Vice Versa

12 Giugno 2013

Nel Padiglione italiano alla Biennale di Venezia attraversiamo luoghi individuati con precisione: una vecchia piazza di paese che si specchia senza mescolarsi in un anonimo spazio urbano; un ambiente interamente in laterizio che ha il volume monumentale e l’umidità antica di un pezzo di archeologia industriale; le macerie di un terremoto o di un enorme crollo su cui ci arrampichiamo guardinghi. Ci sono anche un barbiere di quelli di una volta e un paese intero, Casale Monferrato. Vice Versa, la mostra curata da Bartolomeo Pietromarchi, è un omaggio all’antinomia, uno dei tratti distintivi (e positivi) dell’antropologia e della cultura italiane. Ispirandosi alle Categorie Italiane di Giorgio Agamben (1996), il curatore ha individuato sette coppie di concetti e quattordici artisti che li rappresentano, interpretano, evocano. Dopo l’orgia additiva e claustrofobica del Palazzo Enciclopedico di Massimiliano Gioni, Vice Versa – che troviamo alla fine delle infinite Corderie – è uno spazio arioso, dove le opere finalmente respirano. Il cambio di passo è netto: gli artisti di Vice Versa creano spazi che attivano altri sensi oltre alla vista e offrono una dimensione esperienziale della quale si sente la mancanza nella pur dottissima, affascinante e lussuosa Wunderkammer che ci siamo appena lasciati alle spalle.

 

Flavio Favelli, foto Roberto Galasso

 

Le installazioni di Flavio Favelli e Marcello Maloberti condividono l’ambiente dedicato alla coppia “familiare/estraneo”, ma potrebbero evocare anche opposizioni come “vernacolare/colto” o “rurale/urbano”. La Cupola di Favelli è una miniatura di San Pietro, con tanto di tamburo e lanterna. In realtà è la sommità di una cassa armonica trovata nel Salento che ospitava le orchestre durante le feste di paese; Favelli ne ha eliminato il registro centrale, schiacciandola su se stessa. Ricoperta da innumerevoli strati di un’inconfondibile vernice cilestrina, la Cupola è un volume chiuso e proprio per questo è inevitabile immaginarla spalancarsi improvvisamente al suono fragoroso di un’orchestra.

 

Marcello Maloberti

 

Di fronte a questa fusione del vernacolare con l’archetipo del classicismo, Marcello Maloberti ha piazzato La Voglia Matta: un blocco di marmo di Carrara sul quale quattro ragazzi creano con degli asciugamani da spiaggia un’architettura instabile e improbabile, una “stanzetta” per usare le sue parole. Attorno al monolite orbitano cinquanta sculture viventi: delle strutture geometriche che giocano con le forme del costruttivismo, Osvaldo Licini e l’astrattismo italiano degli anni Trenta, e ricordano anche i tavolini dei bar che affollano le piazze italiane. Le indossano cinquanta ragazzi con il supporto di sottili cinture borchiate, quasi fossero collane.

 

Luigi Ghirri

 

Luigi Ghirri e Luca Vitone sono accostati nell’ambiente “veduta/luogo”. Assieme a Fabio Mauri e Giulio Paolini, Ghirri è uno dei tre artisti che Pietromarchi ha scelto come punto di partenza per la sua narrazione dell’arte italiana presente. Di Ghirri è in mostra un’ampia selezione di Viaggio in Italia (1984), l’opera collettiva di cui fu regista e attore, che trasformò nella prima metà degli anni ottanta il modo di rappresentare il paesaggio italiano, soffermandosi per la prima volta in maniera sistematica sulle trasformazioni che il territorio aveva attraversato nel dopoguerra. La trasformazione era avvenuta anche nello sguardo dei fotografi, non più oleografico o neo-realista ma intellettuale e affettivo al tempo stesso. Come scrive Marco Belpoliti nel catalogo, “è stata abolita la separazione tra mondo oggettivo e soggettivo […] osservazione, memoria e fantasia lavorano sullo stesso piano”. Sulle pareti del grande spazio vediamo soltanto le immagini di Viaggio in Italia, essenziali e malinconiche, di una varietà straordinaria per i cambi di scala, di sguardo e di atmosfera. Scattate a cavallo degli anni settanta e ottanta, queste immagini apparentemente così ordinarie sono per la generazione degli artisti in mostra, e per tutti noi nati tra gli anni sessanta e settanta, la comune memoria visiva, collettiva e intima, per aggiungere un ulteriore binomio a quelli già presenti in Vice Versa.

 

Luca Vitone

 

A quest’opera monumentale Luca Vitone risponde in maniera assolutamente geniale. Il suo lavoro, Per l’Eternità è un odore invisibile. Si sente a volte fortissimo, a volte quasi impercettibile; è dolciastro e amaro, vagamente plasticoso. È l’odore dell’Eternit che a partire dal 1907 ha avvolto l’esistenza dei cittadini di Casale Monferrato, uccidendoli. Vitone ha costruito la sua “scultura acromatica monolfattiva su tre note” con l’aiuto di Maria Candida Gentile, maestro profumiere, testandola con gli abitanti di Casale Monferrato. Con questo lavoro straordinario, che ci fa sentire l’odore di un luogo preciso avvolgendoci nella parabola della industrializzazione novecentesca, Luca Vitone ha colto un possibile registro “civile” contemporaneo, immateriale, accurato ed empatico, universalmente comprensibile. Il 3 giugno, due giorni dopo l’apertura della Biennale, la Corte di Appello di Torino ha condannato i due ex presidenti del Consiglio di Amministrazione dell’Eternit a diciotto anni di carcere, disponendo il risarcimento di 30,9 milioni di Euro agli abitanti di Casale Monferrato.

