Straniero / Elvio Fachinelli, maestro e amico

21 Dicembre 2019

Il 21 dicembre cade il trentennale della scomparsa di Elvio Fachinelli (1928 - 1989). Oggi gli psicoanalisti italiani delle varie scuole lo considerano una delle figure più significative della psicoanalisi italiana dalla sua nascita in poi. Anche se troppo spesso la sua rilevanza tende a essere appiattita in quella dello psicoanalista militante dei movimenti di contestazione politica degli anni ’60 e ’70.

Nacque a Luserna, villaggio delle Alpi italiane, in un’area in cui si parlava tedesco, italiano e cimbro (una lingua locale usata da poche migliaia di persone). Dopo studi di medicina e psichiatria a Milano, entrò nella Società Psicoanalitica Italiana (SPI), avendo come analista Cesare Musatti, uno dei fondatori storici della SPI. Musatti, curatore dell’edizione italiana delle Opere Complete di Freud, poi divenne celeberrimo in Italia grazie alle sue carismatiche apparizioni televisive. Fachinelli stesso partecipò alla traduzione italiana delle Opere di Freud; tradusse L’interpretazione dei sogni e La negazione

 

L’essere membro della SPI non gli impedì di organizzare assieme ad altri analisti, nel 1969, una contestazione del Congresso Internazionale di psicoanalisi dell’IPA a Roma. Un atto sulla scia delle contestazioni che dal 1968 in poi si erano diffuse in tutta Europa. Il modo in cui inscenò la protesta incuriosì e l’impresa ebbe una vasta eco mediatica al di fuori della cerchia psicoanalitica. Malgrado questo, Fachinelli non uscì mai dalla SPI, nemmeno quando, nel 1988, pubblicò assieme a me una conversazione in cui attaccò a fondo il modo di cooptazione degli analisti da parte della SPI, mettendone in questione l’autorità e l’apertura.

Fachinelli si avvicinò sempre più alla cultura del radicalismo di sinistra, collaborando in particolare alla rivista Quaderni piacentini. Questa rivista fu una delle matrici nobili del movimento che fu detto poi “extraparlamentare”, in quanto il movimento preferiva l’azione nella società anziché nelle istituzioni politiche. Lui stesso divenne negli anni ’70 uno dei leader della sinistra culturale grazie alla sua collaborazione al settimanale L’Espresso, allora il più prestigioso settimanale italiano, di indirizzo di sinistra non radicale. Su questa linea fondò la rivista L’Erba voglio, che poi divenne una casa editrice con lo stesso nome, nella quale pubblicò giovani narratori, libri “stravaganti” e saggi.

Nel frattempo aveva preso contatto diretto con Jacques Lacan, di cui ammirava gli scritti. Lacan gli propose poi di divenire presidente della società italiana di psicoanalisi di ispirazione lacaniana, ma lui rifiutò.

Fachinelli non aveva una cultura puramente psicoanalitica, leggeva di tutto, dalla letteratura alla filosofia. L’influsso maggiore su di lui l’aveva avuto la Scuola di Francoforte e in particolare Walter Benjamin, ma poi anche l’avanguardia parigina dell’epoca, detta poi post-strutturalista, divenne importante per lui. 

Allo stesso tempo egli moltiplicava iniziative alquanto eretiche rispetto alla pratica psicoanalitica, e legate al sociale. Negli anni ’60 mise in opera un progetto di pedagogia antiautoritaria e libertaria attraverso la creazione a Milano, presso Porta Ticinese, di una scuola materna autogestita (tale esperienza è stata poi narrata da Fachinelli, insieme a L. Muraro e G. Sartori, nel libro L'erba voglio del 1971). Nel 1974 Fachinelli raccolse nel libro Il bambino dalle uova d'oro le esperienze e le riflessioni di quel decennio di battaglie culturali e politiche. 

