Uno studio di Robin Blackburn / Black lives: il crogiolo americano

30 Aprile 2021

“Tutti i poteri terreni sembrano rapidamente allearsi contro di lui. L’avidità del profitto gli è sempre alle calcagna. Lo tengono in una prigione; lo hanno perquisito, non gli hanno lasciato addosso niente di appuntito. Una dopo l’altra, tutte le pesanti porte di ferro si sono chiuse alle sue spalle, e adesso lo hanno rinchiuso, per così dire, con una serratura a cento chiavi che non può mai essere aperta, se non usando tutte quelle chiavi – chiavi che sono nelle mani di cento uomini diversi, sparpagliati in centinaia di posti diversi e distanti; e costoro se ne stanno a meditare su quale invenzione, mentale o materiale, possa essere ancora escogitata per rendere l’impossibilità della sua fuga più completa di quanto già non sia.” (Abraham Lincoln,1856)

 

“Non sono a favore, né lo sono mai stato, del fatto che i negri possano essere elettori o giurati, né li ritengo idonei a qualsivoglia carica pubblica e nemmeno permetterei loro di contrarre matrimonio con i bianchi.” (Abraham Lincoln,1858)

 

 

Meno che uomini e tuttavia da sciogliere, se pur non integralmente, dalle loro catene. Un paradosso o un’apparente contraddizione. A ricordarcelo, due citazioni poste l’una a ridosso dell’altra a pagina 486 di Il crogiolo americano. Schiavitù, emancipazione e diritti umani, il ponderoso saggio storico che la casa editrice Einaudi ha pubblicato di recente nella limpida traduzione di Luigi Giacone. 

 

Si tratta di una storia ‘panoramica’ del sistema schiavistico moderno, delle ragioni politiche ed economiche su cui si è costruito e di quelle che lo hanno sfibrato, modificandolo senza esaurirlo. Ne è autore lo storico inglese Robin Blackburn, che sullo schiavismo e l’antischiavismo aveva già dato alle stampe The Making of New World Slavery: from the Baroque to the Modern, 1492-1800 (1997) e The Overthrow of Colonial Slavery, 1776-1848 (1988), collegandoli all’evoluzione complessiva della società, della cultura e dell’economia dentro e oltre il mondo atlantico o, se preferite, a cavallo del cosiddetto Atlantic Divide, quella linea immaginaria che divide e ancor prima unisce i due Occidenti del mondo: l’America e l’Europa.

 

Nelle pagine di questa sua documentatissima e di necessità fredda macrorassegna storiografica, Robin Blackburn, professore di sociologia presso l’Università dell’Essex ed ex redattore della New Left Review, afferma che le lotte degli schiavi in rivolta e degli abolizionisti portarono a una radicalizzazione dei principi dell’illuminismo, che fu la rivoluzione haitiana a salvaguardare e rimodellare gli ideali proclamati dalla rivoluzione americana e da quella francese. 

 

Per arrivare a questa tesi imbevuta con originalità di eurocentrismo, Blackburn ricostruisce meticolosamente il patto sociale e i vincoli politico-mercantili che fanno del blocco occidentale un sistema unitario e organico. La sua è innanzitutto la lucida messa a nudo degli ingranaggi del dominio coloniale: da un lato aree di pieno diritto dove i consumi di cittadine e cittadini vengono resi possibili e alimentati da un estrattivismo feroce che arricchisce chi detiene i mezzi di produzione; dall’altro manodopera schiava, priva perfino del diritto di disporre del proprio corpo, giuridicamente considerata proprietà altrui alla stregua di un campo, un vitello, una cassapanca. 

Sottesa a questa analisi c’è una riflessione su quali siano le ‘tappe’ della decolonialità, non solo della decolonizzazione. Quale traccia resti, nei gruppi sociali ex schiavi, della relazione che hanno intrattenuto con il ‘padrone’. Quale mimesi si instauri e permanga tra asserviti e asserventi. Quali siano le vere “chiavi dell’emancipazione” là dove il sistema economico cambia forma, ma non sostanza. 

