Speciale

L’antica eccezione della pirateria

26 Giugno 2011

Nel quarto libro del dialogo platonico Le leggi l’ospite ateniese, discorrendo con Chinia di Creta e ricordando i tributi anticamente versati dagli abitanti dell’Attica a Minosse, dotato di una potente flotta, all’improvviso si lascia andare a un’invettiva contro la guerra marina: “E, è certo, sarebbe stata cosa utile a loro perdere ancora molte volte sette fanciulli prima di avvezzarsi, divenuti marinai da fanti e solidi opliti che erano, a sbarcare di frequente e poi lestamente a fuggir di nuovo correndo sulle navi, senza ritenere di commettere alcuna azione vile non osando di morire resistendo sul posto ai nemici accorrenti e l’aver invece sempre pronte scuse fittizie per giustificare l’abbandono delle armi da parte loro e le fughe fuggite, secondo loro, non vergognosamente”.

 

La contrapposizione tra l’oplita terrestre che combatte a viso aperto senza retrocedere e l’oplita di marina che sbarca sulla riva ed è sempre pronto a riprendere il largo è dunque netta. Più avanti viene supportata da un passo omerico in cui Ulisse rimbrotta Agamennone che offre ai guerrieri la vista tentatrice delle navi su cui, scivolando dalla mischia, ci si può sempre salvare (Iliade XIV, 96-101). Ed ancora aggiunge che “la potenza dello stato ottenuta con la flotta da guerra, e insieme la sua stessa salvezza, porta onore non certo ai migliori dei soldati, risultando essa infatti dall’arte del timoniere, da quella di comandare le navi di cinquanta remi, dall’arte di remare, da una risma di uomini non certo onorevoli” (IV, 707.b). Ne verrebbe quindi andicappata la costituzione non più in grado di premiare e onorare ciascuno di questi uomini. La sussurrata obiezione dell’interlocutore cretese sulla salvezza della Grecia dovuta alla battaglia navale vinta a Salamina viene recisamente spazzata via quale luogo comune erroneo (“noi diciamo che la battaglia di Maratona, battaglia campale, e quella di Platea sono state la prima il principio della salvezza greca, e l’altra il compimento, e delle battaglie, alcune hanno reso i Greci migliori” IV, 707.c).

 

Risuona qui il pregiudizio contro il raid, effettuato questa volta con rapido sbarco e altrettanto rapido ritorno, che già aveva colpito quei nemici armati alla leggera e provvisti d’astuzia, in contrapposizione alla lode della formazione schierata che, animata da perpetuo coraggio, non retrocede mai sul campo, della salda massa anonima di uguali, non specializzata come lo sono il timoniere o il comandante della nave. C’è forse però qualcosa di più da rilevare tra le righe; quando infatti si ascolta una censura così forte si ha sempre l’impressione che il bersaglio da centrare sia profondamente consustanziale a chi la pronuncia. I Greci, e gli Ateniesi in particolare, sono un popolo di mare che ha dominato l’Egeo e il Mediterraneo orientale fondando colonie ed espandendo la propria influenza lungo le vie commerciali. Perché dunque amputare con determinazione una parte decisiva di sé? Con un po’ di malizia si potrebbe andare oltre la condanna alla forma raid del combattere fra le onde aggiungendo un altro brano tratto da Le Leggi. Torniamo al punto in cui Platone disquisisce sulla caccia, buona se stimola il coraggio nel futuro oplita, cattiva se usa la tecnica e l’astuzia come per il cacciatore nero (le sue reti simili al timone manovrato dal marinaio). Egli, che già aveva definito la guerra stessa una caccia, così ammonisce soprattutto i giovani: “Mai vi prenda il desiderio di cacciare gli uomini né della pirateria, desideri che vi renderebbero cacciatori crudeli, fuorilegge” (VII, 23.e).

 

È legittimo il sospetto che la caccia coperta dei cripti, la guerra leggera dei peltasti, la guerra sul mobile mare e la pirateria rientrino tutti nell’area ambigua del raid, che va bandita in quanto mina la limpida distinzione tra bene e male certificata dalle leggi (o semmai praticata nell’ombra, senza proclami, dietro lo schermo di parole d’aspra condanna). Del resto la spedizione di Paride per il ratto di Elena avviene con uno sbarco dal mare e ugualmente Giasone arriva sulle coste della Colchide dopo lungo viaggio di acqua e lì se ne torna con il vello predato e Medea caricata sulla nave. Polifemo, il pastore ritratto nella pacifica attività di mungere le sue capre, sfamare i nuovi nati e fare formaggio, avvedutosi della nave di Ulisse che approda alla sua isola, apostrofa subito in questo modo i nuovi venuti:

 

Stranieri, chi siete? Di dove

giungete per mare? Forse per qualche interesse

vostro? O andate così alla ventura vagando

come fanno per l’onde i pirati

che mettono a rischio la vita errabonda

portando rovina sui lidi alle genti? (Odissea, IX, vv. 252-55).

