione.

 

1979, Sollier a Rimini parla con "il Mago" Helenio Herrera.


 

Due capitani senza fascia

 

«Paolo Sollier è nato a Chiomonte (Torino) nel gennaio del ‘48. È calciatore e militante di Avanguardia Operaia». Così recita il retro di copertina di «Sputi e calci e colpi di testa. Riflessioni autobiografiche di un calciatore per caso» che esce per i tipi di Gammalibri nel 1976. 

È il diario-libro in cui Sollier critica il mondo del pallone e le ipocrisie che gli ruotano attorno. È un piccolo caso letterario che suscita polemiche e rende noto il «calciatore e militante». 

Sollier diviene un simbolo a cui guardano i giovani dei movimenti, e lui da parte sua si mette a disposizione: guadagna come un «buon impiegato» e quando può contribuisce con donazioni ai giornali che legge. È l’annata del Perugia in serie A e per Paolo il debutto nella massima serie. 

Il campionato è quello del 1975/1976 che vedrà il Toro aggiudicarsi lo scudetto ai danni della Juventus battuta all’ultima giornata, guarda un po’, dal Perugia. Ma Sollier, che rimedia con polmoni da fuoriclasse i limiti tecnici, fa parlare di sé in quel 1976 non tanto per le prestazioni in campo. 

È la vigilia di Lazio-Perugia del girone di ritorno e in sede di conferenza stampa si svolgono i soliti dialoghi tra giornalisti, allenatore e giocatori. A conferenza terminata l’inviato del «Il Messaggero», conoscendo le idee di Sollier e la distanza da quelle dei laziali, gli chiede come si sentirebbe a vincere la partita di domenica. La risposta, pronunciata come una battuta al bar, diventa il titolo a tutta pagina del quotidiano: «Battere la squadra di Mussolini sarà ancora più bello».

 

La domenica seguente il clima all’Olimpico è infuocato, tutta l’estrema destra romana è mobilitata. Sollier è nell’undici titolare, al momento dell’ingresso in campo come d’abitudine mostra il pugno chiuso: dagli spalti cominciano a ringhiare. La partita è brutta e Paolo non gioca bene. 

Al minuto sessantanove mister Castagner lo sostituisce. È il momento più delicato, per uscire dal campo Sollier deve passare sotto il settore degli ultras laziali e infilarsi nel tunnel per gli spogliatoi. Gli ultras biancocelesti scatenano la bolgia e uno striscione viene esposto nel cuore della curva: «Sollier boia». 

Prima e dopo la partita si scontrano le tifoserie, le polemiche vanno avanti per giorni. «Fu quella l’unica volta che scazzai in spogliatoio perché gli altri mi dissero di smetterla con queste cose che mettevo nei casini anche i nostri tifosi».

Per la cronaca fu un rigore di Chinaglia a decidere la partita in favore della Lazio. 

Sollier patisce i fari puntati sul personaggio e non sul calciatore, dopo la prima e ultima stagione in A ritorna nella serie cadetta tra le fila del Rimini. Vi rimane tre anni, l’ultimo dei quali vede sulla panchina dei romagnoli «il Mago» Helenio Herrera. È quello anche l’anno in cui i contatti con Enzo Belforte e Maurizio Codogno si intensificano per provare a organizzarsi. Nel momento in cui devono stilare la lista dei giocatori da invitare, in testa c’è un giovane borgataro che poche settimane prima si è fatto notare sulle colonne di «Lotta continua».

 

Il 23 dicembre 1978 il quotidiano dell’estrema sinistra pubblica nel paginone centrale un dialogo a tre sul mondo del calcio. I protagonisti sono Luciano Zecchini, Michele Nappi, rispettivamente stopper e terzino in forza al Perugia, e Maurizio Montesi dell’Avellino. È soprattutto quest’ultimo a far parlare di sé. 

L’attacco di Montesi al mondo del calcio è senza mediazioni: se la prende con dirigenti e giornalisti, con la politica che usa il calcio: «ci ha sempre speculato gente come De Mita, Bianco». È durissimo con i tifosi: li considera le vere vittime e gli ingenui complici del sistema calcio. Sono capaci di scendere in piazza per una partita persa, salvo poi rimanere indifferenti se «l’ospedale continua a far schifo». Ragazzi che in «nome del tifo» arrivano a «menarsi» tra simili facendo il gioco di chi comanda. 

