La terza via / Dad. Life on Mars?

6 Aprile 2021

È uno dei capolavori di David Bowie: una ragazzina triste e sola che si lascia catturare da uno schermo argentato e dal freakiest show di una successione demenziale di immagini che scorrono davanti ai suoi occhi – un film noioso, che lei ha già vissuto dieci volte; finché da spettatrice, diventa lei stessa creatrice di immagini allucinatorie: che si susseguono demenziali come le precedenti, perché questo film lo ha già scritto dieci volte. Chissà se lo sa che è il suo, il best selling show? Sarà forse su Life on Mars?

Reso più saggio e triste dalla maturità, Bowie ricordò questa canzone come una piccola storia di alienazione quotidiana: credo che oggi la troverei piuttosto triste, concluse il Duca Bianco.

È quello che accade anche a me: questa canzone che mi accompagna da quarant'anni, mutando significato col trascorrere del tempo, oggi mi sembra di una infinita tristezza. Sono io che faccio lezione davanti a un PC, o sono le mie studentesse e studenti sul rovescio (nel sottosopra, mi verrebbe da dire) dello schermo, soli dentro una stanza e tutto il mondo fuori (come quella studentessa morta d'infarto durante la DaD, sola nella stanza, senza che nessuno se ne accorgesse, perché la connessione andava male), ad essere nel freakiest show?

Ancora tu che ti fai delle storie, ma dai!, cosa vuoi più di così?

Eh... è che io, se non al potere quantomeno alla scuola, la fantasia la volevo davvero. E non m'è mai venuto il pelo sullo stomaco.

 

Provo a spiegarmi, assumendo come riferimento polemico Un elogio della DAD di Pietro Montani. La didattica multimediale non è venuta giù con il Covid-19: c'era già da tempo, coi suoi pregi e difetti, che non sto qui a elencare. La DaD è un'altra cosa. Integrarla con la didattica in presenza, si dice oggi: e infatti ha cambiato nome, ora si chiama DDI, didattica digitale integrata: due è meglio che uno, diceva Stefano Accorsi da giovane, no?

E invece è una truffa linguistica: perché il digitale che integra la presenza riempie un vuoto di presenza, che quindi presenza non è più: e se 1 diventa 0, 1+0 non fa 2. Ma non fa neanche 1, perché il digitale allo schermo 1 non è. Basterebbe ripercorrere l'ordine del discorso didattico-digitale per accorgersene: la scorsa primavera andava di moda l'entusiasmo per la novità che finalmente svecchiava la scuola, erano arrivati persino i podcast dal ministero per l'esame (i bigini digitali di Stato!). Poi, poco a poco, (quasi) tutti avevano dovuto riconoscere che la qualità della didattica era crollata, che la DaD non aveva funzionato. Dalla non più sostenibile colpevolizzazione a priori degli insegnanti, che in poche settimane e senza alcun supporto avevano dimostrato di sapersi autoaggiornare e attuare una forzata didattica digitale, si è passati, da parte di interessati sostenitori di agende e didattiche digitali, a sostenere che l'errore è stato di voler fare col digitale quello che si faceva in presenza, il che non era possibile: è necessario quindi che con digitale si faccia "altro". Come quando introdussero le misurazioni quantitative degli apprendimenti (INVALSI, OCSE-PISA), che non misurano tutto il processo di apprendimento, solo alcuni aspetti. Quindi misuriamo, degli apprendimenti, solo quello che si può misurare: si diceva così, in principio. Poi è successo che essendo misurabile solo una fetta della torta, la torta è diventata quella fetta lì, con buona pace delle incongruenze logiche, didattiche, matematico-statistiche, persino.

 

Schema che vince non si cambia: col digitale si finirà per fare solo quello che è fattibile col digitale, che è solo una fetta di ciò che si fa in presenza.

Di nuovo, sembra tutto rientrato nell'ordine della ragione: giunti nel mondo del mago di Oz, continuano a dirci che siamo ancora nel Kansas. E intanto la Strega Cattiva dell'Ovest s'è messa in volo.

Perché anche questo discorso è rovesciato: con i piedi nelle nuvole e la testa rivolta al suolo, direbbe Ejzenštejn. Rovesciato, perché parte da ciò che il digitale può fare, e non da ciò di cui la didattica ha bisogno: e finisce per conseguire gli scopi possibili al digitale, non quelli necessari alla didattica. Possibili al digitale, cioè entro i suoi limiti: quelli dell'impersonalità, della mancanza di fisicità, dell'assenza di relazione, eccetera. Che non sono accessori ornamentali, ma l'essenza della didattica, il principale canale di trasmissione. Sarà banale dire che la presenza è meglio dell'assenza, ma dentro questa banalità abita una nozione che si credeva ormai acquisita: che la comunicazione non è trasmissione di pacchetti di contenuti, ma apertura di uno spazio comunicativo, sfondamento retorico; che il linguaggio non è uno staffettista che consegna un testimone, ma una funzione complessa e indefinibile – un ambiente, come minimo.

