Speciale

Nuove opportunità / Una didattica digitale per la scuola

7 Novembre 2018

Una recente ricerca pubblicata nell’«Italian Journal of sociology of Education» documenta l’uso che delle ICT (Internet Comunication Tecnologies), TIC nella traduzione italiana, da parte dei docenti. Un campione di 1280 soggetti (il 2,98% di coloro che sono stati contattati via email) ha risposto a un questionario a risposta multipla incardinato intorno a quattro nuclei tematici: “cambiare l'approccio alle TIC nell'educazione” che sostanzialmente misura la volontà del docente di usare le TIC o la disponibilità a essere soggetto a un percorso di formazione specifico; “risorse digitali nello sviluppo professionale dei docenti” che registra il ruolo delle TIC nella promozione del proprio capitale umano attraverso forme di socializzazione delle conoscenze tipiche degli ambienti digitali (almeno così interpreto i seguenti indicatori: “tendenza dei docenti alla socialità”, “inclinazione ad aggiornare l'insegnamento individuale con le TIC”, “l'uso delle TIC nell'accrescimento in qualità e quantità del capitale professionale”); “i docenti e la rete” che acquisisce l’utilizzo del web come spazio di produzione e consumo di informazioni; “usare le TIC in classe” che descrive la frequenza con cui le TIC diventano strumenti di mediazione didattica.

 

L’indagine costituisce il momento quantitativo di una ricerca partita nel 2012 che ha anche avuto momenti tipicamente qualitativi, come la presenza diretta nelle scuole. Essa, pur non producendo un campione statistico affidabile – come chiariscono le autrici – , tuttavia intende essere un'«utile indagine pilota» per l’analisi del fenomeno e la costruzione di coerenti politiche pubbliche. In relazione all’utilizzo in classe (il quarto indicatore del questionario) è rilevato che la distanza tra coloro che fanno scarso uso di risorse informatiche è di 60% a 40% (analogico/digitale) anche se tali dati sono pesantemente influenzati dalle strutture informatiche presenti nella scuola. L'esito, inoltre, evidenzia che

«la giovane età non è sinonimo di un insegnante innovativo; suggerisce piuttosto una maggiore propensione all’innovazione in quei docenti che hanno maturato molti anni di servizio e hanno una significativa esperienza educativa e, conseguentemente, una più elevata competenza di gestione di processi educativi complessi».

 

Considerazione che, in una certa misura, arricchisce la consapevolezza di come il pur necessario ringiovanimento della classe docente non implichi di per sé un rinnovamento dell’attività didattica. Merita una certa considerazione uno dei passaggi finali:

«Le potenzialità offerte dalla rete chiedono sempre più ai docenti di abbandonare il ruolo di speakers, che trasmette solo contenuti entro lo spazio asimmetrico e protetto della relazione docente-studente, al fine di diventare un tutor, mentor o coach, il cui ruolo sia basato su una relazione diretta, personale, paritaria. Una relazione all'interno della quale docenti e studenti sono coprotagonisti di un percorso di crescita condiviso in cui cooperare per indirizzare problemi comuni, senza che uno prevalga sull'altro, ma, al contrario, in conformità di una logica cooperativa, per imparare insieme.» 

Al di là dell’impianto teorico socio-costruttivista, polemico nei confronti di una didattica tradizionale trasmissiva centrata sulla lezione frontale, significativi sono alcuni elementi tutt’altro che scontati: a) l’analogia tra network e apprendimento cooperativo; b) la possibilità di darsi una relazione didattica non asimmettrica. Non mi è possibile discutere in questo spazio di tali elementi. Conviene, invece, sottolineare come per le autrici le TIC aprano lo spazio scolastico a una rivoluzione epistemica ben più complessa rispetto alla sola disponibilità di nuovi strumenti attraverso i quali declinare, volta per volta, il proprio agire didattico. Certo le resistenze sono molte:

«La funzione epistemica di espandere la conoscenza, scoprire il mondo e altre forme di relazione attraverso le tecnologia digitali appare debole, coinvolgendo una porzione residuale di insegnanti innovativi. Prevale un approccio pragmatico, che indirizza l'uso delle tecnologie digitali verso una modalità pratica e strumentale per quanto riguarda gli obiettivi di conoscenza, differentemente rappresentati da contenuti educativi o altri soggetti correlati».

 

 

L’indagine ha il pregio di evitare false semplificazioni che sulla questione TIC/scuola dominano nel dibattito pubblico e che puntualmente emergono quando una qualche circolare ministeriale accende la luce sul tema. Sul tappeto mi sembra ci siano diversi quesiti, fra loro strettamente interconnessi, le cui risposte producono diversi orientamenti. Schematicamente:

 a) quanto le TIC migliorano, peggiorano o lasciano inalterati i livelli di apprendimento degli studenti? Quanto approfondiscono o riducono il diverso capitale culturale distribuito in classe? Tale punto è anche stringente in relazione al rapporto costi/benefici che comporta la massiccia introduzione di TIC nelle aule scolastiche e la relativa manutenzione\sostituzione.

b) le TIC sono uno strumento didattico, una risorsa aggiuntiva, o la loro natura rende plausibile l’ipotesi di un ripensamento complessivo dell’attività didattica su di esse modellato? Più specificatamente: la classe 3.0 è il destino della scuola italiana?

