Un'intervista / Gipi e Critone: “Aldobrando, il mio lato più luminoso”

16 Dicembre 2020

Un eroe dal cuore puro e una principessa in pericolo. Un medioevo immaginario popolato da guerrieri brutali, stregoni e inquisitori machiavellici. Aldobrando, scritto da Gipi (al secolo Gian Alfonso Pacinotti) e disegnato da Luigi Critone, è un’avventura nel senso più classico del termine, ma per il fumettista pisano è anche un ritorno alla fantasia, dopo tanta realtà anche tormentata (come quella raccontata nel 2019 in Momenti straordinari con applausi finti). Ed è anche una prima volta: la prima volta di Gipi come sceneggiatore “puro”, la prima volta alle prese con una storia di totale fantasia. Per affrontare la prova, Gipi si è scelto come scudiero un amico, oltre che un disegnatore dal talento cristallino: Luigi Critone, fumettista italiano da tempo attivo in Francia. Insieme hanno creato Aldobrando, da poco pubblicato da Coconino Press, che in Francia (dove è uscito a gennaio per Casterman) ha già raccolto l’affetto del pubblico e diverse nomination ai premi più importanti del settore. Aldobrando è un ragazzo che non sa nulla della vita finché non lascia la casa del suo vecchio maestro per “correre il mondo”: un mondo che doveva essere originariamente quello medievale-fantasy di Bruti, il gioco di carte ideato e disegnato da Gipi nel 2015, ma che in questa storia, anche grazie al contributo di Critone, è molto più vicino alle atmosfere di L’armata Brancaleone che a quelle di una saga fantasy. In questa doppia intervista, Gipi e Luigi Critone raccontano come hanno costruito il mondo di Aldobrando.

 

Come è nata la storia di Aldobrando? E soprattutto come è nata l’idea di collaborare, come vi siete conosciuti?

 

Luigi Critone: Ci siamo conosciuti tanti anni fa a Firenze, poi ci siamo ri-conosciuti a Parigi, dove Gianni ha vissuto tre anni. Un giorno, nel lontano 2016, mi ha detto: “Senti, ma me la disegni una storia?”. La cosa mi ha colto impreparato perché da quello che sapevo non era nei suoi programmi collaborare con altre persone. Ci ho riflettuto mezzo secondo e ho detto “sì, va bene”. I suoi libri li ho sempre amati, conosco quello che fa anche da molto prima degli altri perché ci conosciamo da tempo, quindi sapevo che la cosa avrebbe funzionato dal punto di vista della sinergia, ne ero abbastanza sicuro e lo confermo quattro anni dopo.

 

Gipi: La storia era una cosa che avevo scritto… Era una storia che mi piaceva, era diversa da quello che avevo fatto fino a quel momento, non aveva quel carico di tormento che metto sempre nelle mie cose, praticamente era il lato più luminoso di me che era venuto fuori in una storia. Però il tipo di ambientazione richiedeva una quantità di conoscenze e di studio, dai costumi alle posate per mangiare… sapevo che non sarei riuscito a disegnarla. Mentre ci ragionavo ho visto uno degli ultimi libri di Luigi [la serie in tre volumi in cui Critone ha raccontato la vita del poeta francese medievale Francois Villon, ndr]. Che Luigi fosse un mostro a disegnare lo sapevo da anni. Quando stavo a Parigi, a volte si passavano le serate a disegnare tutti insieme con lui, Manuele Fior… Luigi era sempre quello che spaccava il culo a tutti a disegnare, era una cosa che tutti riconoscevamo.

 

Luigi: Ci divertivamo a fare i disegni nello stile degli altri.

 

 

Gipi: Luigi sapeva fare tutti, io non sapevo fare nessuno, questo dice tanto secondo me! Insomma non volevo che questa storia, che mi sembrava buona, positiva e per i miei gusti anche avvincente, morisse nel cassetto. E quindi gli ho chiesto di disegnarla – una cosa che non avevo mai fatto, che non avevo mai pensato di poter fare – e l’ho fatto proprio per una stima incondizionata del suo lavoro. Se avessi avuto anche solo un dubbio, che so, sulla forma di un naso, non ce l’avrei fatta, avrei patito troppo durante la lavorazione.