 

Evidente appare la diffidenza del ciclope che fatica a distinguere negli uomini di mare i mercanti (coloro cioè che fanno il proprio interesse), gli avventurieri che si muovono per sete di scoperta o per diporto, esploratori involontari come Ulisse, ed infine i pirati che vivono di rapina ma che si confondono così facilmente con gli altri.

 

Roma, per parte sua, compie un salto di qualità divenendo potenza oltre i confini della penisola solo dopo aver sconfitto nella prima guerra punica Cartagine in Sicilia con una battaglia navale. Eliminata quindi la rivale per la dominazione del Mediterraneo, i pirati resteranno per Roma l’unica fonte di disturbo dei suoi traffici internazionali. Il ruolo di gendarme del mare viene svolto con la consueta attenzione, ma senza le difficoltà incontrate in alcune zone di terra da cui vengono la lunga gloria ed infine la rovina. Gneo Pompeo accrebbe grandemente il suo prestigio personale quando nel 67 a.C., autorizzato dalla legge Gabinia, ottenne poteri di proconsole e sconfisse così i pirati che infestavano la zona orientale del mare nostrum; furono soltanto tre mesi di bonifica, quindi si dedicò alla guerra contro Mitridate. La lotta per rendere sicuri i commerci via acqua resta ancora lunga, specie contro le popolazioni delle coste illiriche, ma è in seguito al venir meno della polizia romana che il Mediterraneo torna come in passato a pullulare di pirati; ai Cretesi, Etruschi, Cartaginesi subentreranno, a partire dal VII secolo, soprattutto i Saraceni e quindi i Normanni. La stessa Roma ne subirà il sacco nell’846.

 

Nell’alto Medioevo i raid pirateschi assumono i connotati di migrazione e di insediamento con i Normanni sia in Europa che nell’Italia meridionale, dove diverranno poi per un certo periodo valido baluardo alle incursioni saracene. La più antica razzia vichinga attestata – 8 giugno 793 presso l’abbazia dell’isola di Lindisfarne sulle coste inglesi del Northumberland – fornisce il modello, nella sua violenza di saccheggio totale, devastazione con il fuoco e strage dei monaci, del raid eternamente reiterato. I pirati infatti non si limitavano ad attaccare le navi in transito ma pure le città costiere che avevano da opporre castelli distanti e cavalieri con armamenti adatti a tutt’altro tipo di scontro. Le popolazioni islamizzate non arabe, partendo dai covi dell’Africa settentrionale colpivano di sorpresa spesso nei giorni di festa, quando i pensieri erano rivolti al piacere e le difese meno attente, ottenendo grazie a tali associazioni anche un surplus di memorabilità negativa. Il moltiplicarsi di tali atti da parte di Saraceni, Barbareschi, Uscocchi, Turchi e pure cristiani come gli ordini di Malta e santo Stefano metteva in evidenza proprio un’era definitivamente successiva alla talassocrazia romana ed al conseguente consolidamento di un unico mercato sull’acqua. Tuttavia l’incubo rappresentato dalle vele che all’improvviso si stagliavano all’orizzonte spinse anche allo sviluppo di molte città delle coste europee ed alla loro successiva reazione. Così, leggendo la sintesi di una novella di Boccaccio (II, 4), si può fermare un’istantanea del movimentato panorama marino medievale. Si tratta del mercante di Ravello Landolfo Rufolo che, impoveritosi per una speculazione sbagliata sul mare, si volge ad altra attività: “E trovato comperatore del suo gran legno, con quegli denari e con gli altri che della sua mercatantia avuti avea comperò un legnetto sottile da corseggiare, e quello d’ogni cosa opportuna a tal servigio armò e guernì ottimamente, e diessi a far sua della roba d’ogni uomo, e massimamente sopra i turchi. Al qual servigio gli fu molto più la fortuna benivola che alla marcatantia stata non era. Egli, forse infra uno anno, rubò e prese tanti legni di turchi, che egli si trovò non solamente avere racquistato il suo che in mercatantia avea perduto, ma di gran lunga quello aver raddoppiato”.

 

L’Amalfitano però, riconosciuto di nuovo ricco da uomini “vaghi di pecunia e rapaci”, questa volta Genovesi al timone di due cocche, viene a sua volta depredato. Il mare è dunque il campo di gioco di questi frequenti e romanzeschi ribaltamenti di fortuna che confondono spesso le distinzioni tra lecito e illecito, fedeli e infedeli.

  

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