 

Dentro questo ambiente io devo essere libero di muovermi, inventare, creare, ripetere, aggiungere; entro questo linguaggio io posso concatenare alla mia persona i supporti digitali di ogni tipo, accrescendo il mio essere e collegandolo a quello di studentesse e studenti entro un'esperienza comune. Il che non avviene se il mio essere è compresso dai limiti tecnici dello strumento digitale che, occupato il centro della scena, limita il mio essere e mi impone una pseudo multimodalità che riorganizza secondo modalità tecniche il rapporto tra forme espressive e mondo materiale. Pseudo-, perché il fatto stesso dello schermo induce la falsa percezione che ci sia un qua e un là, un mondo interiore distinto da quello esteriore, un reale che appare essere lì, come qualcosa di dato e oggettivo.

 

 

Secondo Massimo Recalcati (“No alla Generazione Covid”, la Repubblica, 23 novembre 2020), “Insegnare davanti ad uno schermo significa non indietreggiare di fronte alla necessità di trovare un nuovo adattamento imposto dalle avversità del reale”, la formazione avviene “sempre controvento, con quello che c'è e non con quello che dovrebbe essere e non c'è”. Sarà anche una lezione di vita: ma la vita insegna anche a non essere passivi di fronte alle decisioni politiche che conseguono dall’irruzione dell’imprevisto, e a non accettare la decurtazione dei diritti come ineluttabile fatalità. Fra la lamentazione e l’accettazione delle “lezioni della vita”, c’è la terza via della coscienza critica e della disobbedienza, come insegnava don Milani.

 

Fatto è che, cavalcando il vento della retorica dell'innovazione digitale, arriva per concludere quarant'anni di Termidoro la Strega dell'Ovest della Restaurazione culturale. Accompagnata dalla Strega dell'Est del capitalismo digitale, delle gig-economy, delle piattaforme digitali: per fare qualche nome, Confindustria, Assolombarda, Base Italia, o aziende come Acer ed Epson, che hanno dipartimenti di didattica e chiedono l’accesso a quei tavoli territoriali dove la scuola non siede.

Uno dei segni del passaggio dal Termidoro alla Restaurazione culturale che stiamo attraversando è il fatto che il dibattito sul digitale – forse perché si svolge principalmente sul/nel mondo del digitale (e ha come protagonisti molti che nella scuola non ci mettono piede da anni, se mai l'hanno messo) – sembra svolgersi in uno spazio vuoto, asettico, sterilizzato. Come se anche il digitale, come tutto ciò che esiste, non fosse prodotto da interessi economici e di classe, e in questi interessi non fosse impigliato, e di questi interessi non portasse lo stigma. Come se fosse un fatto neutro che questo interesse per la digitalizzazione della didattica si intreccia a doppio filo, per bocca degli stessi soggetti, con l'idea che la scuola deve fornire le competenze richieste dal mondo del lavoro; un'idea che, vale ricordarlo, era contenuta nel rapporto “Studio ergo lavoro” col quale McKinsey & Company (sì, proprio quella società che fornirà consulenze spontanee nell'elaborazione del Recovery Plan) contribuì, sua sponte, alla creazione del frame che vuole correlate disoccupazione e scarsa acquisizione delle competenze: era il 2014, e Renzi si affrettò a metterlo a profitto nella concomitante Buona Scuola. Come se fosse casuale l'assonanza, quasi al limite della parafrasi, fra i testi di Confindustria (il libro bianco Investire sulla Formazione e Il coraggio del futuro, ambedue del 2020) e del Rapporto Finale della commissione di esperti presieduta dall'attuale ministro Patrizio Bianchi, e le pagine sulla scuola del Recovery Plan del precedente governo, in attesa del nuovo.

 

E non è casuale che la didattica digitale viaggi nelle stesse carrozze in cui c’è la riduzione del tempo scuola, dei curricoli, della qualità della didattica in favore di una didattica “essenziale”. Non è casuale, perché già da tempo vengono prodotti manuali che accanto a un’offerta multimediale pongono una riduzione e semplificazione (banalizzazione, talvolta) dei contenuti. E da tempo circolano progetti o proposte di redazione di lessici minimi per competenze dei contenuti disciplinari, ai quali sembrano ispirarsi quei manuali “multimediali”. Come ignorare questo tentativo di sforbiciare la didattica, lasciando intatto solo quel sedicente “nucleo essenziale” compatibile con la sua realizzazione a distanza, o digitalizzata?

 

Pietro Montani sostiene che se “ci fosse stata la rete, insieme all’assoluta facilità con cui attingiamo al suo immane archivio e ne riutilizziamo i materiali, il grande Sergej Ejzenštejn, che aveva lavorato per almeno due anni al progetto di un film sui concetti fondamentali del Capitale di Marx e poi si era arreso, quel film lo avrebbe fatto di certo”. Io credo invece che Ejzenštejn, che quel film alla fine non l'ha realizzato, il Capitale l'ha pur letto e capito (e qualche sasso nelle strade di Pietroburgo lo avrà pur tirato, per metter forza in quelle mani che avrebbero poi montato capolavori): e proprio per questo l'errore di decontestualizzare l'arte e considerare mezzi neutri e neutrali gli strumenti non lo avrebbe mai compiuto. E non avrebbe mai narrato di marinai in rivolta per la carne rancida che si acquattano davanti all'offerta di un tecnologico e moderno rancio quattro salti in padella.

Ma Ejzenštejn non c'è più, dicono: e noi qui, davanti a uno schermo, nel nostro freakiest show, a chiederci qual è il nostro posto nello spettacolo, se c'è vita su Marte, o se siamo su Life on Mars.

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