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Le cose che non si vedono / Il virus invisibile

9 Aprile 2020

La sua forma è seducente: un piccolo pianeta grigio su cui crescono alberelli dalla chioma rossa. Così l’hanno fotografato con un microscopio elettronico al Center for Disease Control and Prevention. In altre immagini invece, pubblicate da poco su Nature Medicine, appare come una sfera violacea coperta da piccole forme verdi dalle teste tondeggianti simili a piccoli chiodi. Da queste protuberanze deriva il nome, Coronavirus, poiché sembrano una corona attorno al virione. Questa è la forma che ha scatenato la pandemia. I virus hanno tutti delle forme affascinanti, spesso sono esagoni, perché questo è il modo migliore per impacchettare unità identiche minimizzando al contempo l’energia. Il tipico rivestimento esterno di un virus è costituito di molte coppie della stessa unità proteica assemblate come i vertici di un poliedro, spiega Ian Steward, matematico e studioso delle forme. Steward cita l’architetto Buckminster Fuller, inventore e futurologo, che, ispirato dalle forme matematiche degli oggetti naturali, ha costruito le sue celebri cupole geodetiche, così come due scienziati, un chimico americano e uno spettroscopista inglese, che lavorano sulle forme dell’icosaedro e nel 1985 hanno vinto il Premio Nobel. I poliedri sono figure geometriche piene di sorprese come sanno gli studiosi di topologia. La bellezza del virus, di questo come di quelli che attaccano le piante, ad esempio il tabacco, evoca altre configurazioni naturali simili, ad esempio i fiocchi di neve, dotati di affascinanti geometrie. Parecchie di queste forme sono visibili, come ad esempio quelle ad esagono degli alveari, prodotte dalle api da migliaia e migliaia di anni; molte altre, come i virus della famiglia cui appartiene il Covid-19 (Orthoconavirinae sotto famiglia, e Coronaviridae famiglia dell’ordine Nidoviral), sono nascoste all’occhio umano. Si è detto che si tratta di un nemico invisibile, usando metafore belliche, e si è posto l’accento sulla prima parte della espressione; tuttavia credo che sia l’aggettivo “invisibile” quello su cui bisogna porre l’accento. Senza il microscopio elettronico nessuno lo può vedere, eppure c’è. 

 

Ora i virus sono molto antichi; i biologi dicono che le loro origini non sono molto certe, mentre altri pensano che alcuni di loro si sono evoluti dai plasmidi, altri invece dai retrosporoni, o generati come prodotti di degradazione del DNA d’una cellula, come è anche scritto nella pagina dedicata a loro in Wikipedia. Nella storia dell’evoluzione della vita sulla Terra probabilmente appartengono a un’evidenza precedente la vita stessa, quella stessa da cui veniamo noi. In realtà i biologi li considerano forme di vita vere e proprie, perché si riproducono e contengono materiale genetico, poi si evolvono seguendo una loro linea naturale. Qualcuno dice che sono organismi ai margini della vita, di certo uccidono altri organismi molto più complessi come noi, che di fronte a questi invisibili ci siamo a lungo considerati il vertice dell’evoluzione naturale. Un po’ di modestia, dopo questa pandemia, sarà opportuna.

È dunque sulla invisibilità che voglio qui soffermarmi, e poi su un altro aspetto di cui dirò più avanti. Come hanno messo in luce già alcuni articoli, c’è un’evidente analogia tra il virus, il suo potere di diffusione, e aspetti dell’informatica da cui deriva il mondo di Internet e il Web. L’espressione “viralità” ha circolato abbondantemente ben prima dell’arrivo di Covid-19 e anche della diffusione della Sars nel 2002, che per nostra fortuna si spense abbastanza presto fuori dalla Cina (coinvolti solo 17-20 paesi), prima di mettere in crisi come il Covid-19, suo succedaneo, l’intero sistema mondiale. L’invisibilità è diventata da qualche decennio lo stigma della nostra stessa civiltà contemporanea. 

