Speciale

Continuità e modificazioni del raid nel novecento

10 Settembre 2011

Nel Novecento l’uso sistematizzato del raid in guerriglia continua, ed anzi si amplia geograficamente a livello globale, trovando pure diverse codificazioni teoriche. In Europa, come già nella Spagna antinapoleonica, le nazioni sconfitte da prima sul piano della guerra regolare adottano queste ulteriori forme di lotta quando l’occupante nazista, impegnato ormai su troppi fronti, dà iniziali segni di cedimento. Così in Italia, nei Balcani o in Francia proprio la guerra dei pochi salva l’onore di tutti o ribalta destini già scritti nel senso di definitive umiliazioni in campo aperto. Può viceversa essere una carta da giocare quando l’esito dello scontro è ancora aperto, come in Russia secondo le direttive di Stalin basate sul ripiegamento, la tenuta delle città e l’azione di partigiani infiltrati aldilà delle linee avanzanti dei tedeschi. In tutti questi casi il raider diviene, in misura anche superiore che nell’Ottocento in cui la spinta rinnovatrice del Romanticismo incontrava ancora molte riserve, figura positiva e leggendaria di liberatore, supportata a livello popolare nonché sancita nel merito dalle costituzioni successive e dalle ricorrenze che la onorano. Fortunatamente la memoria dei vincitori – magari con un eccesso di schematismo che peraltro è assente nelle narrazioni letterarie e nella storiografia più consapevoli – in questo caso coincide con una guerra (o guerriglia) di liberazione e non di conquista.

 

A un accordo ragionevole e quasi universale di apprezzamento possono trovarsi ascritte le guerriglie di liberazione condotte anche dai popoli asiatici o africani proprio contro quelle nazioni europee democratiche pochi anni prima invase e animate dalla Resistenza (Francia) o comunque aggredite dagli imperi (Gran Bretagna, Stati Uniti). I conflitti coloniali in Indocina e in Algeria, in Vietnam e in Congo avrebbero continuato senza alcuna difficoltà a godere di ampio consenso internazionale se non fossero stati promossi il più delle volte da partigiani comunisti. La spaccatura mondiale seguita al secondo conflitto e l’aprirsi della guerra fredda getta poi una luce retrospettiva di discredito – oggi ampiamente diffusa a livello politico e di storiografia giornalistica – anche sui fenomeni resistenziali degli anni quaranta, per esempio nei Balcani con le cruente faide interne vinte dai titini, o in Italia dove si sottolinea l’obiettivo finale rivoluzionario delle formazioni di sinistra. Il raider torna allora con forse ancor maggiore acredine nel gioco dei punti di vista ideologici: ora santo comunista che lotta per la libertà e l’uguaglianza, ora criminale al soldo dei disegni egemonici delle dittature sovietica o cinese.

 

Certo le guerre dei popoli colonizzati restano nel mezzo tra lotta partigiana “classica” e putsch comunista, ma la gran parte dei tentativi sudamericani, peraltro quasi sempre agiti contro dittature militari, si qualificano indubbiamente come rivoluzioni sociali d’ispirazione marxista, leninista o maoista. A fornire il primo esempio della trasformazione del raider da nazionalista a comunista fu naturalmente la Rivoluzione d’ottobre in Russia e la conseguente guerra civile tra armate rosse e bianche. Lenin era soprattutto un teorico, un formidabile agitatore ed organizzatore di partito, perciò “da moltissimi punti di vista uno dei politici meno adatti a combattere la guerra civile. In quanto figlio maggiore di una vedova, era stato esonerato dal servizio militare nelle forze armate imperiali e non faceva mistero della propria inesperienza in campo militare” (R. Service). Anche in tale ambito il suo approccio da studioso si riscontra nella lettura ed annotazione del classico di Clausewiz Sulla guerra e nel lasciare poi l’organizzazione pratica dell’Armata rossa a Trockij che la guidò con il pugno di ferro. Lenin fu comunque il primo ad intuire con chiarezza, secondo Carl Schmitt, che il partigiano “è diventato il vero irregolare e perciò stesso la più forte negazione dell’ordine capitalistico esistente.” La figura di tale combattente verrà quindi utilizzata senza pregiudizi irrigidendola però in una corazza irriducibile a mediazioni con l’avversario che come un tempo non lo riconosceva ora egli non riconosce quale controparte: “il combattente rivoluzionario dichiara il nemico un criminale e considera un inganno ideologico tutte le opinioni del nemico su diritto, legge e onore.”