 

Sul finire degli anni Settanta e con gli anni Ottanta la riflessione di Fachinelli si concentrò sulla psicanalisi clinica e su problematiche in apparenza più individuali, sempre peraltro declinata secondo un'ampia prospettiva culturale e con sensibilità verso i fenomeni sociali emergenti. Appartengono a questi anni La freccia ferma (1979), uno studio sui processi di negazione del tempo e della morte presenti sia nell'individuo che nella collettività; Claustrofilia (1983), uno studio sul desiderio fusionale che accompagnerebbe ogni fase della vita ma manifesto anche nel processo della cura analitica; La mente estatica (1989), un saggio visionario su particolari condizioni limite della coscienza.

Tra le raccolte postume di suoi saggi, Su Freud (Adelphi, 2012)

Per questo trentennale la casa editrice Italo Svevo ha pubblicato un testo inedito di Fachinelli, Grottesche, a cura da Dario Borso. Si tratta di 391 pezzetti brevissimi che sarebbe un errore considerare aforismi, piuttosto descrizioni fulminee di situazioni spesso ai limiti del nonsense, che ricordano gli haiku giapponesi. Mentre li scriveva, Fachinelli mi disse che si ispirava alla virtuosa stringatezza di Roberto Bazlen. Gli haiku sono descrizioni folgoranti e brevissime di situazioni dal senso enigmatico. “Alle sette del mattino, il raschio paziente del badile che spala la neve” (Grottesche, 100). E dove l’humour colora anche le descrizioni più anodine: “La ragazza rinunciò all’idea di suicidarsi andando a farsi riccia” (233). 

 

Un inconscio dionisiaco

 

In una delle prime pubblicazioni di Elvio Fachinelli, "Il magistrato e la tarantola" del 1967 (in Il bambino dalle uova d'oro, Adelphi, Milano 2010), appaiono in nuce già quasi tutti i temi che svilupperà negli anni successivi. Un suo paziente, magistrato quarantenne, per due volte è deciso a tradire sua moglie andando a letto con un'amica. Ma tutte e due le volte è vittima di crisi di vertigine, che gli mandano a monte la scappatella. La seconda volta la crisi irrompe a seguito di un sogno, fatto il giorno prima di recarsi all'appuntamento adultero: "...[il sognatore] gira per le scale e i corridoi del palazzo di Giustizia, un vero labirinto... nel suo girare vede scritto per terra: Di Pietro, il nome di un ministro della Giustizia...", e a questo punto si sveglia in preda a vertigini. Al sogno il magistrato associa le donne morse dalla tarantola che vedeva da bambino al suo paese, il giorno di San Pietro, agitarsi per giorni sul sagrato di pietra, cercando di stabilire un bizzarro contatto con la folla, e sorvegliate severamente dai carabinieri.

“Le tarantolate”, cioè morse dalla tarantola, sono le officianti di un rito semi-pagano molto antico del Sud: soprattutto donne entrano in uno stato di agitazione parossistica, con urla e lamenti, che possono durare giorni. Ernesto De Martino descrisse questo rito catartico in La terra del rimorso.

Attraverso le vertigini – nota Fachinelli – il magistrato non solo sfugge alla tentazione sessuale, ma si identifica alle tarantolate. In effetti, "il morso della tarantola è la raffigurazione mitica di una crisi profonda dell'individualità", ma anche un modo di perseguire un nuovo equilibrio psichico attraverso la ricerca di un modo "altro" di comunicare con gli altri. E come le tarantolate venivano contenute dai carabinieri, così il magistrato è contenuto da "Di Pietro" (che non era quello di Mani Pulite…), da un mausoleo giudiziario. Resta la vertigine – mimesi isterica di una cura mistica – come messa in scena di un tentativo, che lui però non accoglie, di un contatto diverso con gli altri.