 

c) tra i compiti della scuola del XXI secolo vi è l’alfabetizzazione digitale (media literacy, media education) secondo le indicazioni, tra gli altri, di Buckingham e Rivoltella? Se sì, in quali termini? Come insegnamento curriculare trasversale (ogni insegnante, a prescindere dai contenuti della sua disciplina, può far suo il compito di educare ai media) o metodologico organizzato attorno ‘all’insegnare e leggere i media’ con competenze attivate cha vanno dalla semiotica (analisi critica dei messaggi, in qualunque forma essi siano) alla produzione di oggetti multimediali (qualunque essi siano), in modo tale che i soggetti coinvolti sappiano utilizzare un linguaggio espressivo coerente con il media utilizzato. In quest’ultimo caso, non sarebbe forse opportuno introdurre una disciplina specifica (un’altra!) in aggiunta o sostitutiva con personale opportunamente formato?

Su quest’ultimo aspetto il recente testo di V. Colombi, C. Greppi, E. Manera, G. Olmoti, R. Roda, I linguaggi della contemporaneità. Una didattica digitale per la scuola si configura come un utile elemento per la discussione.

 

Il libro si compone di due parti. La prima documenta un interessante progetto di ricerca-azione organizzato a partire dal 2012 da parte della Fondazione per la Scuola della Compagnia San Paolo. La seconda presenta una serie di saggi sulle trasformazioni prodotte dalla contaminazione tra linguaggi novecenteschi (fotografia, cinema, televisione) e web. Seguono due contributi sui linguaggi al tempo della rete che esplorano il ruolo di fumetti, videogiochi come forme di narrazione storiche e agenti produttori di immaginario storico. Conclude un’ultima sezione sulla complessa relazione archivi digitali on-line, dispersione documentaria e una necessaria rinnovata critica delle fonti anche in relazione al massiccio utilizzo di Wikipedia come fonte di divulgazione storica. La questione che attraversa il volume sta nel come fare storia a scuola in un contesto di «egemonia iconografica» che ha modificato la tradizione gerarchica degli apprendimenti negli studenti fondata sul primato del testo scritto. Scrive Giorgio Olmoti:

«Lo sforzo della didattica oggi è quello di valorizzare i suoi strumenti mediatici, restituendo loro una dignità alta. Per quello che concerne la fotografia c’è da costruire una cultura critica dell’immagine che non sia più ad appannaggio di piccole comunità specialistiche, ma accenda piuttosto i motori critici delle nuove generazioni, consentendo loro di guardare alle immagini, sia quelle all’interno di un periodico sia quelle proposte nelle sale di un museo o nei cassetti digitali di un database con una consapevolezza nuova» (pp. 114-115).

 

Non si tratta, tuttavia, di una generica alfabetizzazione digitale, quanto piuttosto di una media education metodologica, capace di produrre conoscenza storica organizzata grazie ai media digitali.

Puntualizza, infatti, Giovanni De Luna, direttore del progetto dal 2011:

«Rigettare e opporsi completamente al mutamento anche per mantenere l’autorità e il primato cognitivo, significa chiudersi alle opportunità che la rivoluzione digitale offre alla scuola e rischia di distanziare definitivamente il docente dall’universo sociale dei discenti, minando l’efficacia dell’insegnamento e la possibilità di comunicazione con i ragazzi stesso. D’altro canto una rivoluzione radicale dell’approccio didattico risolto integralmente e senza mediazione all’interno dell’universo digitale potrebbe non essere in grado di garantire adeguati livelli di solidità, validità ed efficacia, in particolare per quello che riguarda l’insegnamento della storia» (p. 44-45).

La risposta, etica e cognitiva, alle sfide dello «sciame digitale» (Byung-Chul Han) è, dunque, sia una critica delle fonti adeguata ai nuovi oggetti digitali sia un ampliamento della domanda dello storico capace di reggere l’urto con il web «senza concessioni a leggerezze e ingenuità metodologiche» (p.18). L’immagine evocata da De Luna è quella celebre dello storico-orco di Marc Bloch: come è diventata pratica consueta l’uso ai fini della didattica e della ricerca l’uso di documenti audiovisivi, così deve diventarlo anche quella di oggetti digitali esistenti on-line. In gioco non vi soltanto la possibilità di insegnare storia nel XXI secolo, di arginare l’impoverimento dello spessore storico del documento, destinato a una fruizione immediata, usa e getta, frammentaria, orientata a un presentismo senza spessore. La partita è sul terreno democratico; per riprendere l’immagine elaborata anni fa da Norberto Bobbio, la formazione di cittadini «digitalmente educati» è una delle condizioni per la tenuta delle istituzioni democratiche.

