Classici italiani / Celati: intensità libere, armonia e fantasticazioni

6 Settembre 2021

In un articolo comparso nell’ottobre del 1988 su “Il Manifesto” e intitolato L’angelo del racconto, Gianni Celati scriveva che le narrazioni ci servono per «immaginare com’è fatto il mondo attraverso un buon ascolto delle parole» e avvertiva al contempo l’affermarsi di una tendenza — sempre più diffusa e forse proprio per questo non priva di rischi — a sostituire l’istinto narrativo con la cruda spiegazione della realtà. Quella che Celati andava delineando era una vera e propria crisi dell’arte del narrare, che appariva ancora più evidente se si gettava uno sguardo al panorama letterario del tempo: una buona percentuale dei romanzi moderni sembrava infatti assolvere a un obbligo di illustrare e drammatizzare il reale a discapito dell’esercizio immaginativo. In questo modo le narrazioni si trasformavano in «prodotti soggettivi», costruiti dagli scrittori a loro immagine e somiglianza e questo spingeva il lettore a interessarsi sempre maggiormente all’autore di un testo in quanto individuo, rendendosi invece sordo al linguaggio e alle parole.

 

Su questo Celati tornerà anche in un’intervista uscita anni dopo su “L’Unità” a cura di Luca Sebastiani, a cui dirà che le prime avvisaglie di una mutazione si erano percepite già alla fine degli anni Settanta, quando i meccanismi che governavano l’editoria stavano virando verso il «trattamento dello scrivere come merce, il nome dell’autore come feticcio, […] il culto delle graduatorie dei romanzi più venduti». I vecchi narratori si tenevano invece a distanza dai soggettivismi ed erano mossi, secondo Celati, da un desiderio di guidare progressivamente il lettore «verso un’esperienza memorabile, riguardante uno stato d’emergenza»: chi ancora oggi li legge è quindi orientato, e non direttamente esposto, all’interno della storia e riceve dall’autore gli strumenti necessari per ascoltarne il linguaggio e per disvelarne gli enigmi, attivando così le proprie capacità d’immaginazione. Quando parla di vecchi narratori, Celati sembra riferirsi a quei classici della letteratura con cui ha sempre intrattenuto un rapporto privilegiato e di dialogo, quelle letture che sono entrate a far parte, per motivi spesso differenti, del suo campo affettivo.

 

Nel suo Gianni Celati e i classici italiani. Narrazioni e riscritture (Franco Angeli editore, 2020), Elisabetta Menetti è riuscita a ricostruire l’interesse, ampio e vivo, che lo scrittore ha manifestato nel tempo, in modo più o meno dichiarato, verso alcuni grandi testi delle nostre lettere e attorno ad alcuni degli assi portanti della narrativa italiana. I nuclei di ricerca a cui Celati si è interessato come lettore e studioso, e che ha poi messo in pratica come narratore, sembrano tra loro saldamente legati e ascrivibili, secondo Menetti, a tre «gruppi di valori: le “intensità libere”, l’armonia e la fantasticazione», tratti accomunati dall’esigenza di individuare una «letteratura estesa, che si colloca oltre il tempo, al di là dei generi e al di fuori degli spazi conosciuti». Il concetto di fantasticazione, per esempio, parola che è stata coniata dallo stesso Celati e che è poi divenuta centrale per la sua poetica, porta con sé l’idea di una spinta narrativa che poggia sulle disposizioni affettive e sulle emozioni delle singole persone. Si instaura in questa maniera una forma di comunicazione - tra chi narra e chi si mette all’ascolto - in cui la percezione della realtà è consapevolmente mediata dalla finzione e le sensibilità di ognuno possono alterare gli equilibri già esistenti e generare immagini sempre nuove.

 

 

Non sembra così lontana la lezione di Italo Calvino, che nel suo saggio I livelli della realtà in letteratura (1978) ricordava che all’interno di un’opera letteraria sono rintracciabili diversi gradi di realtà, che possono incontrarsi e rimanere comunque autonomi e distinti o possono invece unirsi e trovare un punto di fusione. L’opera letteraria gode, secondo il pensiero di Calvino, di una credibilità «interna alla lettura, una credibilità come tra parentesi, alla quale corrisponde da parte del lettore quell’atteggiamento definito da Coleridge (…) sospensione dell’incredulità»: si tratta di una sorta di tacito accordo tra chi narra e chi ascolta una storia, e garantisce la riuscita «di ogni invenzione letteraria». Come sottolinea bene Elisabetta Menetti nel quarto capitolo del suo libro, dedicato all’interesse celatiano nei confronti della novella, non è possibile pensare il progetto di scrittura dell’autore senza considerare due elementi ereditati dal novellare antico: «lo stile conversativo e la dimensione collettiva del racconto».

