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Rodari 100 / Dove finiscono le favole senza fine

14 Settembre 2020

A un bambino dei nostri giorni il titolo Favole al telefono deve sembrare qualcosa di incredibilmente inattuale, quasi quanto quello delle Favole al telefonino con cui Fabian Negrin ha omaggiato il capolavoro rodariano nel 2010, a quasi cinquant’anni dalla sua uscita (1962). Oggi il termine telefonino è sempre meno utilizzato, forse perché chiunque si è reso conto che gli oggetti che teniamo con noi la maggior parte del tempo sono solo accidentalmente dei piccoli telefoni, e nonostante le inesauribili possibilità di comunicazione sembrano incapaci di restituire la strana sensazione di prossimità caratteristica di una telefonata. D’altro canto, non deve trarre in inganno il fatto che il telefono di cui parla Rodari sia in realtà una molteplicità di apparecchi pubblici, adoperati da un venditore di medicinali in giro per l’Italia: come mostra il disegno di Bruno Munari in copertina, il telefono delle Favole è un modello fisso e coi numeri disposti a rotella, alla cui estetica pare connaturata una precisa idea di ritualità. «Ogni sera, dovunque si trovasse, alle nove in punto il ragionier Bianchi chiamava al telefono Varese e raccontava una storia alla sua bambina.» Ed è chiaro che le stesse storie raccolte, ben settanta, non sarebbero state le stesse con un telefono mobile, o dalle chiamate illimitate, perché «il ragioniere pagava il telefono di tasca sua, non poteva mica fare telefonate troppo lunghe».

 

 

Per molti adulti dei nostri giorni è possibile che siano le favole, più che il telefono, a dare al titolo un sapore particolarmente antiquato, simile al gusto di una caramella che dopo l’infanzia non si è più mangiata. “Favola” e “fiaba” derivano entrambe dal latino fabula, ma a prescindere dalla distinzione classica che identifica nella prima un racconto di animali con una morale esplicita, e nella seconda, come scrisse Bruno Bettelheim, una storia dai significati nascosti che «lascia a noi ogni decisione, e ci permette anche di non prenderne nessuna» (esattamente come le favole di Rodari), le tre sillabe di “favola” suonano molto diverse, e per molti versi più poetiche, rispetto alle due di “fiaba”. Anzitutto hanno il vantaggio di essere meno ricercate, come un giocattolo o un libro che è sempre a portata di mano (dalla tavola alla favola il passo è brevissimo), e inoltre parlano del volo (e fanno volare) come fosse la cosa più naturale del mondo. Di qualcosa di incantevole si dice che “è una favola”, e delle fandonie che “sono tutte favole”, mentre le fiabe non conoscono espressioni simili. Un paesaggio favoloso, infine, è indubbiamente più suggestivo di uno fiabesco, anche perché soltanto nel primo si può favoleggiare.

 

Sia le favole che le fiabe, del resto, non possono sopravvivere in un mondo che prende ogni cosa alla lettera, dimenticando le virtù del gioco, dell’umorismo, dell’ambiguità e del pensiero figurato, e dove le possibilità di evasione dalla vita di tutti i giorni si riducano, o come nelle Favolacce dei fratelli D’Innocenzo si appiattiscano sullo stesso orizzonte che compete a un trafiletto di cronaca nera. Favole e fiabe hanno bisogno dei bambini, o più precisamente di tutto ciò che col passare dei secoli, sulla base degli studi di Philippe Ariès e di molti altri, possiamo dire che la società ha proiettato sulla propria idea di infanzia, prendendo a poco a poco le distanze da un mondo che spesso ha finito per racchiudere in gabbie dorate, e nei casi peggiori per disconoscere e mistificare. Un travaso del genere, per usare un’abusata metafora pedagogica, rischia di assomigliare allora all’abbandono di un abito dismesso, destinato alla fissità di una soffitta, più che all’atto di trasmissione che nell’idea rodariana della “favola al telefono” diviene gesto di amore e liberazione attraverso la fantasia – e questo spiega forse perché ancora oggi risulta spontaneo guardare al libro di Rodari come a un dono proveniente da un altro mondo, a qualunque età si leggano o ascoltino le sue storie.

 

A scuola con Gianni Rodari (1975).


Esistono infiniti modi per avvicinarsi alle Favole al telefono, e basta una sfogliata al libro per accorgersi che la natura mobile e ondivaga del suo immaginario – che mescola l’attualità, il fantastico e la fantascienza senza disdegnare la tradizione popolare e letteraria – invita a seguire percorsi secondari, piuttosto che la linearità convenzionale dell’indice. Una peculiarità della fantasia rodariana che ben si addice all’atto di aprire a caso il libro per cominciare a leggere da un punto qualunque è il gusto dell’assurdo che nasce all’improvviso da un riferimento realistico, spesso all’inizio di una favola, come quando «Una volta, a Busto Arsizio, la gente era preoccupata perché i bambini rompevano tutto», e il sindaco stabilisce di costruire un enorme palazzo con novantanove stanze ricolme di arredi al solo scopo di distruggerlo (Il palazzo da rompere). Questa tensione si declina anche in termini geografici nel tema del viaggio fantastico, come nell’insolita favola dei fratellini di Barletta che si imbattono in una strada tutta da mangiare (La strada di cioccolato) o in quella di Romoletto, aiuto garzone al bar Italia che da Roma sperimenta una vertiginosa salita nello spazio cosmico (Ascensore per le stelle) – storie che a loro volta ne richiamano altre analoghe, come il viaggio della Giostra di Cesenatico che diventa una «carovana spaziale» e la vicenda del Palazzo di gelato, introdotta da un memorabile incipit: «Una volta, a Bologna, fecero un palazzo di gelato proprio sulla Piazza Maggiore, e i bambini venivano di lontano a dargli una leccatina» – dove ciò che diverte non è la soluzione assurda a un problema, ma l’aria di naturalezza assoluta che rende superflua qualsiasi spiegazione.

