Un libro di Sabino Cassese / Intellettuali: quanto durerà la notte?

6 Ottobre 2021

“L’Intellettuale può essere tragico perché, non lavorando, assomiglia al Signore. Però, nemmeno lotta e in questo assomiglia al Servo.” La frase hegeliana di Alexandre Kojève (tratta dalla sua Introduzione alla lettura di Hegel, le famose lezioni che egli tenne tra 1933 e 1939 davanti al tout Paris intellettuale dell’epoca) potrebbe essere utile introduzione al denso volumetto, Intellettuali, che Sabino Cassese ha scritto per Il Mulino nella bella collana ‘Parole controtempo’. Infatti potremmo dire con parole di oggi che l’intellettuale sta a metà strada tra l’élite del potere e la neoplebe lavorativa, in una condizione particolare di privilegio e insieme di subalternità. Ma anche di responsabilità. A inizio Novecento Simmel ne evidenziava la terzietà e l’imparzialità, e Weber sottolineava per primo la natura professionale del lavoro intellettuale, che è insieme una vocazione.

Cassese sceglie una strada in parte diversa. Per lui gli intellettuali sono le élites, i competenti, un ingrediente essenziale della democrazia (p. 13) da difendere contro il populismo degli incompetenti. Questi ultimi, poiché “uno vale uno”, possono attaccare i portatori di competenze e fare da soli: cioè navigare in Internet e nei social network alla ricerca di risposte. Sono tempi bui per gli intellettuali. Cassese reagisce: non si tratta di annullare l’élite intellettuale, ma di fare in modo che tutti possano accedervi (p. 14).

 

“Dotto”, “chierico”, “saggio”, “opinionista”, maître à penser, savant… la lista dei nomi con cui l’intellettuale è volta a volta chiamato si spreca, al punto da far pensare che non sia affatto chiaro il suo profilo. Che invece Cassese traccia assai bene nel capitolo più bello e chiaro, “I compiti degli intellettuali”: che sono almeno cinque. Deve definire il significato dei concetti e delle parole. Deve assicurare che i morti si trasformino in antenati, che cioè la tradizione sia sempre a noi contemporanea. Deve risvegliare il pubblico, farlo pensare da molteplici punti di vista. Ma deve anche fornire una prospettiva, spiegare quel che sta sullo sfondo, permettere di capire in che direzione ci si muove.

 

 

Un compito normativo quindi, anche se come Weber ha spiegato, mai questo deve significare imporre dalla cattedra il proprio punto di vista, e meno che mai fare il profeta. E per svolgere la sua missione deve illustrare non i fatti, ma il sistema di concetti attraverso i quali li consideriamo: una frase tratta da Musil, autore caro a Cassese (anche se Musil ha spiegato che il sistema di concetti che il poeta – ma in fondo anche lo scienziato – costruisce è una rete di fili senza fondamento). Infine l’intellettuale non deve solo criticare ma proporre, per “innovare con modi nuovi gli ordini antiqui” (Machiavelli). E con questo si avvicina al potere politico, ma ne deve rimanere sempre distanziato e autonomo. Su questo punto però la discussione con Cassese deve approfondirsi.

 

Cassese sostiene a più riprese che gli intellettuali fanno parte della classe dirigente (p. 59, p. 63) anche se non in forma organizzata, in quanto portatori di una competenza. Ma è proprio così? Non si espongono così gli intellettuali alle critiche che vengono rivolte, e giustamente, all’élite del potere che persegue i propri interessi di casta, che si sigilla nel proprio privilegio? Qui possono venire in aiuto le idee di Gramsci, che Cassese pure cita, sul rapporto tra intellettuali, classe dirigente e popolo. Gli intellettuali sono un gruppo sociale di mediazione, nella società industriale del Nord sono un nuovo tipo di organizzatore tecnico, di specialista; nella società agraria del Mezzogiorno, sono un blocco che fa da collante nella grande disgregazione sociale. Svolgono quindi una funzione di mediazione. Ma possono svolgere anche una funzione di rottura, di innovazione radicale diremmo oggi. Gli intellettuali si sviluppano lentamente, molto più lentamente di qualsiasi altro gruppo sociale, osserva Gramsci nel manoscritto sulla questione meridionale che restò interrotto dall’arresto e dalla carcerazione (e fu pubblicato solo nel 1930).

 

Lentamente perché rappresentano la tradizione culturale di un intero popolo, e quindi sarebbe assurdo pensare a un loro spostamento radicale su un nuovo terreno, su una nuova ideologia. Quindi gli intellettuali sono un gruppo sociale a sé stante, distinto dagli altri, e proprio per questo svolgono un ruolo di mediazione, di educazione, di specialismo competente. Sono stati cruciali nell’epoca dei media – giornali, libri, radio, tv – che hanno formato l’opinione pubblica, tra Otto e Novecento. Lo saranno ancora nell’epoca dei nuovi media-Internet e social networks? Solo se sapranno, sostiene Cassese, trovare un equilibrio tra vecchi e nuovi media. Dovranno anche, egli continua, evitare di essere sempre profeti di sventura, di “fare prediche”. Dovranno impegnarsi in pubblico. Ma dovranno anche sapersi ritirare sulla turris eburnea che permette loro di vedere e di fare da sentinella, come nella visione di Panofsky citato da Cassese, o di Borges che ne considera necessario l’essere anacronistici.

 

Siamo in un’epoca di transizione, molto problematica e carica di incertezza e di rischi: per questo il ruolo degli intellettuali sarà decisivo. Essi sono il prodotto di un processo più ampio, quello che Weber ha definito “processo di intellettualizzazione” nella celebre conferenza sulla scienza come professione. L’intelligenza della società, ciò vuol dire, va oltre le transenne elitarie e proprietarie che la gabbia d’acciaio, la stahlhartes Gehäuse del capitalismo contemporaneo continuamente erigere: e richiede una visione più ampia, che includa nuovi diritti, nuovi soggetti. Intanto la sentinella annuncia – come nel celebre oracolo di Isaia – che verrà il mattino ma la notte non è finita. Occorre quindi non attendere ma metterci al lavoro tutti noi, ciascuno nella propria professione, come Weber ha chiesto.

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