 

Nel 1985 scrivendo le prime cinque parole chiave delle sue Lezioni americane Italo Calvino, che doveva scomparire prima di tenerle a Harvard, aveva introdotto nella prima di queste, dedicata alla Leggerezza, l’idea di un “mondo che si regge su entità sottilissime come i messaggi del DNA, gli impulsi dei neuroni, i quarks, i neutrini vaganti nello spazio dall’inizio dei tempo”. Una bella lista di esempi e ambiti scientifici e tecnologici in cui il virus Covid-19, se fosse circolato già allora, poteva essere incluso. L’informatica poi, aggiungeva, subito dopo aver indicato quella serie di invisibili, è comandata dal software, dato che le macchine, l’hardware, esistono sì, ma in funzione del primo: “si evolvono in modo d’elaborare programmi sempre più complessi”. La questione della complessità è il secondo aspetto che riguarda l’attuale situazione, come vedremo più avanti. Voglio soffermarmi sul tema della visibilità/invisibilità. 

Sempre in quel passaggio sulla leggerezza Calvino concludeva parlando della seconda rivoluzione industriale – noi oggi diremmo terza, o forse quarta, anche perché le rivoluzioni si susseguono a un ritmo così veloce che la numerazione risulta pleonastica –, si presenta sotto forma di un flusso di bits, flusso di informazione “che corre sui circuiti sotto forma d’impulsi elettronici”. Le macchine di ferro, poi, “ci sono sempre, ma obbediscono ai bits senza peso”. Questi temi sono sviluppati nella lezione americana dedicata alla Visibilità, tema fondamentale per Calvino. Ora, senza inoltrarci in un’esegesi delle Lezioni americane, vorrei solo richiamare l’importanza che ha l’invisibile nel contesto di questo testo e sottolineare come Calvino individui molto bene lo spirito dell’epoca che si era appena aperta: considerare l’importanza delle cose che non si vedono. Quello che è venuto dopo è andato decisamente in quella direzione. Lo sviluppo della fisica successiva a quel 1985, ad esempio, con la scoperta del Bosone di Higgs, teorizzato dal fisico inglese nel 1964, ma identificato solo nel 2012 grazie agli esperimenti al CERN di Ginevra, ha dato ragione all’attenzione che Calvino poneva sulla invisibilità. 

 

 

Per non farla troppo lunga, il primo punto che volevo mettere a fuoco, è proprio il legame che esiste nella nostra età contemporanea tra i virus, in particolare l’ultimo letale, il Covid-19, e l’informatica, ovvero il Web. Il virus non è nient’altro che la manifestazione di un aspetto presente nei bits e nelle particelle elementari, che i fisici vanno via scoprendo. Certo, il virus esiste sin da prima che si formassero le cellule, da cui poi deriva il nostro stesso organismo – così dicono i biologi –, ma anche i neutrini vaganti nello spazio esistono dall’inizio dei tempi, almeno dal Big Bang, probabilmente 14 miliardi di anni fa, anno più o anno meno. Un’enormità rispetto alla sferetta con protuberanze che cerchiamo ora di scansare. Invisibile non significa inesistente, anzi. Proprio il contrario. Invisibili sono i software, che organizzano oggi la nostra vita comunicativa e non solo, invisibili sono i Big Data e gli algoritmi che programmano la vita economica e sociale, che definiscono istituzioni sempre più invisibili come banche, assicurazioni, società finanziarie, e poi le società digitali proprietarie di numerose piattaforme. Inoltre l’invisibilità è lo stato verso cui s’avvia anche il lavoro dopo la sospensione dei contatti e la necessità del distanziamento sociale, che, dopo il Coronavirus, rende obsoleti luoghi come gli uffici. 

