Morire felici?

8 Aprile 2015

Ogni libro di Hans Küng, teologo e sacerdote cattolico noto per le sue posizioni eterodosse, è destinato a suscitare discussioni e controversie. Non fa eccezione l'ultimo, pubblicato dalla casa editrice Rizzoli, intitolato Morire felici? Lasciare la vita senza paura (2015). Küng, da qualche tempo ammalato di Parkinson, è membro di un'associazione svizzera che accompagna i malati inguaribili a morire con l'aiuto della medicina o, per dirla in modo più diretto, con l'eutanasia attiva. Küng ha espresso più volte pubblicamente il desiderio di porre fine alla propria vita quando la malattia non gli consentirà più, intellettualmente, di essere se stesso. Una scelta opposta a quella di Giovanni Paolo II, che Küng critica con un'asprezza talvolta irritante ma di cui chi conosce i suoi duri e dolorosi contrasti col magistero papale può comprendere l'origine. Con questo nuovo libro, spiega nell'intervista posta ad apertura, vuole approfondire e chiarire ai suoi lettori i motivi di una decisione che ha provocato critiche e perplessità da parte sia di avversari che di amici e sostenitori. Ricordando alcune dolorose esperienze personali Küng difende, innanzitutto, il diritto di decidere da sé quando mettere fine alla propria vita dignitosamente e con l'assistenza di un medico. Nella seconda parte del libro, spiega invece perché ritiene che rivendicare la scelta di morire non contraddica la fede in Dio; e, un po' provocatoriamente si spinge a dichiarare che la fede, rendendo meno spaventosa l'idea della morte, dovrebbe farla desiderare, per cui, paradossalmente, il ricorso all'eutanasia dovrebbe essere frequente più da parte dei credenti che dei non credenti.

 

Nel sostenere con passione il suo punto di vista, Küng vuole soprattutto che sia riconosciuto e rispettato il suo desiderio di andarsene quando lo riterrà giusto, possibilmente "accompagnat[o] da una profonda soddisfazione e dalla pace interiore". Per Küng è questo il senso dell'espressione morire felici. Come dargli torto? Chi non vorrebbe per sé e per i suoi cari una simile morte: soddisfatti e in pace. Una morte così, tuttavia, è possibile solo se è la fine di una vita vissuta interamente allo stesso modo, una vita (escludendo dunque le morti premature) della quale ci si possa dire tutto sommato soddisfatti. Per morire bene, non basta che sia buono l'atto finale, bisogna che sia positivo il giudizio che diamo sulla vita che abbiamo vissuto; morire "vecchi e sazi di giorni", come nella Bibbia si dice siano morti i patriarchi.

 

La qualità della vita influenza il punto di vista sulla morte; rarissimamente i malati terminali chiedono di morire, ha raccontato in una recente conversazione radiofonica Giuseppe Remuzzi primario ospedaliero e autore del libro La scelta (Sperling & Kupfer, 2015). Quello che tutti chiedono è di essere liberati dai dolori fisici e trattati con umanità e dignità. Grazie all'enorme lavoro di sensibilizzazione e approfondimento delle terapie del dolore portato avanti dagli Hospice, negli ultimi anni le cure palliative sono sempre più conosciute, diffuse e accessibili legalmente. Il problema veramente serio, spiegava Remuzzi, è che scegliere come morire è diventato più difficile di quanto non fosse anche solo cinquant'anni fa, perché sempre più spesso si portano in ospedale persone molto anziane che, una volta arrivate lì, devono essere "curate" e non di rado sono sottoposte a interventi inutili dati l'età o lo stadio della malattia. Per cui sono costrette a morire dolorosamente, lontane dai propri affetti e dalla propria casa anziché nel proprio letto, con le persone amate vicine. Questa è l'eutanasia, la morte dolce e possibile, cui tutti possiamo aspirare, così che il progresso medico non diventi un ostacolo alla possibilità di ciascuno di scegliere, entro certi limiti, come morire.

