A 40 anni dalla morte / Bob Marley, una canzone è un segno

11 Maggio 2021

Quando fu coniata l’espressione world music, Bob Marley era morto da più di un lustro. Era il 1987, e un gruppo di discografici inglesi, preoccupati di come promuovere il crescente numero di dischi di musica africana e genericamente altra che s’andava accumulando sugli scaffali dei negozi, s’inventò l’etichetta musica dal (o del) mondo. Non era rock, non era classica, non era jazz, non era folk, e i negozianti che nel frattempo avevano già adibito un angolo di negozio all’esposizione di una collana reggae – forse discosta, ma coloratissima – pensarono che la musica genericamente altra dal rock e dal pop di stampo anglosassone la si potesse assegnare a una voce tanto vaga quanto suscettibile di rappresentare il resto del mondo. 

 

L’anno prima, nel 1986, Paul Simon aveva pubblicato il disco Graceland, altra fondamentale tappa di avvicinamento della musica di consumo alle musiche genericamente altre. L’ex Genesis Peter Gabriel, da par suo, in collaborazione con il festival World of Music, Arts and Dance (WOMAD) nel 1989 avrebbe fondato la casa discografica Real World, con l’intento di promuovere artisti provenienti dai quattro angoli del globo. La prima edizione del WOMAD s’era tenuta nel 1982, un anno dopo la morte di Bob Marley.

 

La world music da allora ha fatto molta strada, mentre l’espressione naviga in cattive acque. Mesi fa il Guardian ha depennato il termine dalle sue pagine, sostituendolo con il meno problematico global. Già nel 1999 il leader del gruppo rock dei Talking Heads, David Byrne, sosteneva che ascoltare delle musiche provenienti da altre realtà e da altri luoghi dovrebbe aiutarci a mutare e arricchire la nostra visione del mondo, mentre ciò che il termine world music suggeriva era l’esatto contrario: la sottolineatura di una frattura fra un “noi” e un “loro”, un modo neanche troppo sottile di ribadire l’egemonia della cultura occidentale su quella del resto del mondo. L’anno dopo, nel suo L’era dell’accesso, l’economista Jeremy Rifkin annotava: “nella sua versione originaria, buona parte della world music rappresenta una forma di capitale culturale: un mezzo per comunicare i valori condivisi e il retaggio storico di un popolo. La musica indigena spesso esprime la vita e la situazione in cui si trova un gruppo, le sue tensioni spirituali o le sue aspirazioni politiche. È un forte veicolo di significati sociali e riesce a toccare le corde più profonde dell’animo umano. Ma se viene espropriata, manipolata, confezionata e venduta come prodotto industriale di tendenza, perde completamente il suo messaggio principale”.

 

 

Chissà come avrebbe accolto Bob Marley le preoccupazioni di Byrne e di Rifkin, e che faccia avrebbe fatto sentendosi chiedere se il reggae fosse o meno da considerare world music, e se riteneva che il suo discografico, il leggendario Chris Blackwell fondatore della Island, stesse tradendo il verbo del reggae. Di certo sappiamo che il reggae nacque e fiorì in Giamaica (Xaymaca, terra delle sorgenti, nella lingua gli indiani arawak), e che nelle sue vene scorrono tanti fluidi, non da ultimo quello della musica nera d’America. Sul piano armonico ricalca le forme del rock classico: delle semplici triadi e una progressione fatta di pochi accordi. Ritmo in levare, un basso corposo e incessante in bella evidenza. Una formula che i Police di Sting seppero astutamente fare propria negli stessi giorni in cui Bob Marley scalava le classifiche di vendita inglesi e mondiali, sovrapponendola all’urgenza del punk e innescando un ordigno musicale che li avrebbe consegnati al mondo in quanto alfieri del cosiddetto reggae bianco (il titolo del loro secondo disco si richiamava proprio a quella formula: Reggatta de blanc). Così facendo contribuirono in modo molto originale al continuo processo di ibridazione del rock e della musica popolare. Detto questo, un titolo del genere – Reggatta de blanc – oggi sarebbe con ogni probabilità impresentabile, un’aperta dichiarazione di appropriazione culturale, conferma del processo di espropriazione, manipolazione e sfruttamento commerciale evocato da Rifkin.