 

In questo scritto giovanile c’è già l’essenziale di quel che Fachinelli svilupperà per il resto della vita: resistiamo al nostro inconscio non perché ci infligge sofferenza, ma perché ci mette in contatto con una dimensione che poi chiamerà estatica, con un modo direi dionisiaco di esprimersi. E il sintomo, oltre a essere in relazione con una forma di socialità "mistica", mette in atto l'inconscio, come in un teatro sconsacrato. L'inconscio per lui è a un tempo un'esperienza erotica esorbitante, un modo cenestetico di essere, e un tentativo di modalità di essere-con-gli-altri. Sin dall'inizio Fachinelli si interessa a dar spazio all'inconscio – e a dargli tempo – come istanza temuta perché in sostanza troppo piacevole. L'inconscio gli appariva fonte di una vita non ancora disciplinata che ci spinge verso gli altri, nella temporalità storica. Fachinelli non apprezzava la lettura corrente della frase freudiana wo es war, soll ich werden (“dove es [ciò] era, là Io devo addivenire”), non intendeva prosciugare l'inconscio come gli olandesi prosciugarono lo Zuidersee (secondo la metafora di Freud), ma anzi voleva far affluire il mare sulla terra, animare la pietra dura del palazzo di Giustizia con le forme femminili e fluide del movimento. Fachinelli tendeva a indebolire le difese psichiche, ma non per stabilire nuove difese più efficienti e meno costose, bensì proprio per lasciar esprimere qualcosa che in un primo tempo egli chiama desiderio.

 

Negli anni ‘70 analisti e psichiatri italiani si erano divisi sulla terminologia. Alcuni parlavano sempre di bisogni; altri, sedotti soprattutto dai pensatori francesi dell’epoca, parlavano a tutto spiano di desiderio. Fachinelli adotta questa seconda dizione, anche se non per le identiche ragioni dei parigini. Fachinelli si rende conto del fatto che i famosi bisogni da soddisfare, magari attraverso mobilitazioni sindacali, sono i desideri giudicati ragionevoli dai "saggi", insomma le voglie che le Autorità ci hanno dato il permesso di cercare di soddisfare attraverso risposte adatte e corrette. Fachinelli invece riprende da Lacan il progetto di far emergere il désir, domanda per natura inammissibile e inopportuna per ogni establishment (anche di sinistra) e mai soddisfatto da alcuna "risposta", governativa, sanitaria e persino affettiva.

Comunque, lo stile di Fachinelli scrittore, come si vede anche nel postumo Grottesche, era di solito ironico. Senza livore polemico, oscillava tra l'argomentare dotto e l'impennata letteraria, con un respiro arioso e fluttuante. Non indulgeva molto al gergo d'epoca, anche se lui – articolista di L'Espresso – seppe parlare in modo persuasivo alla propria epoca; era di sinistra, ma non parlava in marxese. 

 

 

La freccia e la pietra

 

Il suo pensiero presto ruotò attorno a una dicotomia, che assumerà varie figure: da una parte la vita come movimento eracliteo, temporalizzazione cinetica; dall'altra l'angustia della spazializzazione e pietrificazione. Al primo registro, che chiamerei vitale-temporale, appartengono l'agitazione politica e motoria, la gioia creativa, i movimenti conviviali in statu nascendi, le "bocche che si aprono" in una ritrovata agorà – da qui il suo interesse per i nuovi media “dal basso”, le radio libere che proliferarono negli anni ’70 (lo avrebbe affascinato Internet, se lo avesse visto). Al secondo registro – che chiamerei mortifero-pietrificato – appartiene la gestione igienica e tecnocratica dei bisogni, il controllo burocratico, le istituzioni ingessate per proteggersi dalla dinamica della vita, "le bocche chiuse" anche nei consessi della Società Psicoanalitica Italiana ("…è notevole che i due livelli estremi della società [SPI] – candidati e didatti – siano in maggioranza e stabilmente a bocca chiusa: i primi anche se presenti; i secondi proprio perché perlopiù assenti": vedi la conversazione citata più sopra).

Parlando dell’asilo sperimentale autogestito a Porta Ticinese a Milano, scrisse:

 

Rispetto ai bambini delle borghesi milanesi (infagottati, appena muovono qualche passo, subito sono richiamati [...]) quelli dell'asilo sembrano una specie diversa. Nel modo di muoversi, di correre, di avere contatto con la terra, di toccarsi, fanno apparire gli altri immobili, quasi catatonici. (In "Masse a tre anni" in Il bambino dalle uova d'oro, cit. p. 227).