 

Lenin del resto non arretrava minimamente dall’uso più spietato della forza per schiacciare il nemico di classe, giustificando per esempio le fucilazioni interne volute da Trockij secondo il principio della decimazione romana, e se pure era ossessionato dall’idea di ordine e disciplina da realizzare in un deciso centralismo, sapeva poi adattarsi alle necessità del momento. Ben più ampia esperienza ebbe invece Mao Tse-tung, che partecipò in maniera diretta ad un lunghissimo periodo di guerriglia – dalla rivolta comunista del Nanchang nel 1927 alla proclamazione della Repubblica Popolare Cinese nel 1949 - contro Chiang Kai-shek, i giapponesi, ed ancora il Kuomintang: “Bisogna particolarmente osservare che una guerra partigiana così estesa e lunga è assolutamente nuova nelle teorie delle guerre, è qualcosa di strettamente connesso con il tempo in cui viviamo – gli anni 30 e 40 del XX secolo – e con l’esistenza del Partito comunista e dell’Armata rossa”. Muovendo dalla consapevolezza dell’inedita portata storica di quegli avvenimenti Mao mette capo ad un’acuta ed esaustiva teorizzazione della guerriglia nata dal campo, più tardi soltanto perfezionata da altri importanti capi quali Ho Chi Minh e Giap.

 

Già nel 1928 Mao ritiene che i principi fondamentali della guerriglia siano stati enucleati, nella loro elementarità, con una formula di sedici ideogrammi: “Il nemico avanza, noi indietreggiamo; il nemico si arresta, noi lo molestiamo; il nemico è stanco, noi lo attacchiamo; il nemico indietreggia, noi gli diamo la caccia”. In seguito l’imitare l’ortodossia russa ed il ritenersi ormai dotati d’un esercito ben strutturato portano a tre anni in cui i metodi della guerriglia sono osteggiati e banditi a favore della ricerca di scontri frontali, risolutivi e senza alcun ripiegamento, guidati da comandi centralizzati; il Grande Timoniere ritiene, sulla base dei risultati ottenuti, profondamente nefasta tale fase. Anche se l’Armata Rossa è forte e radicata tra la popolazione e il Partito Comunista controlla territori vasti come stati, “il tipo di concentrazione delle forze che noi sosteniamo non implica affatto l’abbandono della guerriglia […] le operazioni di guerriglia delle popolazioni e quelle del grosso delle forze dell’Armata Rossa si completano a vicenda come la mano destra e la mano sinistra dell’uomo. Se potessimo contare solo sulle forze principali dell’Armata Rossa e non anche sulla guerriglia popolare, noi saremmo simili a un guerriero monco”.

 

Oltre alla affiancamento di piccole formazioni o della guerriglia popolare coordinate con l’esercito regolare, Mao teorizza anche per l’Armata Rossa stessa una guerra di movimento che ha comunque definitivamente assimilato i dettami di quella partigiana. Essa considera e sfrutta l’inevitabile instabilità dei fronti e la variabilità del territorio che “comportano il carattere di provvisorietà di tutto il lavoro di costruzione all’interno delle nostre basi”; “opera generalmente attraverso attacchi di sorpresa”; attua ancora in modo sistematico la ricognizione attenta, il mimetismo, il combattimento notturno e la diversione. La strategia della flessibilità delle forze, mutuata dal precedente stato di debolezza, prevede inoltre “dispersione, concentrazione e smistamento”, capacità di “spostarsi con la rapidità del vento e del torrente”. Al modo dei partigiani, sempre in inferiorità di uomini e mezzi, l’esercito si muoverà soprattutto secondo la tanto vilipesa tecnica della ritirata, usata frequentemente (“non esiste da nessuna parte un solo esperto militare il quale sostenga che si debba solo combattere e mai ritirarsi, benché pochi si ritirino quanto noi”), che lascia campo al nemico per colpirlo poi quando si trova impreparato, stanco, isolato. Sempre fondamentale infine la cura del rapporto con le popolazioni rurali di ogni località, da coinvolgere con franchezza di spiegazione in veste di aiutanti, nuovi arruolati o sorveglianti dei proprietari fondiari, commercianti e contadini ricchi.

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