 

Luigi: Devo aggiungere che quando lui mi ha detto “Mi disegni una storia?” – mi ricordo la frase precisa – non sapevo assolutamente di cosa si trattava, per cui mi dicevo “Sì, fichissimo, disegno una storia scritta da Gianni, finalmente mi libero di ‘sta roba medioevale che mi appioppano sempre”, e lui mi ha detto “guarda, è una storia ambientata in un medioevo immaginario…” No, non ne uscirò mai! [Ridono, ndr]

 

Non so se Aldobrando si possa definire una storia di genere, sicuramente è una storia puramente fantastica. Mi sembra che nei tuoi libri, Gipi, ci siano spesso queste “deviazioni” sui generi: storie di pirati o storie di guerra che si mescolano alla narrazione principale. Nel tuo ultimo lavoro, “Momenti straordinari con applausi finti”, una delle linee narrative è la storia di alcuni astronauti perduti… qual è il tuo rapporto con questo tipo di storie?

 

Gipi: Ne ho tante di storie… quella degli astronauti in Momenti straordinari in realtà è una sceneggiatura completa: nella mia testa era proprio un film di fantascienza. Il fatto è che sono anche tanto cambiato negli ultimi anni. Quando ho iniziato questo lavoro, a 37 anni, ero un integralista della realtà. Ritenevo la fantasia, con la quale del resto ero cresciuto e in cui ero stato immerso per tutta la vita, un nemico. Pensavo che fosse il mio nemico nel riuscire a raccontare le cose che volevo raccontare. Ho dovuto fare un lavoro di distruzione di quella parte fantastica, e allo stesso tempo un lavoro di studio e costruzione di uno sguardo sulla realtà. Volevo raccontare le storie dei miei amici sin da quando avevo 17 anni, ma dove li mettevo? Nella mia testa non c’era l’immagine, non c’era il disegno giusto… I posti dove le avventure avevano avuto luogo non erano “belli”, le panchine di un parco pubblico a Porta, a Lucca e a Pisa non erano proprio all’altezza dei draghi che mi piaceva disegnare da ragazzo. Allora ho dovuto fare un lavoro di scoperta di quanta bellezza ci fosse nella realtà, nella realtà nuda. Andavo fuori dall’Ipercoop di Navacchio [in provincia di Pisa, ndr] e trovavo le forme e la bellezza anche lì. Quando ci sono riuscito, con tanto lavoro di disegno dal vero, ho potuto finalmente raccontare le storie che volevo raccontare. Con gli anni questo mio integralismo sulla realtà si è abbassato, non serviva più, quindi la voglia di andare in altri posti, in altri mondi, in altre ambientazioni è cresciuta. E poi penso che alcune storie abbiano proprio bisogno di essere ambientate da un’altra parte. Aldobrando non riesco a immaginarlo in una storia parallela ambientata a Torremaura, per dire… Doveva stare fuori dalla contemporaneità.

 

 

Invece tu, Luigi, finora ti sei “specializzato” in un particolare tipo di fumetto, il fumetto storico, che in Francia è ben sviluppato e a cui forse in Italia non siamo molto abituati, me ne puoi parlare?

 

Luigi: Il fumetto storico in Francia ha un grande pubblico. In un certo senso Hugo Pratt faceva già questo genere, questa fiction storicamente corretta, e infatti i francesi se lo sono adottato. Però si può declinare in tanti sottogeneri, per esempio un mio lavoro, Sept missionaires, era una storia completamente inventata ma inserita in un contesto storico abbastanza preciso. Je, Francois Villon era un lavoro più storico, anche se c’era una piccola parte d’invenzione. Io mi ci sono trovato, probabilmente perché avevo lavorato in Italia nell’illustrazione storica (nei musei, per esempio), quindi mi ero formato a quel tipo di ricostruzione e mi ci sono trovato bene. Però Aldobrando per me è stata una boccata d’aria fresca perché ero molto più libero, ho potuto fare tesoro del mio background e portarlo in altre direzioni. La sceneggiatura di Gianni era una sceneggiatura aperta, in cui le pagine non erano indicate ma c’era semplicemente una sceneggiatura cinematografica. Io mi sono potuto occupare della divisione in pagine, e questo per me è il modo più divertente in assoluto di lavorare. Non facile, perché comunque si aggiunge un livello in più, però non c’è paragone: idealmente è il modo in cui si dovrebbe lavorare.

 

Come avete lavorato per costruire il mondo di Aldobrando? Nelle prime pagine del fumetto capiamo subito che è un posto dove regna la violenza, dove però c’è anche spazio per l’ironia. Mi sono segnato i nomi dei luoghi in cui si muovono i personaggi: paesi che si chiamano Duefontane, Dugroppe, Duefianchi… 

 

Gipi: Mi sono fissato sulla dualità! No, non hanno nessun significato… mentre lavoravo a un certo punto mi veniva di scrivere un posto e prendevo la prima parola buffa che mi veniva in mente, se ci avessi riflettuto di più non avrei messo sempre due, due, due…

 

Però fanno capire al lettore il tono del racconto…

 

Luigi: Ho fatto una mappa, ci sono tutti quelli nominati nella storia.

