Capitalismo della sorveglianza / Bezos Amazon: vendere tutto

12 Giugno 2020

Nel 1994 il trentenne Jeff Bezos era un brillante e promettente manager di Wall Street. Lo folgorò un'intuizione destinata a cambiare il mondo. Internet stava esplodendo e l'azienda per cui lavorava, DESCO, stava studiando diversi business plan, compreso lo “everything store”, ovvero “il negozio che vende tutto”. 

Era un progetto di intermediazione che si spacciava per disintermediazione, adeguandosi alla retorica del web. Era un obiettivo grandioso ma prematuro. Era impensabile “vendere tutto”. Bezos stilò una lista con una ventina di prodotti e decise che la categoria più promettente erano i libri. “Erano merce pura: tutte le copie di un libro presenti nei diversi negozi erano uguali tra loro, quindi gli acquirenti sapevano sempre cosa aspettarsi. All'epoca esistevano due principali distributori di libri, Ingram e Baker and Taylor, quindi un nuovo rivenditore non avrebbe dovuto contattare una per una le migliaia di case editrici. E soprattutto in tutto il mondo c'erano tre milioni di libri in catalogo”, molti di più di quanti potesse contenerne la più grande delle librerie (Brad Stone, Vendere tutto. Jeff Bezos e l'era di Amazon, Hoepli, Milano, 2014). Bezos voleva sfruttare e monetizzare la “coda lunga”, quella che dieci anni dopo avrebbe teorizzato Chris Anderson su “Wired”: i microtarget dei lettori erano il terreno di sperimentazione ideale.

Nell'estate del 1994 Bezos mollò tutto. Lasciò New York per Seattle: nella capitale del grunge le tasse erano più basse e si potevano reclutare i programmatori di Microsoft. Quella di Bezos era solo una start up. Solo libri. Ma il dominio acquistato per lanciare il brand tradiva la visione di lungo periodo: il Rio delle Amazzoni è il più grande fiume del pianeta. 

 

Per il suo garage, Jeff comprò in saldo due porte di legno che divennero i piani delle scrivanie: sono ancora oggi il simbolo della frugalità creativa che ancora oggi il suo impero.

Dal 2018 Bezos è l'uomo più ricco del mondo, dopo aver superato Bill Gates. Nel gennaio 2020 per Forbes il suo patrimonio valeva 115,6 miliardi di dollari. Adesso è ancora più ricco. Negli ultimi mesi, la sua azienda è stata tra quelle che più ha beneficiato del lockdown. Gli acquisti sono esplosi, al punto che Amazon ha dovuto adottare “un criterio di priorità: prima gli alimentari, poi il resto. Ha cambiato la sua interfaccia per scoraggiare chiunque ad aggiungere altri prodotti. Ha azzerato le campagne promozionali su Google. E sospeso il programma che consente ai rivenditori di servirsi della sua rete distributiva dopo il pagamento di una commissione” (Milena Gabanelli e Fabio Savelli, Monopolio Amazon: strategia, effetto Covid, in “Corriere della Sera”, 18 maggio 2020).

 

 

Confinati in casa con i negozi chiusi o con lunghe code ai supermercati, siamo entrati nel più grande negozio del mondo, abbiamo esplorato un'offerta che copre (quasi) tutti i generi merceologici, abbiamo cliccato sulla Buy-Box e il prodotto ci è arrivato a casa in ventiquattr'ore, a un prezzo assai conveniente. Solo qualche anno fa era fantascienza, oggi è lo standard. L'immediata soddisfazione del desiderio è un nostro diritto. La praticità e la fluidità dell'interazione producono assuefazione. Il nostro cervello produce dopamina, la molecola del piacere. È la “gratificazione istantanea” prodotta dagli smartphone e dai social network, oltre che dal gioco d'azzardo e dalle sostanze (di questi meccanismi hanno parlato negli anni Cinquanta gli psicologi Olds e Milner, più di recente Robert Lusting in The Hacking of the American Mind, 2017).

 

Martin Angioni ha lanciato e diretto per quasi cinque anni Amazon.it. Dunque è un insider, anche se non lo si può definire un whistleblower. Nei confronti del suo antico datore di lavoro, ha un sentimento ambivalente e lo esprime in Amazon dietro le quinte (Cortina, Milano, 2020). Anche se non corrisponde al suo carattere, ammira la visione imprenditoriale di Bezos, le strategie e il modello organizzativo che ha creato. Spiega che quella di Amazon è una rivoluzione, e ne coglie il limite: è un Walmart 2.0, che ha duplicato e reinventato nella rete la grande catena di negozi inventata da Sam Walton nel 1962, usando metodologie analoghe. Alle quali si aggiunge il pricing dinamico consentito dalle grandi piattaforme (e dai big data). Adesso sta entrando nel ricco mercato degli alimentari, mentre il suo modello pop non attira il mondo della moda, che si nutre di esclusività.