 

In una sola storia Rodari inserisce un collegamento a un’altra favola (da Il maestro Garrone a Il pulcino cosmico), ma il suggerimento si direbbe implicito nella stessa tipologia di narrazione scelta, che comporta tra l’altro la ripresa di alcuni riferimenti all’immaginario collettivo (su tutti quello al volo spaziale di Jurij Gagarin) e il ritorno saltuario di personaggi come Giovannino Perdigiorno e Alice Cascherina, destinati in seguito a diventare protagonisti di nuove avventure anche al di fuori dalle Favole. Prendendo spunto da un principio cardine dell’invenzione rodariana, ovvero il “binomio fantastico” nato dall’accostamento di due parole diverse, possiamo dunque chiederci cosa succederebbe se la bambina di Alice casca in mare, dopo essere tornata dalla sua famiglia, si tuffasse di nuovo in acqua e si ritrovasse in tutt’altra favola. Del resto la bambina lo dice chiaro e tondo: «tornerò a terra, per questa volta». Niente di più facile, allora, che immaginare un incontro tra Alice e il minuscolo bambino di mare catturato dal Pescatore di Cefalù, che come lei rimane imprigionato in una conchiglia, ma a differenza sua non riesce a liberarsi da solo, e alla fine della storia sta ancora aspettando.

 

I protagonisti delle favole più malinconiche e amare sono spesso bambini soli, che non hanno avuto la fortuna di incappare nell’altro e di uscire trasformati da questo incontro. Nella splendida Fuga di Pulcinella si dice che «il mondo, per una marionetta solitaria, è grande e terribile», e il narratore invoca infine l’intervento dei lettori per recuperare la maschera, sepolta viva sotto l’erba di un giardino («se sarete voi a trovarlo,» ecc.). In Tonino l’invisibile, un bambino che nessuno vede torna visibile solo quando si accorge di un vecchio pensionato, figura che rinnova l’archetipo del senex e ritorna sotto diverse forme per propiziare l’incontro col puer: è l’ometto-stregone che fa girare la Giostra di Cesenatico, su cui difatti salgono un nonno e il suo nipotino, ed è la vecchiettina che si unisce ai bambini per leccare una poltrona del Palazzo di gelato, e che qualcuno avrà forse scambiato per la strega di Hänsel e Gretel in vacanza a Bologna.

 

Le favole di Rodari non si chiudono quasi mai con un epilogo risolutivo, ma prediligono finali sospesi che sollecitano domande, piuttosto che fornire risposte. In un’intervista l’autore disse che le sue storie preferite sono quelle che non finiscono, perché fanno appello all’immaginazione del bambino per scoprire nuove frontiere, e in un’altra occasione, nel descrivere Favole al telefono, sottolineò non a caso che genitori, nonni e maestri avrebbero potuto usare il libro «per arricchire il loro dialogo con i bambini», ponendo l’accento su un fatto troppo spesso trascurato: la fantasia ha un carattere essenzialmente dialettico, non vive al di fuori delle relazioni, ma in esse trova l’energia per trasformarsi in un campo di forze dinamico e collettivo, attraversato da tensioni di segno opposto che si alimentano a vicenda. Quando ciò avviene, nel dialogo tra l’autore e il lettore come in quello tra il maestro e il bambino, può capitare di intravedere qualcosa che nessuno aveva mai visto né immaginato da solo. Non è un punto sulla linea immaginaria che separa e unisce le due voci, come nella comunicazione telefonica tra il ragionier Bianchi e la sua bambina, ma un segnale luminoso che indica una nuova strada da percorrere, e la voglia di vedere dove conduce, senza paura di sognare l’utopia. Nel Semaforo blu, favola a cui Rodari aveva pensato inizialmente per dare un titolo alla raccolta, in piazza del Duomo a Milano un semaforo comincia a diffondere luci blu che significano “via libera” per il cielo, ma purtroppo gli automobilisti, i motociclisti e i pedoni non capiscono, o non hanno il coraggio di volare. Alla fine il semaforo si spegne, ma chissà che prima o poi non si accenda di nuovo? È bene diffidare di chi sostiene che le storie siano “tutte favole”, perché nessuno sa dove finiscono.

 

Note di lettura

 

La citazione di Bruno Bettelheim è tratta da Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicanalitici delle fiabe (Feltrinelli 1977, p. 45). Il libro menzionato di Philippe Ariès è Padri e figli nell’Europa medievale e moderna (Laterza 1968). Rodari parla del “binomio fantastico” nella Grammatica della fantasia (pp. 34-37 dell’edizione Einaudi 2013). La citazione di Rodari sulle Favole al telefono e l’informazione sul primo titolo della raccolta sono tratte da Vanessa Roghi, Lezioni di fantastica. Storia di Gianni Rodari (Laterza 2020, pp. 137-138). Un’analisi approfondita del libro si trova in Pino Boero, Una storia, tante storie (nell’edizione Einaudi 2020, aggiornata rispetto alle precedenti del 1992 e del 2010, a pp. 123-136).

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