Dove cadono le ombre / Mariella Mehr e le coordinate del tempo

15 Dicembre 2017

Le Giornate degli autori della 74. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica ha visto in programma il primo lungometraggio di Valentina Pedicini, Dove cadono le ombre.

Pedicini è conosciuta dal pubblico che ama la poesia per il suo lavoro documentaristico su Mariella Mehr: dalla vita e dalla scrittura di Mariella Mehr nasce Dove cadono le ombre, un film che giunge dalla necessità di non far parlare direttamente la scrittrice, come nei documentari, ma di dar voce alla sua storia, narrata nelle sue opere, come personale e al contempo universale, che non si riferisca a una sola persona ma nasca da centinaia di biografie, come scrive in apertura di film Pedicini. Perché nella vicenda Mehr c’è la tragedia, accaduta in Svizzera dal 1926 al 1986, di un numero di bambini jenisch che va dagli ottocento ai duemila (e di altrettante madri e famiglie). I bambini venivano strappati alle madri, subito sterilizzate, e rinchiusi in orfanatrofi, ospedali psichiatrici, prigioni, con l’intento di estirpare il fenomeno del nomadismo. La Pro Juventute, associazione filantropica, che ha portato avanti questo progetto, ha usato i piccoli per esperimenti scientifici e violenze al fine di tramutarli in perfetti cittadini svizzeri. 

 

Mariella Mehr è stata una di loro, il film parla di lei e di tutti gli altri. È un film corale dove Gertrud, nella magistrale interpretazione di Elena Cotta, medico che fa esperimenti di eugenetica sui bambini, assume i connotati di chissà quanti medici che come lei credevano che la barbarie che stavano commettendo fosse eticamente e scientificamente giusta. E Anna, interpretata da Federica Rosellini, una delle tantissime vittime bambine, crescendo si vede sempre legata a un tempo orizzontale in cui è sia bambina vittima sia adulta umanissima che si scopre aguzzino. 

 

In questo film il tempo sembra avere le coordinate di un edificio, cambiano i soggetti ma il tempo resta impigliato ineluttabilmente in un vecchio istituto per anziani che un tempo era un orfanatrofio per i bambini jenisch. Anna bambina era stata strappata alla madre e lì rinchiusa, ha assistito e subito torture da parte di Gertrud, si è abituata a guardare negli occhi degli altri bambini e capire chi non ce l’avrebbe fatta, riconoscere con chi avesse bisogno di un silenzioso patto di resistenza e affetto per squarciare il grigiore del male. Anna è lì bambina, in una vasca da bagno con acqua e ghiaccio come terapia perché “placa l’indole, addomestica le pulsioni malvage e aiuta a memorizzare la corretta pronuncia”; nella vasca ghiacciata accanto c’è Franziska, colei da cui non vorrà mai separarsi, ma da cui dovrà, come da quasi tutto. Anna è lì anche da adulta, insieme ad Hans piccolo bambino torturato anch’esso e poi suo assistente nell’accudire con dedizione e cura gli anziani. 

Anna piccola e Anna grande camminano negli stessi corridoi nello stesso tempo sospeso, nella speranza di rivedere Franziska. Ma è Gertrud che torna, come anziana, per passare gli ultimi suoi anni in quell’istituto.

 

 

In questo confronto tra Anna e Gertrud sta la grande lezione di Mariella Mehr che con la sua scrittura ha sempre dichiarato come nessuno sia immune dal praticare il male e come si possa divenire più crudeli dei propri carnefici. La scenografia è magnificamente intrappolata tra le stanze e i corridoi dell’istituto così come la psiche dei suoi protagonisti, quasi il luogo chiuso e grigio fosse al contempo testa e stanza: persone che sbattono non come falene dentro una lampada ma sul grigio delle pareti, tra menzogne e ossessioni che tengono in scacco la mente. Esiste liberazione e vita al di fuori di mente e stanze? Esiste un fluire del tempo che non sia quello ossessivo che va avanti e indietro freneticamente dal passato al presente come andasse su e giù nei corridoi? Il film di Pedicini è questo impellente bisogno di avanzare il tempo intrappolato nella moviola della mente, di dire come l’identità della persona sia il bene e il male al contempo, di come sia necessario riconoscersi e riconoscere l’altro. 

Anna e Gertrud appaiono entrambe sradicate dalla vita, Anna per la sua storia e Gertrud per un’età avanzata che la rende impotente di fronte a molte scelte: due sradicate che si affrontano quasi ad armi pari, tra bugie e paure, in un esercizio di potere e di rivalsa l’una sull’altra che va a occupare un suolo comune, quello in cui allora una sola aveva il potere. Sono due donne apparentemente messe fuori gioco dalla vita, ma che alzano la testa incessantemente come pesci in un acquario per vivere ancora, per vedere la luce che sta fuori.

 

Pedicini ha fatto parlare Mariella Mehr direttamente nel suo lavoro documentaristico, e ha dato voce a centinaia Mariella Mehr attraverso il personaggio Anna. Tutte hanno una domanda da rivolgere al mondo, “perché?”, la scrittrice lo dice senza guardare in camera nel documentario, Anna lo dice cercando di uscire dalla sua situazione di falena martoriata dal male subito, dai ricordi, da se stessa. 