 

Ho in mente una frase di André Leroi-Gourhan, il paleontologo, studioso di tecnologie primitive, in Il gesto e la parola (sottotitolo: La memoria e i ritmi) pubblicato nel 1965 da Einaudi (ora ristampato da Mimesis), secondo cui il corpo dell’uomo era già arretrato rispetto alle invenzioni tecnologiche all’epoca delle triremi. Figuriamoci ora. Qui si coglie l’importanza delle Lezioni americane, libro non ancora compreso a pieno, dove Calvino non ha identificato solo qualità o specificità della letteratura, ma dell’intero complesso antropologico e tecnologico del XX e soprattutto del XXI secolo. Se c’è un autore così novecentesco, e insieme così post-novecentesco – come se si potessero separare le due cose – è proprio l’autore delle Cosmicomiche, un autore da portare con noi nel prossimo passaggio d’epoca che s’annuncia dopo la fine della pandemia. L’altro aspetto che si lega a questo è segnalato sempre nella lezione sulla Leggerezza, ed è un tema che ha ossessionato Calvino negli ultimi quindici anni della sua vita: la polverizzazione della realtà. Almeno dall’epoca in cui aveva progettato di realizzare una rivista con Gianni Celati, Carlo Ginzburg, Guido Neri e Enzo Melandri, nel 1972, chiamata convenzionalmente Alì Babà, lo scrittore ligure aveva capito che le tradizionali categorie, le stesse da cui proveniva, non servivano più a comprendere la realtà, categorie e i “paradigmi scientifici”, per dirla con un’espressione di Thomas Kuhn. Questa polverizzazione era la riduzione del mondo a granelli di polvere, che poi sono gli atomi evocati da Calvino quando cita Lucrezio in più punti della sua opera, in particolare in Collezione di sabbia

 

Non voglio qui farla lunga, perché questa non è una lezione universitaria, una di quelle che ora facciamo on line, per forza di cose e dove, per la maggior parte del tempo, i nostri interlocutori abituali, gli studenti, sono perfettamente invisibili. Mentre noi siamo visibili, ma sotto forma di bits. Calvino era ossessionato da questa riduzione della solidità del mondo “che si estende anche agli aspetti visibili”. Da un lato, la rendeva con l’immagine della sabbia, effetto della erosione delle rocce e delle grandi montagne, oggetto per lui ambivalente (granelli di sabbia sono per lui anche le lettere che compongono le parole su cui si è arrovellato per tanta parte della sua esistenza); dall’altro, l’invisibile è il filo dei ragni, le ragnatele, “che ci avvolgono senza che noi ce ne accorgiamo mentre camminiamo”. Oggetti entrambi sottili. La parola “sottile” viene da sub-tela, “sotto la tela”: il mondo diventa sempre più sottile, e dunque invisibile. Questa la realtà con cui un uomo proveniente dal mondo della solidità, della pesantezza, come Calvino si stava avviando verso il mondo della invisibilità, quello abitato dagli impulsi elettronici, dai bosoni e altre particelle elementari, e ora anche dai virus che sono usciti dalle caverne cinesi grazie ai pipistrelli, come ci dicono molti studi recenti, ed ora abitano il Pianeta azzurro. Rispetto a tutto questo noi siamo arretrati biologicamente, salvo per un aspetto: la mente, la nostra mente, ma anche la Mente universale, per dirla con Leibnitz, Galileo, Raimondo Lullo, Pico della Mirandola, e anche Einstein e Gödel. 

 

Come ci comporteremo dunque nel prossimo futuro? L’invisibilità è una questione a cui siamo preparati oppure no? Quali sono gli strumenti che abbiamo per comprenderla e trattarla? Il salto che il virus ci ha fatti fare paradossalmente non è tanto la morte che semina – evento terribile e decisivo che tutti noi paventiamo –, ma l’attivazione dell’immagine della invisibilità. Dico immagine perché quelle fotografie del Covid-19 prese con il microscopio elettronico sono incapaci di restituirci l’invisibile che il virus porta con sé. Abbiamo in queste settimane e mesi contrastato quell’invisibilità con un’altra “visibilità”: il digitale. Ci siamo allineati sulla comunicazione dei bits, come li chiamava trentacinque anni fa Italo Calvino. Ma i nostri corpi come si rapportano con l’invisibile? Se erano già superati all’epoca delle grandi imbarcazioni spinte dai remi, come sostiene il paleontologo francese, come ci rapporteranno con l’universo dell’invisibile che avanza e che ci contagia?