Montesi critica il calcio e la città di Avellino: una delle «più povere d’Italia» che fa costruire un «grande enorme stadio». Mette a nudo la collusione, la grande speculazione in nome della passione sportiva. Sferzante è anche il giudizio rispetto ai suoi coetanei. Al giornalista che gli chiede perché molti vogliono fare il calciatore, lui risponde lapidario: «per la fica e la BMW». 

Ma il suo obiettivo principale rimangono i tifosi, i quali sono «stronzi» perché si fanno usare e alimentano un gioco che li sfrutta. Sono parole che rompono un’ipocrisia, ma a Montesi rinfacciano la mancanza di rispetto verso chi paga il biglietto la domenica. Lo mettono fuori rosa per qualche giornata, lo isolano. 

Maurizio Montesi era arrivato in Campania l’anno precedente, collezionando 21 presenze e contribuendo a raggiungere il terzo posto utile per salire in A. È una giovane promessa della primavera laziale che ha vinto lo scudetto con Lionello Manfredonia e Bruno Giordano. Giocatore inesauribile, unisce qualità e sostanza. Passionale e libertario, non si risparmia dentro e fuori il rettangolo di gioco.

 

L’ordine del giorno

 

Il 3 luglio del 1968 era nata a Milano per volere di alcuni calciatori (tra cui Bulgarelli, Mazzola, Rivera, De Sisti) e dell’avvocato già centravanti Sergio Campana, l’Associazione Italiana Calciatori: il sindacato della categoria. Sollier e soci hanno sul tavolo della riunione a Terni anche il ruolo dell’AIC: la valutazione è positiva, in quegli anni sono aumentate le tutele a favore dei giocatori. Non mancano però le critiche e la richiesta di maggiori garanzie sui contratti e sui diritti delle figurine. Inoltre si chiede più attenzione per il mondo dilettantistico e il tema del fine carriera che, soprattutto per chi milita nelle serie minori, è un’incognita. È quello il periodo dove si costituiscono i primi fondi pensione ma perché non pensare a un percorso di reinserimento nel mondo del lavoro, a corsi di formazione professionale?

Immaginano un sindacato meno corporativo, capace di prendere parola sui grandi temi e partecipare alle mobilitazioni nazionali. Come lavoratori vorrebbero che la loro categoria facesse parte di altre organizzazioni generali del lavoro. Ma questa nuova dimensione non interessa ai vertici sindacali e non riscuote consenso tra i colleghi.

I ragazzi riuniti da Belforte condividono un disagio per il ruolo che i calciatori stanno assumendo nella società dello spettacolo: sempre più lontani dalle persone normali, dalla loro quotidianità, sempre più star. Per questa ragione scelgono un modo per distinguersi: rifiutare di firmare autografi. Lo fanno per ridurre quella distanza, per disinnescare quel meccanismo. Col rischio di deludere, come succede a Maurizio Codogno. 

 

Al termine di un allenamento a Terni un gruppo di bambini si avvicina all’uscita del campo per chiedere autografi. Uno di loro si stacca dal gruppo con taccuino e penna alla mano. La domanda di Maurizio lascia il bambino interdetto: 

«Che lavoro fa tuo padre?»

«È operaio alle acciaierie.»

«Ma toglimi una curiosità, qualcuno a fine turno va a chiedergli l’autografo?»

Solo in questi anni quel bambino deluso per la firma mancata, ha ripreso carta e penna e si è messo alla ricerca di quel calciatore che lo fece arrabbiare: «I miei compagni mi presero in giro perché altri giocatori gli firmarono i fogli. Quando mio padre è mancato ho pensato alla vita che ha fatto, ai sacrifici… solo oggi capisco quel gesto». 

 

La copertina di "Calci e spunti in testa", Gammalibri 1976.



La riunione di Terni si conclude con l’impegno di provare ad allargare il gruppo, raccogliere materiale per fare qualche pubblicazione, organizzare la rete di relazioni. 

