Speciale

Chissenefrega di Biancaneve

6 Luglio 2015

Quando ero bambina mio padre mi raccontava molte storie, alcune le leggeva, altre le inventava, talvolta le cantava perfino. Le storie scandivano spesso le mie giornate, specie quelle in cui ero a letto con le tonsille gonfie e la gola dolorante, cosa abbastanza frequente. Sentirlo raccontare non mi bastava mai e spesso gli imponevo di recitare le stesse storie, come poi ho appreso è tipico dei bambini. Le mie preferite erano le principesse, neanche a dirlo. Unica eccezione era una storia raccolta in un libro con il marchio Disney e una copertina dorata, una storia di cui erano protagonisti i nani di Biancaneve in un tempo in cui la dolce fanciulla doveva essere già lontana con il suo principe o di là da venire, non so, e cosa straordinaria non mi importava.

 

Fino a qualche mese fa non avevo un ricordo preciso né del libro né della storia, ricordavo bene la sensazione di vaga angoscia trasformata in sollievo quando finalmente i sette nani riuscivano a sconfiggere il gigante che era venuto ad abitare vicino a loro e voleva fare il padrone di questo e di quello. Non ricordavo altri dettagli finché mi sono accorta che l’attenzione di mia figlia era cresciuta e le si potevano leggere storie più lunghe. Allora sono andata a cercare il libro e ogni sera, per la gioia di entrambe, le ho letto una storia. Ho proceduto con ordine, sera dopo sera, e un giorno eccoti là il racconto dei sette nani e del gigante Marbone!

 

Bene, Marbone è un prepotente e vuole fare il padrone delle formiche, delle lepri, degli scoiattoli, degli uccelli, e anche dei nani. Non ha una ragione per farlo – “non so cosa è meglio o cosa è peggio”, dichiara – sa che vuole fare il padrone delle formiche eccetera, eccetera. I nani lo sfidano a varie prove, vincendo sempre e in cambio lui dovrebbe andarsene, ma Marbone è più alto e più grosso e non si muove, finché i nani con il solletico lo fanno diventare piccolo come loro. Allora gli consentono di restare, ma solo a fare il padrone della sua insalata, e se ne tornano a casa – il libro dice – otto volte felici (“la prima perché mangiavano, la seconda perché bevevano, la terza perché dormivano, la quarta perché giocavano, la quinta perché lavoravano, la sesta perché stavano in compagnia, la settima perché c’era il mondo, e l’ottava perché non avevano padrone”).

 

Su questo punto leggendo ho avuto un’esitazione e mia figlia mi ha ripresa. Il fatto è che io un padrone non ce l’ho: sono free lance. Lo ero quando le ho letto la storia, mesi fa e lo sono oggi, ma oggi più a fondo. Essere free lance è una condizione dello spirito. È difficile dire quando ho cominciato: sono nata alla fine del 1979 e appartengo a una generazione che il free lance ce l’ha nel sangue. “Di necessità virtù” dicevano le mie nonne, e infatti… Ero free lance a diciannove anni quando in tempi privi di patentini facevo la guida turistica, ero free lance quando organizzavo le prime mostre e scrivevo le prime cose, ero free lance anche quando non lo ero, sottoscrivendo contratti free lance e a progetto con orari e obblighi da lavoratore subordinato e committenti unici.

 

Poi, un giorno, sono stata costretta a riflettere sulla mia condizione. Il committente unico mi aveva voltato le spalle, lui sì free lance. Quando si è da sempre in una situazione si rischia di rimanervi e basta: la situazione non è una situazione è un fatto, una cosa naturale, legata alla nostra fisionomia, su cui non è scontato avere uno sguardo. Ma può capitare di dover variare la propria prospettiva domestica e allora si scoprono delle cose. Io ho scoperto di avere degli obblighi verso me stessa.

 

In realtà io avrei dovuto essere il centro della questione anche prima, ma prima, mi ero fatta distrarre dalla figura della principessa. La principessa ero io, è naturale. Mi muovevo con garbo tra un dottorato portato avanti il sabato e la domenica e un lavoro full time, a volte bello a volte brutto e insensato, tra la famiglia, gli amici sempre più espatriati e il desiderio informe di poter fare a un certo punto anche altro, o magari essere un po’ altrove, cose così. Ero un personaggio della storia con il suo ruolo e il resto, un personaggio non avvezzo alla lotta per la sopravvivenza, inesperto delle dinamiche lavorative, ma molto aggraziato, si intende. Quando ho letto la storia a mia figlia, sentendo dire alla mia voce parole ascoltate decine di volte da bambina, sovrapponendo le mie, alle parole lontane di mio padre, me ne sono resa conto per la prima volta. Ho capito di trovarmi a metà cammino di un esercizio di morbidezza ed elasticità in cui mi stavo trasformando da principessa in nano: la parola ‘padrone’ mi aveva aperto gli occhi su una prospettiva diversa. Stavo diventando per davvero quello che in teoria sono da sempre, da prima di saperlo: una storica dell’arte free lance (certo, la definizione mi ha procurato qualche difficoltà nella compilazione dei moduli per la scuola di mia figlia, ma siamo creativi per definizione, che ci vuole!).

 

Cosa vuol dire? Ho un guadagno medio mensile da povertà relativa. Collaboro con questo e quello: faccio delle lezioni, rivedo dei testi, scrivo qualche cosetta, faccio un po’ di redazione, di ricerca immagini, ordino archivi, partecipo a bandi. Spesso mi capitano richieste stupefacenti, mi ritrovo in storie di varia umanità e la frase ricorrente – vien quasi la voglia di dirla prima che la dicano gli altri: alla tanaliberatutti – è: “non c’è budget” (è vero, ci hanno anche fatto dei video che girano in rete! Ma come dirlo a Romolo, il mio fruttivendolo che non ho budget? Che sono l’anello di una catena free lance?). Non potrà essere ancora per molto, eppure va bene. Va bene, perché ho raggiunto qualcosa di vicino alla consapevolezza, ho fatto degli incontri. Va bene perché per me oggi essere free lance corrisponde a un’economia disastrosa, che andrà migliorata, ma soprattutto al cambiamento della mia prospettiva. Nel percorso ho conosciuto brave persone, molte generose, moltissime free lance, soprattutto ho avuto il tempo per soffermarmi un istante in più. Sono free lance, e serve. Pago sempre le bollette il mese dopo, se va bene – anche perché mio marito è precario all’università, ma questa non è un’inchiesta quindi tacerò sulle sfighe lavorative che procedono in coppia – ma sono otto volte felice. La prima perché sono padrona della mia insalata, la seconda perché so cosa è meglio e cosa è peggio, la terza perché mangio e bevo, la quarta perché dormo, la quinta perché leggo (anche storie), la sesta perché scrivo, la settima perché amo, l’ottava perché non ho padrone.

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