 

Elisabetta Benassi, foto Roberto Galasso

 

Elisabetta Benassi e Massimo Bartolini non sono abbinati ma le loro installazioni, pur diversissime, partono entrambe da detriti e macerie. L’installazione The Dry Salvages di Benassi si estende in tutto l’ambiente “sistema/frammento” che condivide con Gianfranco Baruchello. Siamo circondati da mattoni, quelli antichi delle pareti delle Corderie e i 10.000 di argilla cotta, ognuno marchiato con dei codici alfanumerici, che l’artista ha ordinatamente collocato sul pavimento. Camminiamo su “un cielo capovolto” dove ogni mattone corrisponde a un detrito che vaga nello spazio: pezzi di satelliti, sonde, e quant’altro è stato lanciato oltre l’atmosfera a partire dagli anni Cinquanta; una specie di pattumiera galattica, costantemente monitorata dai ricercatori delle varie agenzie spaziali del mondo. In un trasparente omaggio ai Mille Fiumi Del Mondo di Alighiero Boetti e Anne Marie Sauzeau (1970 – 77), Benassi ci fornisce un libro nel quale possiamo scoprire l’origine e la dimensione del frammento che si trova sotto i nostri piedi. Benché avvolti da mattoni antichi e nuovi, cotti nell’argilla del Polesine, siamo in realtà in una fedele rappresentazione dello stato attuale del cosmo.

 

Massimo Bartolini, foto Roberto Galasso

 

Massimo Bartolini condivide con Francesca Grilli l’ambiente suono/silenzio, benché gli spazi delle opere siano separati e il dialogo non sia facile da cogliere. Due, l’installazione di Bartolini, è l’apoteosi del Vice Versa. L’artista ha usato una preesistenza architettonica, una rampa bianca e pulita disegnata da Franco Purini che porta a un piccolo ambiente, e l’ha ricoperta di macerie. O meglio, ha realizzato il calco di tonnellate macerie, l’ha colato in bronzo e l’ha collocato sulla rampa. Nelle sue parole, Due “è una statua che rappresenta un paesaggio che ha per soggetto delle rovine sulle quali si può camminare” lungo un percorso che non conduce a nulla. In realtà le rovine di Bartolini sono macerie ed è difficile non andare con il pensiero a terremoti e crolli recenti, ma questo registro dolente, reso ancora più potente dall’uso del bronzo, è sovvertito dalle cinque opere di Giuseppe Chiari che Bartolini ha incluso nell’installazione. Cinque scritte che ci esortano a Camminare, Ascoltare, Cantarellare, Fantasticare, e anche a Pianoter, azione che possiamo inventare a piacere.

 

Piero Golia, foto Laura Einaudi

 

Per l’evergreen dell’immaginario italiano, il binomio “commedia/tragedia”, usciamo all’aperto, in tutti i sensi. Con Parallel Paradox, Sisley Xhafa ha sintetizzato l’istituzione nazionale del barbiere con la dimora del Barone Rampante, piazzando un parrucchiere su un bellissimo albero dove ci si può arrampicare, darsi una sistematina e fare due chiacchiere. Piero Golia, con Untitled, My Gold is Yours, ha impastato un chilo di sabbia d’oro in un cubo di cemento di due metri e mezzo per lato. L’effetto è un volume chiaro marezzato di foglie dorate, che a fine Biennale sarà probabilmente scomparso, perché già durante l’inaugurazione grandi e bambini hanno cominciato ad assaltarlo armati di sassi.

 

Sislej Xhafa

 

Scrivendo nel catalogo sulla coppia “commedia/tragedia”, Andrea Cortellessa si sofferma sulla “rimozione del tragico per mezzo dell’assoluzione dell’individuo, il quale se la procura con l’indifferenza alla verità”, con l’illusione. Di tutto questo Pinocchio è il principe, il “grande credulone” prigioniero inconsapevole del Complesso della Cuccagna: il miraggio di fortune improvvise che trasformeranno la nostra esistenza. In tempi recenti questo complesso ha raggiunto proporzioni da emergenza sociale, con l’ossessione del gioco d’azzardo che sta distruggendo la vita di migliaia di persone, mentre arricchisce la mafia e lo stato. Nel binomio “commedia/tragedia” la tragedia è nascosta, quasi ci si inciampa, ma non per questo è meno folgorante. Tractatus Logicus Flat, di Sisley Xhafa è una bara posata in terra, completamente ricoperta di biglietti della lotteria: l’unica certezza è la calamita per l’illusione della fortuna. Anche in questo caso, l’opera di Xhafa dà forma al nostro presente, per esempio alla tragedia dell’uomo rovinato dal gioco che il 28 aprile ha sparato davanti a Palazzo Chigi.

 

È arduo, se non impossibile, per un visitatore italiano sottrarsi ai possibili collegamenti tra quello che attraversiamo negli ambienti di Vice Versa e l’attualità della nostra vita nazionale. È una trappola, come lo è il concetto di identità nazionale, specialmente se italiana, ma Bartolomeo Pietromarchi e gli artisti di Vice Versa si mettono in gioco con estrema serietà e senza pesantezza. E fanno un po’ d’ordine nella cacofonia del nostro presente, offrendoci la traccia di un immaginario largo, profondo, finalmente condivisibile. Forse, dopo Vice Versa, il Padiglione italiano alla Biennale di Venezia sarà finalmente libero dal peso di rappresentare l’identità italiana, qualsiasi cosa essa sia.

 

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