 

Uno degli aspetti che fa di Bob Marley un esempio di rigore etico nel panorama della musica di consumo, è che riuscì, malgrado il successo planetario e la straordinaria predisposizione del reggae ad essere consumato come mero fenomeno di tendenza, a non perdere mai l’orientamento né ad annacquare le ragioni politiche o religiose del suo agire artistico. In questo, bisogna riconoscerlo, fu sapientemente guidato dal buon Chris Blackwell, il quale seppe profilarlo nel solco della tradizione ribelle del rock, facendone una sorta di nuovo messia elettrico in un’epoca di forti tensioni sociali e dove la spinta dirompente e aggregante degli anni ’60 andava ormai affievolendosi. Le platee del rock accolsero Bob Marley a braccia aperte, era l’uomo mandato dalla provvidenza, la prima rock star planetaria venuta dal terzo mondo, l’artista che conquistò l’intero continente africano e che seppe dare concretezza al sogno di riscatto del popolo nero a passo di danza. Un rasta che, per dirla con il suo biografo Timothy White (Bob Marley, Una vita di fuoco, ed. Feltrinelli): “non era né un politico né un poeta, ma un ragazzo di strada che strimpellava la chitarra, nato da una scappatella di un capitano bianco del West India Regiment con una negretta dei boschi”. Eppure, quelle sue canzoni…

 

 

Profezia: la gente andrà fuori di sé

Gente rude, molto rude

Il messaggio: governeremo questo paese

 

cantava in Jail House.

 

Il reggae, grazie a Bob Marley, pur se per una stagione tutto sommato breve, si sostituì al rock quale garante degli umili e degli oppressi. Era la risposta rivoluzionaria a ciò che il rock aveva apparentemente smesso di essere, una delle poche voci capaci di scalare le classifiche di vendita in mezzo ai Bee Gees di Saturday Night Fever, la Donna Summer di Love to love you baby, o gli ABBA di Dancing Queen. Lui e il punk dei Clash e dei Sex Pistols. Del resto l’alleanza, quasi una fratellanza, fra il reggae nero e il punk bianco era lì a dimostrare che i giovani erano più interessati alla lotta di classe che non a farsi dividere sulle questioni razziali. I punk e i rasta l’avevano capito molte bene: guarderanno al colore della nostra pelle e ci metteranno gli uni contro gli altri. In Punk reggae party, manifesto di questo patto fra reietti, Marley cantava:

 

Rifiutati dalla società

Maltrattati impunemente

Protetto dalla mia dignità

Vado in cerca di realtà.

 

Bob Marley è sempre stato un problema. Aveva dalla sua il carisma e un potere aggregante che è di pochi, qualcosa di potenzialmente esplosivo in realtà fragili sul piano politico e perennemente in difficoltà su quello economico. Non è certo un caso se a lui, nel 1981, poche settimane dopo la prematura morte e pochi mesi dopo l’insediamento di Ronald Reagan alla Casa Bianca, il governo giamaicano sentì l’urgenza di conferire il Jamaican Order of Merit, sorta di investitura a eroe nazionale. Apparentemente un onore, più cinicamente, nelle parole di Timothy White: “non esiste modo più sicuro per neutralizzare un sovversivo che farne un poeta laureato”.

 

 

Marley arrivava dai bassifondi di Kingston. Come tanti aveva dovuto imparare a destreggiarsi fra rude boys e la dura legge del ghetto. La musica, il reggae, come unica via di salvezza. Lui e i suoi amici non esitavano a minacciare e a picchiare i DJ per indurli a trasmettere le loro canzoni alla radio. Niente di strano a Trench Town. La prossimità quotidiana con i gangster, unita alla convinzione, maturata dopo l’incontro con Mortimo Planno, leader dei dread giamaicani e affiliato al Divine Theocratic Temple of Rastafari di Kingston, che una canzone è un segno. L’adesione al rastafarianesimo, il culto per Hailé Selassié, l’imperatore etiope la cui incoronazione preannunciava la Liberazione del popolo nero, il credo che il reggae avesse facoltà di guarire insieme la turpitudine morale e l’oppressione razziale che regna sul pianeta. Marley si lasciò crescere i capelli, adottò la dieta rasta e dagli spliff (gli spinelloni di ganja) passò al chillum, la pipa di argilla tipica dei rasta. Come tutti i ragazzi del ghetto aveva sempre fumato erba, ma con l’adesione al rastafarianesimo la faccenda assunse un carattere e un significato ben diverso. Allo sballo e all’ebbrezza, o soltanto alla consuetudine di farlo perché lì s’usava così, come tirare calci a un pallone nel cortile, Marley sostituì il credo dei rasta che fumando la ganja fosse possibile raggiungere una più intima comprensione e visione del cosmo. Quando arrivò il successo commerciale, Marley e soci scioccarono l’Occidente con quei loro enormi cannoni che esibivano come se niente fosse, lasciando attoniti persino i ragazzi che cominciarono a chiedersi: ma dunque, si può…? Spuntarono le magliette, le spille, foglie di cannabis sativa esposte in ogni dove. Legalize it di Peter Tosh a tutto volume dagli abitacoli delle Fiat Ritmo ferme al semaforo…