Oltre alle interviste, in questo film si trova molto della scrittura in prosa di Labambina, uscito per Effigie nel 2006, e primo volume della “trilogia della violenza”. Labambina è un testo forte, molto forte, in cui la parola identifica esattamente la realtà senza ricorrere a metafore o ad alleggerimenti, la parola è chirurgica, precisa, spietata nel dire quel che deve dire. Non che la metafora non lo sia, non che il ricorrere a perifrasi alleggerisca la narrazione, come Janet Frame nel suo diario del manicomio Dentro il muro – uscito per TEA nel ’94 e poi per Neri Pozza nel 2013 con il titolo Gridano i gufi – in cui la lingua della scrittura talvolta pare uscita, come l’autrice, dall’ennesimo elettroshock in cui gli oggetti hanno nomi e connotati diversi. In Mehr la parola ha un significato così potente in quanto per nulla astratto e l’assenza di parola è l’unica alternativa alla parola chirurgica. La protagonista in Labambina è una bambina che non parla, che non emette parole, le urla, ma non le escono nemmeno quando viene violentata o picchiata o additata come la causa di ogni male. Labambina è singultita dalle sue urla che non fanno rumore, dal suo dolore che non esce sotto forma di parola ma di azioni. Il vuoto di amore è in lei il vuoto di parola. 

 

Nella scrittura Mehr denuncia la sua lancinante verità sulle persone composte da bene e male, così anche la vittima di molti, di tutti, sarà capace di compiere il male feroce come unico modo di dare prova di esistere. Nella protagonista del primo volume della trilogia, il vuoto di amore è il vuoto di parola, e oltre a non poter parlare è “accecata dal dolore” e talvolta si protegge guardando con l’unico occhio compassionevole che ancora possiede: l’“occhio interno”, occhio che vede il dolore e la sofferenza degli altri, spesso di alcuni animali vittime anch’essi dell’uomo. L’intera trilogia è prevista in uscita da aprile 2018 per Fandango Libri.

 

La lingua, usata come strumento chirurgico per rendere con parole precise e asettiche una realtà abbacinante, è lo strumento della poesia di Mehr. Il luogo dei suoi versi è all’interno della testa, un luogo privato e intimo che tenta di preservarsi dopo molte e brutali incursioni. Non vi è un tempo nella narrazione poetica, non vi è mai stato un rinascere per l’autrice, una primavera, in quanto anche il nascere è stato arduo, così come il vivere, e l’essere ancora viva. Presente, passato e forse futuro convivono nel medesimo asse temporale, perché il passato è vivo e spesso lacerante dentro un presente che si fa futuro. Il futuro chiama, piccola cosa tra la luce; la morte fa capolino tra i versi e chiama con voce che si fa sentire. Cosa è essere “nati sghembi” se non vivere con occhi armati che trafiggono presente, passato e futuro, occhi che difendono e proteggono da ciò che hanno visto, da ciò che non vogliono più vedere? 

 

Il dolore è la sorgente della scrittura di Mehr, quel dolore implacabile che si portano addosso i perseguitati e che si incrementa attraverso l’autrice sopravvissuta e attraverso la bambina ferita. 

La letteratura come ancora di salvezza, seppur nella devastazione subita è l’unico modo per aggrapparsi a un mondo vivo e salvifico: parole che possono narrare usando il tempo che l’autrice vorrebbe annientare. Il tempo, come la speranza, è ciò contro cui combatte con le parole, per commutarne la parcellizzazione causata da angoscia e depressione in uno svolgimento, in una continuità, in un poter esser prima e dopo e durante in una totalità. 

La speranza, come il tempo, ricorre nella scrittura di Mehr, per esser negata e per essere sperata. La luce spesso compare tra i versi, la luce che scandisce il tempo e al contempo lo cuce in giorni. Ma altrettanto spesso è luce che non cuce, che non rimargina il tempo, ma lascia “ognuno incatenato / alla sua ora”, come dice il titolo della sua silloge uscita per Einaudi nel 2014. 

 

A ogni suo testo Mehr si concepisce cercando di sopire il ricordo del mondo violento in cui è nata e cresciuta, si crea e nasce da una tradizione e da radici che lei stessa si dà di giorno in giorno, a ogni lirica si partorisce con il dolore e la speranza di vedere la luce. È quello che fa Anna nel film di Pedicini: convive in una angusta nicchia spazio-temporale con i mostri del presente e del passato, cercando di ricomporre la bambina violata e la donna spezzata, fino a quando la luce di fuori faccia sì che il corridoio di tutti i giorni la espella, la partorisca a nuova vita. 

Mehr è la poesia del patimento di una donna spezzata, una donna la cui follia è iniziata con una diagnosi che ha preso il sopravvento, una donna sopravvissuta al primo elettroshock a cinque anni senza anestesia, tra i pochi rimasta viva al genocidio della sua etnia durato ottanta anni. Mehr, una scrittrice a cui i libri hanno salvato la vita, incontra Pedicini che vuole dare un volto a una donna con una “biografia forte” – come scrive in una intervista apparsa su “La Lettura” del 13 agosto 2017 . È così che nascono i documentari e il film Dove cadono le ombre: per non dimenticare. Perché, come dice Mehr, “i vivi devono ricordare”.

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