Passato qualche mese il gruppo si ritrova questa volta sulla collina di Firenze, nella casa di Fiesole che Dino Pagliari condivide con il compagno di squadra Ezio Sella. È una riunione fotocopia della precedente, non si è avanzato su nessuno dei punti all’ordine del giorno. Si fa fatica a dare concretezza ai tanti discorsi, poi ognuno è alle prese con la propria vita: una squadra da trovare per il nuovo anno, la famiglia, un futuro incerto. 

 

La fine di un’epoca

 

Domenica 6 maggio 1979 si gioca la penultima giornata del campionato ‘78/‘79. Al Milan, allenato da Nils Liedholm e guidato per l’ultima stagione da capitan Rivera, basta un pareggio casalingo con il Bologna per laurearsi campione d’Italia. La partita finirà zero a zero. 

Tre giorni prima, giovedì 3 maggio, nel Regno Unito si sono svolte le elezioni politiche. Ha vinto per la prima volta una donna: Margaret Thatcher.

Terminato il campionato Sollier, Montesi, Codogno e gli altri cercano di mantenersi in contatto, anche se l’idea del manifesto e del movimento di calciatori si allontana. 

Per Paolo la stagione finisce male, il suo Rimini retrocede in serie C e si prospetta un ritorno in Piemonte alla Pro Vercelli. Mitri dopo l’anno a Terni è di nuovo alla Triestina, mentre Codogno e Ratti rimangono in Umbria. Blangero, Pagliari, Lazzaro non si muovono rispettivamente da Monza, Firenze, Monselice. Mentre Cesini appende le scarpe al chiodo e inizia ad allenare la primavera della Cremonese. Da Avellino vanno via sia Galasso che Montesi, il primo al Lanerossi Vicenza in serie B e il secondo torna alla casa madre laziale. Ed è ancora Montesi a far parlare ancora di sé nei mesi successivi. 

 

La prima volta è in occasione della morte del tifoso laziale Vincenzo Paparelli prima del derby del 28 ottobre 1979. Il ragazzo viene colpito da un razzo lanciato dal settore dei sostenitori giallorossi, il giocatore della Lazio non vorrebbe giocare la partita in segno di protesta. Alla fine i compagni lo convincono, si gioca lo stesso ma con i settori occupati dai biancocelesti, la Nord e la Tevere, deserti. In un’intervista rilasciata nei giorni successivi al giornalista di «Panorama» Angelo Maria Perrino, Montesi si schiera contro il tifo violento, la connivenza delle società e della politica. 

Il titolo nelle edicole il 12 novembre 1979 è il riassunto del suo pensiero: «Fermate quel pallone». 

La seconda volta sarà ricordata per molto tempo. Tutto comincia con un infortunio. 

Durante Lazio-Cagliari del febbraio 1980 Montesi si frattura tibia e perone. Nei mesi della convalescenza un giovane Oliviero Beha esce sulle colonne di «la Repubblica» del 4 marzo con lo sfogo del giocatore. È l’inizio dello scandalo sul calcio scommesse conosciuto come «Totonero». 

Montesi racconta di essere stato avvicinato prima di Milan-Lazio del 6 gennaio di quell’anno dal compagno di squadra Wilson, il quale gli fece delle proposte economiche per vendere la partita. Montesi rifiutò e uscì dalla rosa dei titolari. L’intervista scatena un putiferio, parte un’inchiesta anche a seguito delle denunce di due commercianti romani. 

 

Il 23 marzo 1980 è in corso la ventiquattresima giornata di serie A, al triplice fischio finale sono le camionette di Polizia e Guardia di Finanza a fare invasione di campo. L’Italia assiste agli arresti di giocatori e dirigenti in diretta tv nel corso della trasmissione «90° minuto». Il marcio del mondo del calcio viene alla luce come mai prima di allora, al termine del processo sportivo varie squadre verranno penalizzate (Lazio e Milan saranno retrocesse) e diversi tesserati saranno squalificati. Tra questi c’è pure Maurizio Montesi: quattro mesi per omessa denuncia.