 

Da qualche parte ho letto che Pino Daniele, incaricato di aprire lo storico concerto di Bob Marley a San Siro nel giugno del 1980, si intrattenne con il musicista poco prima dell’esibizione, e che discutendo gli mostrò alla chitarra l’uso che la musica napoletana faceva delle scale arabe. Se è vero, mi sembra un episodio degno di nota. Un musicista partenopeo e uno giamaicano che trovano un punto d’incontro grazie alla musica araba. Il tutto, prima di un concerto davanti a quasi centomila ragazzi adoranti. Tutti avevano già capito che s’era entrati in una nuova era, con o senza l’ingombro del termine world music. Quell’esibizione di Marley a Milano, che aprì la lunga serie di concerti a San Siro, fu anche, a suo modo, uno spartiacque. Bob Marley fu probabilmente l’ultimo autentico rappresentante della stagione decollata negli anni ’60. Quel giorno, a San Siro, c’era ancora profumo di Woodstock nell’aria, ma c’erano già anche i presagi del Live Aid di Bob Geldof di qualche anno dopo, per non parlare delle adunate per Vasco Rossi che sarebbero seguite in quello stesso stadio.

 

 

Poche settimane fa si sono celebrati i quarant’anni dall’uscita di Siamo solo noi di Vasco. 9 aprile 1981. Come scrisse Edmondo Berselli (Canzoni. Storia dell’Italia leggera, ed. Il Mulino), fra il noi dello “sconvolto di Zocca” e il noi degli anni ’60 di cui Marley fu ultimo apostolo e messaggero, c’è un abisso: “lo scenario non è la società, ma una moltitudine di individui. E Vasco non dirama nessun messaggio positivo. Anzi, è improbabile che desideri lanciare messaggi tout court. Se sono messaggi, sono sicuramente nella bottiglia”. La religione dello sballo di Vasco e della sua generazione di sconvolti / che non ha più santi né eroi, si presentava come qualcosa di molto diverso rispetto agli spinelloni spirituali di Marley. Gli anni ’80 si portarono via in un baleno Bob Marley, ciò che restava del sogno rock e qualche tardo fricchettone. Ci presentò le bollicine e le polverine magiche di Vasco, oltre a quella sua irresistibile vaghezza da tipo qualunque, solo un po’ fuori fase: “sbudellato burlone emiliano, protervamente periferico, figlioccio ritardatario di Kerouac e ritardato di Bukowski, pettinato come un teppista di Caravaggio, faccia di automobilista da motel”, l’implacabile definizione di Roberto D’Agostino poi ripresa da Berselli. Fra l’urlo all’unisono del siamo solo noi di Vasco e la morte di Marley passa un mese o poco più, ma la sensazione è che lì, in quei giorni, si sia voltata una pagina importante.

 

Reagan, nel frattempo, era stato eletto presidente degli Stati Uniti. I vecchi rasta non avevano tardato a cercare nel suo nome il segno del maligno (Ronald Wilson Reagan: 666; curiosamente, ma immagino senza sorpresa per i rasta, al termine del suo doppio mandato, Reagan e first lady comprarono una lussuosa villa a Bel Air, al numero 666 di St. Cloud Street, e in un batter d’occhio l’indirizzo cambiò in 668 St. Cloud). Il reggae, dopo Bob Marley, diventò un genere come tanti. Sempre più danzabile, sempre più associato alle canne, sempre meno rivoluzionario. È notizia di pochi giorni fa che colossi come Universal Music Group e Warner Music Group si sono infine decisi a puntare sul continente africano. Il futuro della musica è lì, ci si dice. O meglio, il luogo dove si potrà trarre maggior profitto dalla musica è senza dubbio lì. Rileggiamo le parole di David Byrne e di Jeremy Rifkin scritte vent’anni fa, e la sensazione, amara, è che prima di quella di Marley sarà probabilmente la loro, di profezia, che vedremo realizzata.

 

Bob Marley, “Get up, stand up”

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