 

Forse una teoria per affrontare il cambio di paradigma avvenuto c’è. Non è necessario cercare nel passato remoto, o meglio, non solo lì. Si chiama “teoria della complessità”, che è poi non è tanto una teoria, ma un modo per affrontare le questioni che si pongono. Si tratta di una forma di sapere emerso negli anni Ottanta del Novecento grazie a una serie di autori che sarebbe opportuno tornare a rileggere: Gregory Bateson, Michel Serres, Edgar Morin, e altri come biologi, matematici e fisici che si sono occupati della “teoria delle catastrofi”, oppure dei sistemi non lineari, o ancora delle “teorie della percolazione” e dei temi del “caos sensibile”, cui anche Calvino si rifaceva in Palomar. Di cosa si occupa la “teoria della complessità”? Del rapporto tra ordine e disordine, della relazione tra scienze umane e scienze esatte, degli equilibri termodinamici degli organismi viventi, ma anche dell’universo in generale. Per brevità provo a rinviare a un piccolo dizionario che ho pubblicato tempo fa in doppiozero. La complessità è ciò che ci permette di affrontare la questione dell’invisibilità. Si tratta di un principio che riconosce la complicazione del visibile e dell’invisibile, e tiene conto del fatto che la contraddizione è ineliminabile, e che noi viviamo nell’incertezza, non più nella certezza garantita dalle scienze dure del passato. Si tratta di un principio epistemologico che supera a suo modo l’opposizione fra razionale/irrazionale proposto dalla modernità. 

 

Complesso non è complicato; il termine deriva da un termine latino, complex, che indica i fili che compongono un tessuto, dove ogni filo è indistinguibile in quanto unito agli altri; e solo l’unione dei fili dà vita alla complessità. Complicato invece viene da cum plicare, che significa “piegare insieme”, il che vuol dire, come nella epistemologia classica, quella nata con la rivoluzione scientifica del Seicento, avere a che fare con un groviglio, con un intrico, difficile da sciogliere. Secondo Henri Atlan, biofisico ed epistemologo francese, la complicazione di un artefatto o di un evento comporta la conoscenza totale del fenomeno da descrivere, mentre la complessità può includere un elemento di ignoranza da parte di chi osserva o agisce. Una forma di sapere più adatta alla nostra epoca dominata dalla invisibilità. Tutti questi temi si trovano sviluppati in un’utile antologia: La sfida della complessità a cura di Gianluca Bocchi e Mauro Ceruti (Feltrinelli). Secondo la tradizione filosofica occidentale tre sono i parametri che pongono il loro sigillo di verità (simplex sigillum veri): semplicità, chiarezza e distinzione. La scienza della complessità implica un confronto continuo con un universo – un multiverso – disordinato in cui non è sempre possibile raggiungere la semplicità. Si tratta di una aspirazione, non di una realtà. Il caos è la condizione permanente in cui i pensatori della complessità si trovano ad operare. L’ordine della invisibilità non è riducibile alla visibilità: restiamo come ora sospesi a una continua indecidibilità.

 

La finisco qui, non senza aver detto che i temi della nuova organizzazione sociale dopo la pandemia, il rapporto diventato problematico tra locale e globale, le questioni della democrazia sociale e insieme economica, la crisi ecologica del Pianeta, hanno tutti bisogno di un pensiero non-sistematico, che si possa misurare con aspetti apparentemente incongrui tra loro come il flop del sistema sanitario italiano e in particolare di quello lombardo, le intuizioni di tanti ricercatori sulla natura della pandemia, la questione delle mascherine mai arrivate e anche l’ospedale costruito dagli alpini a Bergamo o il padiglione di terapia intensiva alla Fiera di Milano costruiti in tempi rapidi. E molte altre cose ancora, che non sembrano appartenere al campo del pensiero, e invece sì. Partendo da Calvino, ma per andare oltre, perché la complessità è un sapere in continuo cambiamento, come il mondo intorno a noi. 

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