 

 

Purtroppo il tema dell'eutanasia, delicatissimo e tutt'altro che nuovo, come dimostra lo storico del Diritto Marco Cavina autore di un saggio sull'evoluzione del concetto di eutanasia nel corso della storia, pubblicato da Il Mulino e intitolato Andarsene al momento giusto. Culture dell'eutanasia nella storia europea (2015), è diventato oggetto di battaglie ideologiche e di prese di posizione religiose che rischiano di renderlo intrattabile. Pur avendo risvolti religiosi, come tutte le questioni morali, i problemi che la scelta o il rifiuto dell'eutanasia implicano rimandano alla dimensione etica e psicologica che interessa ugualmente tutti gli esseri umani, credenti e non credenti senza distinzione. Sono problemi che riguardano, anzi, tutti gli esseri viventi, quindi anche gli animali perché, ammesso sia necessario ucciderli, anche per loro fa una bella differenza morire in un modo piuttosto che in un altro. L'eutanasia non è una questione religiosa. Forse, come sostiene Küng, la speranza di chi confida in una vita eterna e buona aiuta a morire con meno angoscia, ma per quanto riguarda tutto ciò che sta "prima" della soglia, non c'è differenza tra viventi: tutti vorrebbero andarsene serenamente.

 

Il filosofo Hans Jonas, che è stato uno degli iniziatori del dibattito bioetico, ha scritto spesso e in varie occasioni sull'eutanasia e molte sue considerazioni sono ancora solide e convincenti. Contrario a qualsiasi forma di accanimento terapeutico e favorevole, quindi, all'eutanasia passiva, Jonas metteva in guardia dai pericoli del volere legiferare in questo ambito. La legge, infatti, per sua natura, deve essere "generale e astratta", mentre la morte non può esserlo mai, ogni morte è un caso a sé, un caso unico, assolutamente personale e dolorosamente concreto. Nell'accostarsi a chi muore, occorre lasciarsi guidare soltanto dal rispetto assoluto per la sua libertà e dalla compassione per le sue sofferenze. Tuttavia, agire guidati soltanto dalla compassione sarebbe pericoloso, avverte Jonas: non si sono forse appellati a una compassione malignamente falsa e pretestuosa i nazisti, quando applicavano la loro eugenetica, trasformando in legge l'eutanasia nei confronti d'intere categorie di persone definite sofferenti dai loro stessi carnefici? Chi può decidere di non volere più soffrire, se non colui che soffre? Soprattutto, Jonas era convinto che istituire un diritto positivo a uccidere – stabilire per legge che sia eticamente ammissibile uccidere qualcuno che non ha fatto niente, che non ha commesso reato e non rappresenta alcuna minaccia – avrebbe comportato un gravissimo pericolo per la società e la sua evoluzione etica, da evitare a qualsiasi costo. Su questo punto Jonas era inflessibile: il medico non deve uccidere, non si può sancire un principio positivo in questo senso, è troppo pericoloso ed è un peso che nessun medico deve essere obbligato a portare. Eppure la compassione, vedere soffrire senza speranza e sapere che con poca morfina il paziente si quieterà e non soffrirà più, anche se quella morfina gli accorcerà la vita…Che fare?

 

La verità, sostiene Jonas, è che in questo campo non si possono stabilire norme giuridiche. Tutto ritorna alla scelta di chi ci vuole bene, ci ama e ci conosce. Porre fine alla vita sofferente «è una possibilità che resta aperta all'amore … Non si può collocare in un codice generale» (H. Jonas, Sull'orlo dell'abisso, Einaudi, 2000). Ciò significa che dobbiamo rassegnarci a portare sulle nostre spalle il peso della responsabilità di decidere per noi stessi e per chi amiamo e non è più in grado di scegliere autonomamente, senza delegare ad altri questa responsabilità, tantomeno allo Stato che è fin troppo presente, minuziosamente, nel definire i limiti delle nostre libertà. Secondo la Bibbia, Dio ha lasciato l'uomo "in mano al suo consiglio", in balìa del suo volere; egli è responsabile di sé, per la vita e per la morte. Un altro può giudicare, se vuole, e può dissentire, ma non può mettersi al posto di colui cui compete la decisione. E se questi non è più in grado di farlo, solo l'amore può sostituirlo. Ci sono domande, conclude Jonas, per le quali non esiste risposta: «nelle situazioni estreme veniamo riportati alle decisioni solitarie dell'amore, il quale osa opporsi addirittura alla legge, ma che può sperare che anche il diritto leso emetta un giudizio tanto clemente quanto è permesso dalla stabilità dell'ordine giuridico. A questo residuo insoluto e insolubile nella questione dell'eutanasia – la rinuncia quindi a una risposta etica che dia delle regole univoche – ci dobbiamo, credo, rassegnare con umiltà». Nessuna certezza, allora, solo una preghiera: «O Signore, concedi a ciascuno la sua morte / frutto di quella vita / in cui trovò amore, senso e pena» (R.M. Rilke, Il libro d'ore, in Poesie, Einaudi).

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