Martin Pollack / Il morto nel bunker, indagine su mio padre

3 Dicembre 2018

Che succede se fin dall’adolescenza il quadro famigliare in cui vivi è dominato dal silenzio, un silenzio che tuttavia, come intuisci, non serve ad altro che a erigere una barriera che separa le cose che si possono pronunciare da quelle che appartengono alla sfera dell’indicibile? 

Che succede se al di là di quella barriera avverti che la tua storia personale è intimamente legata alla Storia, in particolare a un momento tra i più brutali, scioccanti, inenarrabili del Ventesimo secolo, e a una terra, la cosiddetta Stiria Inferiore (oggi Slovenia), un pezzo dell’impero asburgico che nel 1919 divenne regno di Jugoslavia, e teatro di feroci tensioni tra germanofoni e sloveni, l’humus in cui attecchì il seme del nascente nazionalsocialismo? 

 

E che succede se in età adulta decidi poi di affrontare l’enorme spettro di un padre che non hai mai conosciuto e che scopri essere stato un ufficiale della Gestapo, a capo del Sonderkommando 7° di stanza nel 1944 nella Slovacchia centrale con il compito di combattere gli slovacchi rivoltosi, i partigiani (i Banden, banditi) e di stanare gli ebrei che ancora si nascondevano nei villaggi e nei boschi? 

Che succede se poi un giorno ti imbatti vicino al passo del Brennero in una vecchia storia della fine della guerra di cui i vecchi del posto ancora ricordano i particolari, la storia di un cadavere che venne rinvenuto nell’inverno del ’47 in uno degli oltre cinquanta bunker che Mussolini fece costruire tra il 1936 e il 1942 per sbarrare il passo ad Austria e Germania? 

 

Che succede infine se quel cadavere nel bunker apparteneva a Gerhard Bast, tuo padre, il fantasma che dopo la fine della guerra tentò la fuga per occultare le proprie tracce e la colpa dei crimini innominabili di cui si era macchiato sul fronte orientale?

Nel migliore dei casi succede che, attraversando un inferno di questa portata, prenda corpo un libro indimenticabile, toccante, accuratissimo, come Il morto nel bunker, indagine su mio padre, di Martin Pollack, traduzione di Luca Vitali, ripubblicato in Italia da Keller undici anni dopo la sua prima apparizione per Bollati Boringhieri. Ed è un libro davvero importante, di quelli (e sono pochissimi) che si dovrebbe consigliare a chiunque, per il suo estremo coraggio, e per l’umanità profondissima di cui è permeato.

 

Iniziamo dal metodo: l’indagine storica. Pollack è uno slavista, è stato corrispondente di «Der Spiegel» da Vienna e da Varsavia, ed è traduttore dal polacco al tedesco delle opere di Kapuściński. Sono dati biografici importanti perché servono a comprendere l’approccio alla materia che è alla base del libro, materia nella sua quasi totalità di origine documentale. Un approccio storiografico e nel contempo svolto col piglio del cronista, senza mai indugiare in contemplazioni da romanziere, ma lasciando parlare freddamente i risultati di interminabili ricerche svolte sul campo e negli archivi, un lavoro immenso messo al servizio di una causa apparentemente incomprensibile: la distruzione della propria innocenza. 

Una volta Martin Pollack ha raccontato a Claudio Magris che attraverso la scrittura de Il morto nel bunker ha demolito la propria infanzia. Un’infanzia che ricordava meravigliosa, circondata dall’amore dei nonni, un idillio rovinato dalla ricerca storica che ha finito per porlo di fronte al fatto indiscutibile che quei nonni altro non erano se non tracotanti nazisti, col cuore colmo di disprezzo per slavi ed ebrei. La costruzione del libro è dunque la cronaca di un’impresa rischiosa, il tentativo di fare luce e di portare la verità nel nido impenetrabile che lo ha protetto tramutandolo nell’uomo adulto che poi è diventato. La messa in discussione delle proprie origini è la messa in discussione di se stessi, prima ancora che di qualsiasi altra cosa, ossia il pericolo più grande che un uomo possa affrontare rischiando di uscirne distrutto.

 

Opera di Andrew Wyeth.


Il clima in cui cresce il giovane Pollack, si diceva, è un clima di reticenza che riguarda una misteriosa composizione famigliare. “Non credo che in quegli anni mi fosse mai stata mostrata una foto di mio padre, immaginarsi poi se mi era stato spiegato perché avessi un padre a Linz, che era vivo e sposato con mia madre, e che mi trattava come il proprio figlio biologico, e ne avessi un secondo a Amstetten, che era evidentemente morto”. Pollack in pratica ha due padri, uno biologico di cui sente parlare ma di cui non conserva alcuna memoria, e un patrigno, un uomo più vecchio di sua madre di ventidue anni. All’interno del matrimonio tra sua madre e il patrigno si è consumato un tradimento, il cui frutto è la nascita dello stesso Martin. Un tradimento che è stato presto ricomposto con la fine della guerra. Il patrigno è gentile con il piccolo Martin, lo tratta come figlio suo, gli dà il suo cognome, e nulla lascia dubitare che non sia il suo vero padre. È sua madre, intorno ai quattordici anni, a rivelargli la verità. Lo fa usando parole caute che gli consentono di superare rapidamente lo choc, parole che tuttavia non scalfiscono la corazza impenetrabile entro cui viene custodito il segreto, tant’è che la nonna continuerà a raccomandargli di dire che il suo vero padre era stato un semplice consigliere governativo. 