 

 

Gipi: Duefianchi non c’è… le odalische di Duefianchi! (Ride) Devo ammettere che ho una modalità lavorativa veramente cialtronesca, niente a che fare con i fumettisti del passato che facevano ricerca seria. Io vado molto d’istinto, appena una cosa mi sembra avere il suono giusto per quel momento lì, per quell’ambientazione, sono a posto, non mi faccio altre domande, vado avanti, ne invento un’altra, poi ne invento un’altra… quando ho finito questa storia l’ho fatta leggere a mia moglie e le ho detto “Mi controlli che non abbia fatto casini?”, tipo gente che abita lì poi di botto abita da un’altra parte, perché più che altro mi concentravo proprio sulla struttura, sulla trama in sé, il resto mi veniva naturale, è una cosa da super fan di Brancaleone, una cosa che ho dentro fin da ragazzo. Se sei uno serio, ti puoi mettere a fare le backstories di ogni personaggio, la storia del posto, cosa è avvenuto cento anni prima… tutte cose che poi probabilmente ti servono per lavorare, ma in realtà quello che penso di aver capito facendo delle storie è che al lettore bastano due indizi che senta suonare familiari per costruirsi tutto quello che gli serve, per immaginare la solidità dell’ambiente. L’importante è che quegli indizi siano coerenti tra di loro e con i personaggi. Cioè, se un paese si fosse chiamato Wellington secondo me si rompeva la costruzione di questa illusione.

 

E tu Luigi? In teoria doveva essere un mondo fantasy e invece è diventato un medioevo più realistico, più familiare a noi…

 

Luigi: In realtà per me lo era dall’inizio, tra l’altro una delle cose che mi piaceva della sceneggiatura di Gianni era che di fantasy c’era ben poco, non lo definirei neanche un fumetto fantasy. Qui in Francia è stasa usata molto la parola conte, favola. Io ho fatto per anni fumetto storico e questo mi porta naturalmente a dare un aspetto reale a quello che disegno, però l’ho fatto anche di proposito: secondo me la sceneggiatura di Gianni andava disegnata così, almeno da me, magari un giovane disegnatore più dentro al mondo dei giochi di ruolo, del fantasy, ci avrebbe messo qualche fibbia in più… io invece sono stato forse più scarno su certe cose. Mi piaceva che sembrasse – l’esempio di Brancaleone è giusto – un film fatto con mezzi limitati, senza voler spettacolarizzare a tutti i costi: alla fine i personaggi sono tutti molto terreni.

 

Gipi: Lavorando non ho mai pensato a riferimenti di storie o film fantasy, per esempio per la scena in cui Ser Gennaro e Aldobrando arrivano nella prima taverna [nelle prime tavole del fumetto, ndr], il mio riferimento era il bar di Navacchio dove andavo a fare colazione. Quel tipo di brutalità lì è esattamente quella che ho sempre avuto attorno in Toscana. Chi è cresciuto in provincia, in paesini, è stato tirato su in ambienti così. È una brutalità anche buffa, perché nessun personaggio eccede davvero, è come se fossero dei cani che si ringhiano contro e nessuno si morde mai.

 

 

A proposito di personaggi, anche qui i nomi hanno una loro importanza. Lo stupratore di vedove, L’ucciditore, Boccamarcia… Molti personaggi hanno due nomi e sembra quasi che la vera avventura sia cercare il proprio vero nome, quindi la propria identità. È così?

 

Gipi: Anche quella dei nomi è una fissa che ho da quando ero ragazzino… a Vecchiano, un paese in provincia di Pisa vicino a dove abitavo io, le cose stavano così: nessun abitante di Vecchiano era chiamato con il nome di battesimo, nessuno. Avevano tutti dei soprannomi, e il soprannome era imperituro, a volte guadagnato per una cazzata fatta in un momento, neanche per un’abitudine radicata. Il mio amico Fachiro aveva fatto una volta una recita alle medie vestito da fachiro, ed è rimasto Fachiro per sempre. E poi questi soprannomi si passavano addirittura di padre in figlio. I nomi secondo me sono l’anima del personaggio. Come i soprannomi di Vecchiano comunque rispecchiavano un evento della tua vita e poi magari ne condizionavano il resto, così per questi personaggi: nel loro nome c’è un po’ della loro storia. Aldobrando in particolare era un ragazzo che conoscevo, molto forte, molto violento e che morì.

 

Luigi: Ah sì?? Questa non la sapevo!

 

Gipi: Era un energumeno pisano, però non ha niente a che fare con l’Aldobrando della storia, mi è venuto quando ho creato il personaggio per il gioco Bruti – c’era già in Bruti, però era grande, era cresciuto, Luigi invece l’ha preso quando è ancora piccolo – e sono andato a mettere il nome, ma non avrei mai pensato che ci avremmo fatto un fumetto e che l’avremmo chiamato così.