 

Da una parte l'immobilità catatonica, l'infagottamento; dall'altra il movimento, la corsa. La vita è cinesi nello spazio, freccia.

 

Nel caso del magistrato del sogno di cui sopra, il primo corno della dicotomia ruota attorno al significante pietra: ministro Di Pietro, giorno di San Pietro, pavimento di pietra dove le tarantolate si contorcono, marmi gelidi del palazzo di Giustizia di Milano. Il secondo corno qui è l'erotismo centrifugo, la vertigine, lo scuotersi, l'aprirsi "femmineo" agli altri; più tardi questo secondo corno assumerà, nella sua scrittura, forme acquatiche, marine, estatiche. Ma questa dicotomia tra il vitale-temporale e il mortifero-pietrificato innesterà una dialettica essa stessa vertiginosa: questo desiderio o morso come arché (origine, comando) del movimento e della temporalizzazione della vita solo in apparenza è esso stesso movimento e temporalità. Poco a poco, finirà col pensare che l'origine consista paradossalmente in una chiusura radicale e originaria – sacra. L'accettazione del tempo storico apparirà allora il prodotto di una recettività a qualcosa di atemporale e pre-storico. Trascinata da una dialettica spericolata, la vita-tempo si chiude nell'angustia immobile delle istituzioni perché rimuove o aliena la propria fonte, che è, in ultima istanza – questa è la più tarda "illuminazione" di Fachinelli – un'esperienza difficile da tollerare: un eccesso di gioia. La vita nega se stessa col tempo, pietrificandosi nel mondo delle "bocche chiuse", perché non può sostenere a lungo l'eccesso che la genera e la rilancia. Si estenua nella ripetizione triste perché non vuole ritornare a ciò che veramente la comanda: il dono della gioia.

Ci si può chiedere se qui Fachinelli non incontrasse la nozione di jouissance, godimento, che emerse come centrale nell’ultimo Lacan. Anche se Fachinelli preferiva gioia forse pensando a quel che aveva detto James Joyce, che lui e Freud avevano in fondo quasi lo stesso nome (Freude in tedesco significa piacere).

Ma il dubbio che si fa strada nell’attivista anti-autoritario che lui allora era è: la freccia temporale si muove davvero? La freccia può anche essere immobile, come nella segnaletica: rappresenta meramente il movimento, non lo compie. Il fiume della vita-temporalità minaccia continuamente con un'ansa circolare di ritornare indietro, riducendo la vita-temporalità a mera rappresentazione di sé stessa, come quella offerta dalle tarantolate nella chiesa circondata dai carabinieri.

 

Dalla Rivoluzione alla meraviglia

 

Fachinelli ha voluto mettere in contatto la psicoanalisi con i due grandi temi che hanno dominato il pensiero e l'arte del Novecento: la temporalità e il mondo-della-vita di cui parlano i filosofi fenomenologi. Fachinelli ha così sprovincializzato la psicoanalisi italiana. Ben pochi analisti – tra i quali Lacan – si sono occupati del tempo, dentro e fuori l'analisi.

Da Bergson e Heidegger in poi, il tempo è risultato la sola verità ancora sostenibile, la vera non-presenza al fondo di ogni cosa che è presente. D'altro canto, con accenti diversi, si è affermata l'idea che a fondamento del sapere e delle forme sociali non c'è la ragione, la materia, Dio, o gli atomi: c'è solo la vita, la cui insistenza produce le forme in cui prende senso e, col tempo, si dimentica di sé. Il mutare temporale come verità ultima delle cose, e l'urgenza della vita come fonte irriducibile e fondamento delle forme rappresentative, sono l'orizzonte entro cui l'uomo moderno pensa la propria verità e il proprio compito. Fachinelli ha recepito la centralità di questi temi nel nostro tempo.