Tuttavia per Angioni questo modello fin troppo efficiente – e dunque spietato sia con i concorrenti sia con i fornitori – è molto pericoloso, per diversi ordini di ragioni. Ci sono in primo luogo i difetti più evidenti, denunciati anche dal documentario trasmesso dalla PBS all'inizio del 2020 Amazon Empire: The Rise and Reign of Jeff Bezos.

 

È un elenco di peccati che tutti conosciamo e che fingiamo di ignorare quando compriamo su Amazon Prime perché è così veloce, comodo e conveniente. C'è la vocazione all'elusione fiscale: tra il 2007 e il 2015 Amazon ha pagato appena il 13% dei profitti in tasse, mentre la media delle aziende dell'indice S&P 500 è del 27% (la situazione è stata parzialmente sanata anche in Italia con una sanzione di 100 milioni di euro). C'è la tendenza a strozzare i fornitori più piccoli, intrappolati nella filiera verticale di vetrina online-deposito-consegna. Ci sono i dipendenti spremuti come limoni all'interno dei giganteschi depositi. Ci sono i “padroncini”, quelli che consegnano i pacchi di Amazon in meno di 24 ore, ovvero imprenditori ridotti da contratti vessatori a sfruttatori di sé stessi, come ha raccontato Ken Loach nel film Sorry We Missed You (2019).

 

 

Questi peccati sono forse emendabili. Dovrebbe essere possibile garantire a tutti costoro condizioni migliori di vita e di lavoro, e in parte sta accadendo. Sarebbe interessante capire di quanto si ridurrebbero i suoi margini di redditività, se l'azienda si liberasse da questi “difetti”. Forse andrebbe incontro a gravi problemi di identità, prima che di bilancio, perché questo atteggiamento predatorio è la benzina del capitalismo, che per crescere all'infinito punta all'azzeramento della concorrenza e all'asservimento dei fornitori. 

Poi ci sono i peccati mortali. 

 

C'è il “paradosso dell'antitrust” individuato da Lina Khan. Le nuove piattaforme hanno abbassato i prezzi, o cedono addirittura gratuitamente i loro servizi, come Google o Facebook: dunque favoriscono i consumatori. Ma “queste aziende diventate rapidamente enormi piattaforme hanno ammassato in pochi anni un potere strutturale enorme, cioè quote di mercato che le rendono pericolose per il mantenimento di un sano livello di concorrenza” (Angioni, cit., pag. 191). 

Gli algoritmi che gestiscono la Buy-Box sono opachi e fuori da ogni controllo (sia per i fornitori sia per i clienti): Amazon gestisce il banco e può cambiare le regole a proprio piacimento. Grazie ai giganteschi guadagni ottenuti con AWS (Amazon Web Services), ovvero con il cloud (al quale si appoggiano anche diversi suoi concorrenti), può permettersi di fare dumping in altri rami d'azienda, eliminando la concorrenza. Per di più c'è un evidente conflitto d'interesse, visto che Amazon vende i prodotti con il proprio marchio in concorrenza con quelli di altri produttori.

C'è l'invasione della nostra vita privata grazie ad Alexa, l'assistente personale diffuso in milioni di abitazioni.

 


 

Grazie al suo successo planetario, Amazon è uno dei capisaldi del “capitalismo della sorveglianza” descritto da Shoshana Zuboff, che Angioni cita in diverse occasioni con sincera e giustificata preoccupazione.

In questa storia l'eroe e il cattivo coincidono. Lo spietato capitalista e il geniale visionario. L’attenzione ossessiva al dettaglio e gli obiettivi a lungo termine. Bezos è famoso per la sua risata: “un suono sconcertante e repentino che viene prodotto spingendo in avanti il mento, chiudendo gli occhi ed emettendo un ruggito gutturale, a metà tra un tricheco in fase di accoppiamento e un trapano elettrico. Spesso la risata prorompe in circostanze nelle quali nessun altro trova alcunché di divertente”. Per i dipendenti quella risata “è una pugnalata al cuore” (Stone, cit., pag. 7). Eppure quella stessa risata affascinò la giovane MacKenzie: “Come si fa a non innamorarsi di quella risata?”, confessò nel 2012 a “Vogue” (pag.16).

 

Quando divorziarono, nel 2019, dopo che il marito era stata paparazzato con una prosperosa starlette, l'ex signora Bezos si accontentò di una buonuscita di 38 milioni di dollari, diventando così una delle donne più ricche del pianeta, anche se ha promesso di voler donare metà del suo patrimonio. 

Dopo il divorzio, Jeff Bezos resta sempre l'uomo più ricco del mondo. Da qualche tempo, come Elon Musk, trova che il pianeta terra gli stia troppo stretto. Per ora non pensa alla filantropia o al mecenatismo. Insegue anche lui l'avventura spaziale.

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