 

Chi ha ideato l’aspetto che ha Aldobrando nel fumetto?

 

Gipi: L’ha partorito Luigi.

 

Luigi: Ho iniziato a disegnarlo partendo da quello che si sapeva di lui dal gioco, dove è più adulto però ha ancora lo stesso taglio di capelli, per cui ho ripreso quello, ho cominciato a disegnarlo come lo immaginavo io, poi ne abbiamo parlato, l’abbiamo guardato insieme ed è venuto fuori questo personaggio… che ora tutti definiscono bruttino! A me non pare brutto Aldobrando!

 

Gipi: È un tipo!

 

 

È l’unico personaggio che ha questi occhietti a pallino…

 

Lui: Quelli sono venuti da soli, all’inizio gli disegnavo occhi un po’ più normali, poi piano piano si è semplificato. Qualcuno mi ha fatto notare che quasi ogni personaggio ha un suo codice grafico diverso. Ser Gennaro è più caricaturale, Boccamarcia un po’ più realistico… In effetti è vero, ma è una cosa che ho fatto senza programmarla.

 

A proposito di codici grafici, potete parlarmi del lavoro dei due coloristi, Francesco Daniele e Claudia Palescandolo?

 

Gipi: Hanno dovuto lavorare duramente e sono stati bravi. Il colore non è mai accessorio in questo libro, ci sono storie dove puoi togliere il colore e tutto funziona lo stesso, mentre in Aldobrando è tutto organico: ad esempio il passaggio che hai dal caldo di una taverna al gelo della neve, lo senti proprio bene. Lo stesso per i gialli della scena finale o i verdi dei momenti di gioia.

 

Luigi: Il colore è parte della narrazione, in questo caso. È molto difficile fondere insieme aspetti diversi, il colorista ovviamente vede le cose in modo suo e può non coincidere con quello del disegnatore o dello sceneggiatore. Ci siamo trovati bene, a partire dalla sceneggiatura di Gianni: io capivo dove voleva arrivare, capivo cosa doveva passare in una certa scena, e questa cosa poi è continuata, è colata fino ai coloristi. Non facile, sono alchimie rare.

 

 

 

Da lettore, ho apprezzato moltissimo il fatto che Aldobrando sia evasione nel senso più nobile del termine: per un paio d’ore sei trasportato in un altro mondo, in un mondo per essere proprio sinceri dove non c’è una pandemia in corso. E credo che questo valga per molti altri lettori. Vorrei chiedere però a voi che vi occupate di creare storie in che modo la situazione che stiamo vivendo influisce sul vostro lavoro? Quali storie è il momento di raccontare?

 

Gipi: Per me la situazione attuale è irrapresentabile, non ne ho voglia… c’è troppo dolore in giro, non mi va di dire “Adesso invento una cosa figa da ambientare durante la pandemia”, secondo me uno deve anche essere capace di stare buono, zitto e fermo. Passerà, e si ricomincerà a fare altre cose. Magari tra qualche anno uno potrebbe aver voglia di dire “Fammi ricordare com’era”: il fattore tempo è sempre importante per raccontare le storie, almeno per il mio gusto. Ho sempre bisogno che siano passati anni, che le cose si siano depurate. E poi io sono un ipocondriaco, ogni colpo di tosse per me è un colpo di pala al cimitero! Quindi sto lavorando a una storia ambientata in un sotterraneo, una cosa un po’ fantasy-folle, fuori dal tempo, tutta scritta in italiano arcaico inventato, incistato da termini nerd modernissimi.

 

Luigi: Sicuramente Aldobrando è una storia abbastanza feel good: non ci tormenta più di tanto, e sicuramente in un momento così chi legge ha bisogno di storie di questo tipo. Non sono sicuro se considerarla una buona notizia. Il successo di Aldobrando mi fa piacere, però allo stesso tempo mi chiedo se abbiamo bisogno di storie così perché in realtà stiamo malissimo… speriamo che non ce ne sia sempre bisogno. Aldobrando è l’avventura, questo per me è stato lampante da quando ho letto la prima sceneggiatura di Gianni. Abbiamo giocato con una struttura che è predefinita, è una di quelle storie che sai dove va a finire (anche se c’è chi è rimasto sorpreso dal finale), e dal punto di vista di chi la scrive e di chi la disegna è divertentissimo giocare con i codici dell’avventura classica. È qualcosa che non invecchierà mai, una storia che stiamo raccontando da migliaia di anni, è sempre divertente averci a che fare.

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