In Italia si ricorda Fachinelli, per lo più, per aver proposto la distinzione tra una "psicoanalisi delle domande" (quella buona) e una "psicoanalisi delle risposte" (da superare). E per il suo tentativo di mettere a contatto politica (antiautoritaria) e psicoanalisi. Ma se l'opera di Fachinelli si fosse ridotta a un'ennesima variante di freudo-marxismo, non sarei diventato suo allievo. Si dà il caso che quando lo conobbi, nel 1974, io fossi già prematuramente scomparso dall'orizzonte marxista, e mi orientavo, allora, verso un riformismo liberal. Lui credeva nella Rivoluzione, io La vedevo come un'ennesima illusione. Infondo, a parte una comune simpatia per Lacan, avevamo matrici culturali diverse: Fachinelli si era formato nell'hegelismo francofortese, io avevo passato i miei anni migliori nella Parigi tarantolata dal post-strutturalismo. Tutte queste differenze non ci impedirono di lavorare assieme. Credo che ci attraesse l'uno verso l'altro l'impulso a occuparci di tante cose insieme, a disperderci nei tanti rivoli delle "cose interessanti". Fachinelli difatti fu psicoanalista, giornalista, editore, direttore di riviste, leader politico-esistenziale, scrittore... Come avrebbe mai potuto prendersi sul serio senza quel suo febbrile dilettantismo?

 

Comunque, sin dagli inizi degli anni '80 Fachinelli, con le sue sensibilissime antenne storiche, realizzò che la Speranza comunista non aveva futuro. Non ebbe bisogno di aspettare il crollo del muro di Berlino per rendersene conto. Ma infondo egli non fu mai veramente marxista – libertario dionisiaco, piuttosto. Del resto, per tanti intellettuali del nostro secolo, il marxismo fu una giacca e cravatta, alquanto strette, indossate per rendere presentabile in società il proprio nudo, scabroso anarchismo. E Fachinelli non ha mai creduto nella mistica del Popolo: 

 

"Ogni gruppo rivela, presto o tardi – scrisse – problemi difficili e soprattutto invischianti. In fondo credo soltanto a ciò che si può ottenere, alla lunga, con l'intelligenza personale, con il proprio minimo personale [corsivi di Fachinelli]". 

 

Per lui la Rivoluzione era la possibilità di generare individualità nuove e sorprendenti, non il fondersi degli individui nella gelatina collettivista. Voleva farsi penetrare dai suoni della vita, che non fanno concerto ma si stagliano nella loro solitaria e dissonante individualità. Perché i suoni diversi

 

diventano voci singole, con timbro e grana diversa. Di fronte a ciascuna, non attesa né timore. Soltanto meraviglia (La mente estatica, Milano, Adelphi, 1989, p. 25).

 

La macchina ferma

 

Diciotto anni dopo "Il magistrato e la tarantola", Fachinelli pubblica un altro breve scritto, "Sulla spiaggia" (In La mente estatica, cit., pp. 13-25). Qui il protagonista non è più un paziente ma sé stesso, mentre se ne sta su una spiaggia. In uno stato di dolce passività, un'illuminazione, a un tempo fisica e intellettuale, irrompe dal mare come Ulisse emerse dalle onde incontro a Nausicaa: "un'accettazione di qualcosa che veniva, in certo senso, dall'esterno, dopo un estenuante brancolare... Non meditazione né raccoglimento. Accoglimento." (Ibid., p. 19) In un darsi squisitamente femminile, Fachinelli, come Nausicaa, accoglie. Mentre il magistrato contenuto da Di Pietro rifiutò la modalità femminile – non fece l'amore con la ragazza, non accettò di scuotersi nel piacere come le tarantolate –, Fachinelli invece finalmente l'accetta, da qui "gioia con senso di gratitudine". Mentre Freud e la psicoanalisi "spazializzata" – topica – demoliscono e ricostruiscono continuamente dighe e barriere come difese, occorre piuttosto "lasciar affluire, lasciar defluire, immergersi, nuotare nella corrente." (Ibid., p. 20)

Nel frattempo, era diventato evidente per Fachinelli il fatto che la difesa ossessiva e istituzionale contro il tempo e la storia fosse connessa a una perdita della dimensione del dono e dell'accettazione. Perché la freccia non ritorni come un boomerang, occorre che essa sia lanciata da un atto inaugurale di dono gratuito, e solo l'accettazione di esso ci permette allora di nuotare nella corrente.