 

Lontano dalla sfera individuale e dagli autoriferimenti, slegato dall’idea di una scrittura “in proprio”, Celati decide di prendere a prestito dai vecchi narratori un modo di raccontare naturale «che si basa sulla collaborazione tra chi narra una storia ad alta voce e chi la ascolta». Questa pratica è appartenuta particolarmente a Boccaccio e ha costituito un elemento di vera innovazione per la sua epoca: non solo l’utilizzo dei modelli della conversazione informale per unire tra loro soggetti narrativi differenti, ma anche l’idea di una «compagnia d’ascolto» che ha la duplice funzione di ricordare che le storie nascono, per loro natura, all’interno di una dimensione plurale e nella collettività, e di fungere da strumento capace di legare tra loro le vicende raccontate e con esse i loro fattori di novità. Non a caso Celati apre la sua raccolta di novelle (Narratori delle pianure, 1985) con un ringraziamento «a tutti quelli che mi hanno raccontato storie» e dedica la sua versione in prosa dell’Orlando innamorato del Boiardo «a quelli che amano leggere i libri ad alta voce». Nel suo Elogio della novella, Celati insiste sull’idea che le narrazioni non possano limitarsi a restare soltanto entro i margini del testo e che il narrare «a circuito chiuso» impedisca il libero e incontenibile circolare delle diverse forme del linguaggio, esattamente come accade con quei romanzi moderni che vogliono fungere da «specchio della supposta realtà».

 

Ha invece più senso propendere per la trasmissione delle storie, far sì che il racconto non si fossilizzi ma costituisca, all’opposto, un’apertura verso il mondo esterno, qualcosa di davvero mai definitivo. In questo senso le riscritture giocano un ruolo di fondamentale importanza nell’esperienza celatiana, perché chi riscrive assolve anzitutto al ruolo di traduttore, di colui che deve mediare e farsi portatore di una storia già raccontata, spesso lontana dal proprio tempo e dal proprio orizzonte culturale. Bisogna allora trattare il testo come un evento, ed essergli fedeli non significa affannarsi a colmare quello scarto, quel divario sociale e linguistico che è giusto e inevitabile ma, come scrive Elisabetta Menetti, significa «appropriarsi del testo in un processo di assorbimento e rielaborazione creativa» che non deve obbligare chi scrive ad adeguarsi a quello «standard pedagogico-morale» vincolato dai principi di uniformità, semplificazione, e fedeltà in senso stretto. C’è un filo rosso che lega le traduzioni e le riscritture, scrive Celati, ed è «l’emozione di metterti in un flusso di immagini che ti guidano momento per momento» e lo stesso tipo di agevole sforzo è richiesto al lettore: abbandonarsi al racconto, alle sue divagazioni, ai suoi movimenti. Raccontando di quando si è cimentato nella riscrittura in prosa dell’Orlando innamorato, Celati ha detto di aver lavorato in uno stato di «contentezza assoluta» nell’andar dietro alle invenzioni di Boiardo, e ha confessato di essersi più volte figurato di raccontare il poema a suo padre e a sua madre, portando con sé la sensazione di trovarsi in famiglia. E questo pare essere la conferma di un’altra convinzione dell’autore, ovvero che tutti i testi vanno pensati non come oggetti solidi e compiuti, ma come modi collettivi di narrare e di immaginare la vita. 

 

Passando in rassegna il rapporto di Celati coi classici e poi anche le sue prove narrative e di adattamento, nel suo saggio Elisabetta Menetti ha toccato, tra gli altri, due punti che mi paiono centrali per comprendere meglio la posizione dell’autore: la riscrittura è per Celati inseparabile dalla lettura e dal proprio lavoro di scrittura, è «una sorta di espansione dell’io narrativo che desidera perdersi nelle parole degli altri narratori, abbandonando ogni approdo e sicurezza» e poi, di certo non meno importante, l’idea che Celati ricavi dalla lettura dei classici delle visioni, delle apparizioni evanescenti e che si esponga, partecipi «emotivamente con il coraggio di chi non chiede approvazioni accademiche». E appare allora più chiaro come quei testi che per Calvino si configuravano «al pari degli antichi talismani», per Celati siano invece materia cangiante, modellabile e intemporale, come «un pullulare di motivi che vengono da tutte le parti». 

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