 

La rete, segnala Enrico Manera, contiene materiali difformi di storia: «fonti preziosissime e deliri farneticanti, testi di alta qualità scientifica, e propaganda decisamente manipolata» (p. 236). Strutturalmente opaco, il web combina informazione e intrattenimento (infotainment) che rende quanto mai complessa la verifica dei contenuti in un contesto spesso privo di autorialità. Proprio per tale motivo è necessario che gli studenti si misurino con la semantica del web 2.0 attrezzati di una solida impalcatura costruita su una concezione dinamica di fonte, documento-monumento che deve essere interrogato secondo una griglia interpretativa capace di restituire l’intenzionalità di chi lo ha prodotto, il contesto in cui si situa, la coerenza rispetto all’impianto narrativo di cui intendere essere prova.

Studiare il digitale con il digitale – si legge – è diventata l’occasione per utilizzare piattaforme social (Edmodo) per promuovere forme di apprendimento cooperativo capaci di rompere con la «fisicità della classe», facendo lavorare a gruppi studenti, docenti di differenti scuole (alcune situate in diverse regioni) su alcuni temi ritenuti particolarmente significativi: La Resistenza (2013-2014); Le guerre delle contemporaneità (2014-2015); La figura del soldato (2015-2016); I muri (2016-2017). Come puntualizza De Luna il progetto è stato un percorso di formazione degli insegnanti teso a una bonifica cognitiva di un sistema informativo sfuggente e complesso come quello del web, ma anche di una ricerca che superi sia i tradizionali modi di fare storia, sia la «lezione frontale», fondata sul riversamento autoritario di modelli e contenuti dai docenti ai discenti» (p. 20).

 

Nel volume sono documentate due sperimentazioni. La prima, realizzata da tre classi rispettivamente del liceo classico Gioia di Piacenza, del liceo scientifico-scienze applicate Respighi e del ITIS Pininfarina di Moncalieri (TO), ha prodotto un graphic novel storico che, modellato sulla figura dei Quaderni giapponesi di Igort, ha restituito le discontinuità della figura del kamikaze nel Novecento. La seconda elaborata da quattro classi provenienti dal IIS Vallauri di Fossano (Cuneo), dal ISII Marconi di Piacenza, dal ITIS Cartesio di Cinisello Balsamo (Milano) e dal IIS Varalli di Milano ha dato vita ad un gioco informatico, sul modello di Trivial pursuit, che ha esplorato le varie declinazioni della figura del soldato novecentesco. Base comune dei lavori è l’attenzione a sottolineare le discontinuità piuttosto che le continuità, scelta metodologica ritenuta indispensabile per storicizzare il presente senza appiattirlo sull’attualità astorica.

 

Un’ultima considerazione. Cristina Bonelli e Valeria Caponetti, due docenti impegnate nel progetto, richiamano l’attenzione sul metodo storico come difesa dalle insidie di una società ipercomunicativa come la nostra, in cui il flusso abnorme d’informazione rende tutto insignificante. In fin dei conti la censura del XXI secolo è l’oscuramento di informazioni mediante la produzione di sterminate irrilevanze.

«Pertanto la storia, per la sua tradizione di critica della fonte (selezione, analisi e interpretazione) e di gestione dell’informazione (contestualizzazione e strutturazione), appare tra le materie fondamentali per la formazione di soggetti consapevoli e critici. Dopo anni di scarsa considerazione del ruolo formativo della storia, oggi assistiamo ad una nuova centralità della formazione storica (del «fare storia» e delle competenze connesse) come veicolo privilegiato della formazione delle nuove competenze di base» (p. 70).

La filologia come arma di libertà, per richiamare un noto testo di Luciano Canfora. Non si può che essere d’accordo. Qualche dubbio rimane sul fatto oggi il ruolo formativo della storia sia oggetto di un nuovo interesse. Un’analisi delle azioni messe in campo da coloro che dovrebbero organizzare politiche pubbliche nel campo dell’istruzione sembrerebbe suggerire il contrario. Se, senza arrossire, i promotori dell’abolizione del tema di storia all’esame di Stato, hanno argomentato che essa è la semplice presa d’atto di una disaffezione del corpo studentesco, senza interrogarsi sulle ragioni di tale ‘distanza’ o senza trarne le conseguenze per una rinnovata attenzione, allora viene spontaneo pensare che il nesso, novecentesco, storia-cittadinanza sia definitivamente tramontato. A questa liquidazione sicuramente ha anche contribuito una didattica della storia inadatta sotto molti punti di vista: l’inerzia si è sommata ad una società bulimica di presente e a scelte ministeriali francamente discutibili. Nell’attesa di recitare un composto de profundis del sapere storico a scuola vale la pena di confrontarsi con la proposta didattico-metodologico contenuta nel volume.

 

V. Colombi, C. Greppi, E. Manera, G. Olmoti, R. Roda, I linguaggi della contemporaneità. Una didattica digitale per la storia, introduzione di G. De Luna, il Mulino, 2018.

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