Negli anni ‘60 e ‘70 in effetti Fachinelli nuotò tra i movimenti spontanei, chiamato da una spiaggia a lui stesso ignota. Eppure, oggetto elettivo dell'ironia satirica dei suoi scritti di quell’epoca non erano i reazionari, i burocrati del Partito Comunista, gli psichiatri degli ospedali psichiatrici, ma al contrario proprio i suoi colleghi psicoanalisti e tanti dei gruppi radicali extraparlamentari dell'epoca. Insomma Fachinelli fu un critico dall'interno sia della sinistra extra-parlamentare che del movimento psicoanalitico. Gli piaceva Karl Kraus, uno dei più caustici critici della psicoanalisi al suo sorgere viennese. Fachinelli, ilare guastafeste, come un fool shakespeariano dell'Italia catto-comunista agitata dal radicalismo, segnalò con (in)tempestiva precocità la deriva settaria del movimento extraparlamentare che pur lo affascinava finché restava appunto mobile; e denunciò le sclerosi della società psicoanalitica, quando si inamidava nella difesa della propria rispettabilità. Eppure vibrava sempre una nota di pessimismo nella sua rivendicazione della liberazione della vita-temporalità.

 

Pessimista è il suo tirare le somme della sua esperienza, nel 1968, con un gruppo di studenti dell’Università di Trento. In Italia il movimento di contestazione studentesca si sviluppò inizialmente all’università di Trento, specialmente nella facoltà di sociologia. Fachinelli accettò di partecipare come analista a un loro controcorso (in antitesi ai corsi ufficiali) centrato su psicoanalisi e società. Fu colpito soprattutto dal modo in cui quel gruppo decise di chiudere le porte a nuovi eventuali partecipanti. E difatti,

 

creato il gruppo chiuso, il processo di differenziazione (...) dagli elementi di estraneità presenti nel gruppo, continuò con quasi intatta violenza; e parallelo ad esso, [...], il processo di progressiva adeguazione a un'immagine di gruppo omogeneo, perfettamente fuso nella unità dei suoi membri. L'estraneo, il diverso, concreto, tangibile (...), doveva essere eliminato, … per far posto a un uguale sempre più perfetto, e dunque sempre più intangibile... (“Gruppo chiuso o gruppo aperto?”, in Il bambino dalle uova d’oro, Adelphi, Milano 2010, p. 150-183.) 

 

Da qui l'inclinazione persecutoria nei confronti di individui e sotto-gruppi che apparivano come un diversivo dell'unità ideale del gruppo: "le inevitabili espulsioni e frammentazioni interne, (...) frutto di una continua difesa dell'ideale di gruppo continuamente minacciato, segnano il percorso di un processo di settarizzazione." (Ibid., p. 175) Insomma, ci sarà sempre uno più puro di me che mi epura. Fachinelli, dal suo fondo libertario, percepiva, già nel 1968, quel clinamen che avrebbe portato alla diaspora dei vari cults marxisti, e quindi agli anni del terrorismo di sinistra (fine anni ’70).

Avvertito dalla sua esperienza trentina, Fachinelli tra il 1974 e il 1976 organizzò un gruppo di auto-formazione a Milano – al quale io stesso partecipai fino al suo scioglimento. Soprattutto era un gruppo aperto: a ogni seduta, settimanale, potevano fare il loro ingresso membri nuovi. Vi partecipò anche Giorgio Gaber.