 

 

Se, come afferma Blackburn, il lavoro schiavo è ciò che permette al capitalismo di espandersi e di avventurarsi (al riparo dall’impressionabile, pudibondo sguardo europeo) in imprese di cui solo oggi cominciamo a intravedere i costi per le specie viventi e il pianeta che abitiamo, il “crogiolo americano” non è la metafora di una felice fusione di elementi diversi – la favola del melting pot –, bensì il recipiente ad alta incandescenza usato per fondere metalli, vetri, leghe liberandoli dalle scorie umane. 

Vite che contano (le nostre) vs vite che rendono (le loro). 

Di traverso però, fa notare con dovizia di dati e di microstorie l’autore, ci si mettono proprio quei corpi a perdere, i ridondanti, coloro che – come scrive Toni Morrison in Beloved – non sono finiti “tra le anime dei neri morti ammazzati nel Middle Passage”, sessanta milioni di anime. 

 

Le pagine di Il crogiolo americano sono piene delle loro lotte, dei loro tentativi di affrancarsi, delle loro storie di fuga, delle alleanze, delle solidarietà e delle invenzioni comunitarie che permettono loro di sopravvivere. Sono elenchi di fatti e di cose fatte, una vera e propria mappa per orientarsi nella storia e nella geografia della resistenza al capitalismo, forma versatile e spregiudicata di governo del mondo, capace di attrarre e sussumere, terrorizzare e blandire, includere e confinare, fare perfino dell’altrui antagonismo uno strumento della propria implacabile rigenerazione.

 

C’è, a Parigi, una meravigliosa coreografa francese di discendenza senegalese, Bintou Dembélé, prima donna nera ad aver coreografato un balletto all’Opéra de Paris in trecentocinquant’anni. Leggendo il libro di Blackburn, provate a guardarla e ascoltarla. E vedrete che cosa è andato iscrivendosi nel corpo, nella gestualità, nelle espressioni facciali, nella voce, nel modo stesso di parlare di un’artista che assume su di sé l’eredità del marronage, il termine con cui, nelle colonie americane dell’impero spagnolo si indicavano gli schiavi africani fuggiaschi datisi “alla macchia”. 

 

 

Discostandosi lucidamente dal repertorio ballettistico, il suo linguaggio corporeo risponde a un imperativo assoluto: restare in piedi. Per riuscirci bisogna giocare d’astuzia, scappare, schivare, anticipare, prevedere, non farsi cogliere di sorpresa. È un codice espressivo interamente ricalcato sulla violenza subita, potremmo dire il suo negativo. Sfruttato, abusato, ridotto in catene, imbavagliato dalla mordacchia, linciato, strangolato, abbattuto, negato e al contempo sovraesposto, il corpo nero mima le tecniche dell’oppressore sottraendosi ad esse con fisica astuzia e silenzi più loquaci di qualsiasi parola. Lo spazio che esso crea non è il territorio coloniale o una sua replica speculare, bensì un’area franca dove continuare a spostarsi nonostante tutto. 

Non è così che si fa perdere l’equilibrio a chi sa servirsi solo della forza? 

 

Oggi, mentre le black lives sembrano contare un po’ di più, ma la vita in genere sempre meno, la lettura di un testo come quello di Blackburn è utile a mettere in prospettiva un processo storico e le sue interpretazioni. È indispensabile tuttavia affiancarlo con altre voci, altri testi, altre esperienze, magari avvicinandoci al ruolo che un paese come l’Italia ha avuto e sta avendo nel rapporto con l’“alterità” africana e con quella parte di mondo che sono le donne, bizzarramente mai messe a fuoco dallo studioso inglese, come se l’identità nera o schiava sussumesse tutte le altre, ammutolendole. 

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