 

Una reticenza che diventa distanza, e le cui tracce restano visibili perfino nella trattazione letteraria, nella forma fredda, cronachistica, che guida la mano di Pollack nel corso delle duecentosessanta pagine di questo libro. “I sentimenti non si mostrano, li si tiene per sé. Questo, attraverso il sangue e la carne, è passato anche a me”, scrive. Ed è proprio questa distanza a far deflagrare per paradosso la vicenda narrata: la lenta e inesorabile scoperta delle proprie radici infette, del sangue, dell’orrore, dell’immane tragedia collettiva a cui la parte più profonda di sé è connessa. Il peccato originale, la colpa.

Il lavoro di Pollack ricorda da vicino un passo delle Congetture di Kant, in cui il filosofo sostiene che il vero valore dell’esistenza umana si fonda sull’azione, e che un rimedio ai dolori e alle pene va cercato dentro e non fuori la storia, e che per l’uomo è un dovere aver fiducia nella storia, e soprattutto che il singolo contribuisce al miglioramento del genere umano impedendo di “attribuire le proprie colpe a una colpa originaria dei progenitori”. 

 

Una colpa che non si limita in questo caso al padre, ma che ha origini più lontane. Ecco allora la descrizione dell’ambiente irredentista anti-slavo e anti-semita della Bassa Stiria all’indomani dell’annessione alla Jugoslavia. Il nazionalismo fanatico che cova all’interno delle società alpinistiche e venatorie in cui si ritrovano gli abitanti di lingua tedesca e che culmina nelle rivolte e nei moti che condurranno nel 1938 all’inclusione dell’Austria nella Germania nazista, il cosiddetto Anschluss, l’applicazione del programma di degiudaizzazione della zona del Danubio inferiore, lo scivolamento progressivo nell’atroce abisso dello sterminio.

Un abisso a cui Martin si affaccia consultando i documenti di guerra, intrecciando i dati pubblici e privati, ricostruendo gli spostamenti della propria famiglia e di quello che sarà il padre biologico (Martin Pollack nascerà nel 1944), nel frattempo impegnato in fulminei progressi di carriera nelle SS e nella Gestapo. Documenti come il foglio di istruzioni che riporta nel dettaglio gli oggetti che gli ebrei avrebbero dovuto portare con sé durante l’evacuazione dal distretto di Münster per essere trasportati a Riga, dove sarebbero stati fucilati sul posto o rinchiusi nei campi di lavoro, un foglio che reca in calce la firma proprio dello Sturmbannführer Gerhard Bast; il padre, appunto. 

 

E poi ancora la partecipazione al lavoro di “pulizia del territorio nazionale”, la descrizione dei Kommandos dell’Einsatzgruppe attivi nella Russia meridionale e responsabili dello sterminio di novantamila persone. Un crescendo allucinatorio di fosse comuni, eccidi, fucilazioni. E ancora le camere a gas allestite nei camion dove si uccidevano trenta persone alla volta, quelli che i russi chiamavano “ammazza-anime”. Pollack riporta nel testo la deposizione di un ausiliario russo dell’Einsatzgruppe D che in un tribunale russo dopo la guerra testimoniò così: “Gli ebrei entravano negli ammazza-anime senza opporre alcuna resistenza. Non c’era nessun bisogno di costringerli. Questo comportamento si spiega forse con il fatto che queste persone avevano visto spesso l’ammazza-anime nel cortile. Pulivano l’ammazza-anime al suo ritorno, e sapevano che là dentro li attendeva la morte”.

Tutto questo fino alla conclusione della guerra, all’insabbiamento della verità, al tentativo di cancellare la memoria, la quale, come sottolinea l’autore in un passaggio cruciale del libro, “in determinate circostanze può essere sorprendentemente corta”.

 

C’è un istante nella lettura de L’uomo nel bunker in cui avviene qualcosa di straordinario. È quello che nell’estetica crociana veniva definita catarsi, una forma di purificazione che rappresenta il momento più alto dell’intuizione poetica. Una sorta di ascesi che avviene per mezzo della parola scritta. È il momento in cui si intuisce che questo libro è in realtà un antidoto potentissimo non solo ai traumi privati dell’autore, ma ai traumi collettivi dei popoli, un antidoto che, funzionando secondo un principio immunizzante, erige nella nostra coscienza un sistema difensivo capace di entrare in azione ancor prima di venire a contatto con un germe patogeno. E sa Dio quanto ci sia bisogno oggi di libri come questo.

Il viaggio di un figlio nell’inferno del padre, quindi. Un inferno che come si evince all’inizio del libro ha termine sul confine italo austriaco, quel confine in cui Gehrard, in fuga dopo la fine della guerra, trova la morte in quello che ha l’apparenza di un regolamento di conti, ma che in realtà è qualcosa di molto meno, come se le fiamme altissime e indomabili di quell’inferno possano essere sopite una volta per tutte solo dal miserabile sputo della Storia. L’uomo nel bunker erige così una cartografia dei sentimenti, e delle relazioni umane più profonde, restituendoci con sconcertante imperturbabilità la fragilità di ciò che siamo al cospetto del passato, non solo nostro, ma dell’umanità intera. 

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