Quel caleidoscopio fluido era un ring dove si pestavano i piedi gran parte dei movimenti, dubbi, cotte e deliri che fluttuavano nella swinging Milano di quegli anni ruggenti: gli astri nascenti del femminismo e dell'Autonomia, ma anche il rifluire dall'impegno politico verso preoccupazioni più intimiste e verso la stella polare psicoanalitica, nuova via di Salvezza individuale dopo le delusioni della Rivoluzione collettiva. Poi Fachinelli sciolse quel gruppo. Quando, in privato, gli chiesi perché, mi rispose candidamente "non mi divertiva più!" Egli era sostanzialmente infedele alle sue passioni e creature, come anche alle sue donne, quando il rapporto con esse entrava nella bonaccia della routine, nel mero bisogno di perpetuarsi.

 

L'aver "ucciso" il proprio gruppo quando aveva preso a marciare non deve sorprendere: analogamente Fachinelli detestava le analisi lunghe. Lo vidi irridere amabilmente un nostro amico che confidava di essere in analisi già da quattro anni – una durata oggi considerata minimale. Grillo parlante del Pinocchio-paziente, Fachinelli coglieva la doppiezza del grande clamore culturale e mediatico attorno alla psicoanalisi all'epoca. Da una parte l'analisi, cessando di essere una pratica puntuale, allungandosi a dismisura nel tempo, si proponeva sempre più come una sorta di milizia che esigeva una conversione spirituale. Dall'altra l'analisi, proprio isolando analista e analizzante nel recinto protetto di una "cultura a due", mancava la ricaduta terapeutica e anche quell'apertura ai tempi vitali e a quel risveglio che può rendere la vita creativa. Dietro il culto di massa di Freud all’epoca, Fachinelli percepiva una fraudolenza, che includeva una parziale presa di distanza dalla propria professione e vocazione. Vedeva anche la psicoanalisi afflitta da una sindrome settaria, come gli studenti trentini da lui monitorati, ripiegata cioè in un idillio blindato con la propria immagine ideale per tener lontane le diversità – ad esempio, denunciava il dogma tacito secondo cui un omosessuale non possa essere un buon analista. Intuiva che quel dilagare di psicanalese si basava su illusioni che, prima o poi, sarebbero state smascherate.

 

Lo psicoanalista paladino di Freud è vittima di un tipico errore di percezione. Non vede la forza seduttiva della psicoanalisi, per cui nelle passioni che essa suscita vede solo resistenze e misconoscimenti. Intruppato nel patriottismo analitico, si scaglia contro tutti i movimenti e i programmi di ricerca che potrebbero entrare (o sono già) in competizione con la psicoanalisi. Diversamente da questo bisbetico crociato della psicoanalisi, Fachinelli invece seguiva con favore molti sviluppi extra-analitici – ad esempio, le terapie ispirate alle idee di Gregory Bateson, certa anti-psichiatria (Laing, Cooper, Szasz). Sono convinto che oggi avrebbe guardato con interesse anche a certi exploits affascinanti della ricerca neuroscientifica, da Francisco Varela e Gerald Edelman, a Giacomo Rizzolatti e Vittorio Gallese (parte del team di Parma che ha scoperto i neuroni specchio).

In quegli anni il culto di Marx e di Freud aveva ormai costruito istituzioni disciplinate, professionisti osannati, macchine gigantesche, le cui ruote però giravano nel vuoto.

 

Chi guarda [la psicoanalisi] da fuori, da lontano, come uno straniero e come un postero, vede un gigantesco dispositivo, [...] di cui ogni movimento è stato predisposto con cura e precisione, ogni meccanismo registrato e controllato. Ma questo dispositivo è fermo. (Claustrofilia, Adelphi, Milano 1983, p. 36-37.)

 

Fachinelli, "straniero e postero" nei confronti soprattutto di ciò di cui faceva parte, nella febbrile mobilitazione psicoanalitica di quegli anni vedeva una macchina segretamente immobile.

E mi si lasci concludere con una delle perle dell’humour di Fachinelli, che poi molto spesso era un’auto-ironia, in particolare della propria professione: «Uno psicanalista annoiato compone epigrammi e poesiole anche durante il suo lavoro. Un giorno gli viene di getto: “Stamattina sono andato al mercato dell’usato – mi hanno subito comprato”» (Grottesche, 162).

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