La vicenda di Maurizio colpisce molto gli altri del gruppo, era esattamente anche contro queste cose che volevano condividere e difendere un’altra idea di calcio. Ma nonostante ciò non riescono ad aiutare da vicino il compagno quanto vorrebbero, non sanno come rendersi utili e sale la loro frustrazione. La storia di Montesi sembra riassumere tutta l’incompiutezza della sfida che il gruppo avrebbe voluto lanciare. Le relazioni cominciano a farsi più saltuarie. 

Ad ottobre, quando sono andate in scena già quattro giornate del nuovo campionato di A, sono i «quarantamila in marcia» a Torino a vincere definitivamente la partita. Non sono ultras ma dirigenti e quadri della Fiat: «colletti bianchi» contro la protesta operaia. Vogliono il «ritorno al lavoro», la fine dei picchetti e degli scioperi. È il 14 ottobre 1980 e per le vie del centro del capoluogo piemontese si consuma la fine simbolica di un’epoca. 

 

L’uscita dal campo

 

Nel mondo del calcio ci sono rimasti, almeno per un po’, quasi tutti. Appese le scarpette al chiodo Sollier, Codogno, Ratti, Cesini, Pagliari si sono messi a fare «il mister». Squadre più o meno minori e giovanili. D’altronde se il tuo calcio è anche un’idea del mondo, è difficile non aver voglia di provare a insegnarlo. Altri come Mitri, Blangero, Lazzaro, hanno assecondato altre ambizioni: attore di teatro il primo, fisioterapista il secondo, giornalista freelance il terzo. 

Ad alcuni di loro capita, sporadicamente, di sentirsi. Tra loro c’è chi, come Codogno, Mitri, Sollier, racconta volentieri di quegli anni. Altri, come Pagliari o chi preferisce non farsi trovare, sono più reticenti: «ti avranno già raccontato tutto gli altri». 

L’uscita dal campo per molti di loro ha coinciso anche con una cesura importante della propria vita, in un contesto che stava cambiando radicalmente oltre e con loro. Ciò che sembra restare nitido è il ricordo della passione, per il resto prevalgono i dubbi e gli interrogativi. O, come mi scrive Pino Lazzaro, «eravamo solo un po’ “diversi” dagli altri calciatori, ognuno a cercare di capirci di più. Ora la mia di resistenza è nel metro quadro che mi sta attorno».

 

E poi c’è Montesi, uomo simbolo di quella parabola, anche dopo, soprattutto dopo. Scontata la squalifica Maurizio torna a giocare nella sua Lazio sino al 27 febbraio 1983. In quella giornata i capitolini giocano nel campionato di serie B contro la Sanbenedettese. Alla metà circa del secondo tempo un contrasto lo mette fuori gioco: di nuovo la tibia già operata, a 26 anni la carriera è già finita. 

Passa poco più di un anno e «La Stampa», in un trafiletto in basso a destra di una pagina interna, riporta distrattamente una notizia: «Montesi arrestato per droga. Era a Londra, arrivava da Amsterdam». È il 29 maggio 1984, da lì in poi sarà sempre così fino al 2 febbraio 1994: la condanna a quattro anni di reclusione per traffico di stupefacenti. Il fatto risale a due anni prima quando su un’imbarcazione al largo di Fiumicino vennero ritrovate oltre tre tonnellate e mezzo di hashish. Anche la seconda carriera termina anzitempo.

Difficile da marcare Montesi, oggi nessuno è pronto a scommettere dove sia finito, c’è chi dice Francia e chi Marocco. 

Enzo Belforte, che «con alcuni di quei ragazzi capita ancora di sentirsi», oggi è in pensione. Scrive sporadicamente e continua a seguire il calcio come osservatore. È rimasto sempre lì, a guardare le partite di chi famoso non lo è ancora o non lo sarà mai. 

È una giornata grigia e fa freddo mentre lo riaccompagno nella sua casa di Torino. Ha un ultimo pensiero che corre a quegli anni, si ferma davanti al portone e senza guardarmi negli occhi mi dice: «Sai qual è il problema? Da noi hanno sempre vinto quelli che giocano in difesa, quelli del catenaccio. Noi abbiamo tentato di giocare in avanti e di fare noi il gioco. E abbiamo perso. Avremmo dovuto difenderci meglio».

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