Venezia 68. Visita guidata al cantiere Lido

19 Settembre 2011

A pochi passi dal red carpet assediato dalle telecamere e dal solito, noioso gossip festivaliero (ma ormai sembra che ai quotidiani italiani non interessi altro, visto che alcuni si dispensano addirittura dall’inviare in laguna un critico degno di questo nome), giace il misconosciuto protagonista di questo festival: è il cratere che sta al posto dell’abortito nuovo Palazzo del Cinema, ricoperto da un funereo ‘white carpet’, un sudario che nasconde e isola (speriamo!) i resti di amianto scoperti durante gli scavi. Ingombrante ostacolo agli affannosi percorsi degli spettatori, è rimasto invisibile ai più (solo gli occupanti del Teatro Marinoni, raggiunti da quelli del Teatro Valle di Roma per alzare la voce sulle magagne dell’industria culturale, si sono impegnati a strapparne i veli e mostrare la piaga), ma sintomaticamente presente e tangibile come l’immobilismo e la decadenza delle istituzioni culturali italiane. Eppure, nonostante la crisi, i blocchi, le polemiche, nonostante gli intoppi logistici, i prevedibili compromessi e il gigantismo di una selezione che sfida ogni sintesi, al suo ottavo e ultimo anno di mandato, Marco Müller (in odore di riconferma) ha saputo tenere degnamente le redini: quello del Lido è stato quest’anno anche un cantiere aperto, vivo, attraversato da sussulti e contaminazioni, da sintesi magistrali e sperimentazioni oblique, affondi taglienti nel presente e felici ricomparse dal passato. E anche da qualche delusione, ma questo è da mettere in conto.

 

 

In questa prima puntata ci dedichiamo al concorso principale, popolato di titoli notevoli, ma sul quale è piombato, come una meteora nera e incandescente, il Faust di Alexander Sokurov: una presenza invadente, debordante, un film che strappa dalla poltrona e conduce inquieto e inarrestabile in territori visuali che solo gli incubi più labirintici possono eguagliare. Si può diffidare delle premesse ideologiche e dell’autoritarismo ispirato con cui il regista russo dirige questo sabba immaginifico (prologo/conclusione della tetralogia sul potere iniziata con Moloch), ma non si può negare di essere di fronte a un corpo glorioso del cinema, che fagocita letteratura, pittura, musica, si dilata e si contrae con oscena bellezza. Ingordo, puzzolente, il mito di Faust s’incarna, sprofonda nella materia più oscura e si innalza nel vuoto dell’assenza divina, scardinando la dialettica dannazione/redenzione dell’opera goethiana, adattandola al deserto contemporaneo con un road-movie claustrofobico, dove un intellettuale lussurioso e affamato di senso inganna un povero diavolo, usuraio di anime senza valore, e si lancia nella folle corsa che conduce dall’illuminismo al totalitarismo. Ma le parole mancano: è un Leone feroce, insaziabile, che richiede tempo per essere digerito.

 

 

Fa invece arrossire (con sfumature tricolori) il Gran Premio della Giuria assegnato a Terraferma di Emanuele Crialese, che dal mondo terragno e insulare del suo popolo siciliano si affaccia a osservare gli sbarchi incrociati di clandestini e turisti a Lampedusa (in realtà il nome dell’isola non è citato e il film è girato a Linosa, ma è un dettaglio). Non si possono disconoscere le buone intenzioni di Crialese, che confronta la legge del mare dei pescatori che imbarcano i naufraghi con l’assurda disumanità delle leggi italiane anti-immigrazione, ma il suo tentativo di rendere il complesso rapporto fra i suoi arcaici personaggi e la realtà globale che li investe inciampa di continuo negli schematismi macchiettistici per correre a conclusioni rassicuranti. Anche un pugno di scene riuscite (nessuno mette in dubbio che Crialese sappia girare – del resto è il primo a farlo pesare) non salva l’insieme del film dai rischi di un estetismo consolatorio, di un simbolismo cartolinesco: se la distanza storica da cui Nuovomondo raccontava l’immigrazione italiana in America poteva ancora renderlo tollerabile, il coinvolgimento diretto con l’attualità più scottante richiederebbe più riflessione e meno compiacimento. Ma perché lamentarsi quando c’è l’impegno civile e pure le belle immagini? Agli Affari Interni sono tutti contenti, e all’estero anche: perché Crialese è un made in italy che tira, come Dolce&Gabbana e Tornatore.

 

Dopo il potente esordio al cinema di Hunger (assenza ingiustificabile nella distribuzione italiana), il video-artista inglese Steve McQueen ha accumulato aspettative che Shame stenta a soddisfare del tutto. In un ideale dittico con il primo film, in cui un militante-martire dell’I.R.A. usa il suo corpo imprigionato come strumento politico, trovando la propria libertà in un annichilente sciopero della fame, lo stesso corpo mutante di Michael Fassbender viene rimesso in gioco per descrivere l’alienazione di un trentenne newyorkese di successo, che fa della propria libertà sessuale una prigione opprimente. Il rigore visivo con cui McQueen traccia i contorni alla gabbia del benessere pornografico è notevole, ma la comparsa della fragile sorella innesca reazioni che conducono la sceneggiatura sui binari di un ambiguo percorso di abiezione/redenzione che non sembra voler andare in fino in fondo. Resta il coraggio di aver toccato una piaga del contemporaneo, latente e difficile da maneggiare. E resta soprattutto un talento visivo aperto su molti fronti.

 

 

Fassbender si sdoppia nelle patologie sessuali (accaparrandosi una meritata Coppa Volpi) incarnando, in A Dangerous Method di David Cronenberg, i turbamenti del giovane Carl Gustav Jung, invischiato nel triangolo affettivo e intellettuale con la paziente-collega-amante Sabina Spielrein e col maestro-nemico Sigmund Freud. Cronenberg sembra intenzionato ad afferrare un nervo maestro della sua patologia cinematografica: la pulsione di morte, il sesso come cupio dissolvi, che Spielrein sperimentò nel proprio corpo e teorizzò in anticipo sullo stesso Freud. Ma anche se a volte riesce a innestare il suo immaginario sotto la pelle del film in costume, questo approccio senza schermi non gli giova, così come la pièce a cui si affida, e il confronto tra il mistico cristiano Jung e l’ebreo razionalista Freud scade nei didascalismi, in un bignami della cultura novecentesca e del proprio “metodo” cinematografico.

 

Gli interni asfittici di altre due pièce sono invece congeniali ad altri due maestri come Roman Polanski e William Friedkin. Il primo ritrova la sua migliore vena claustrofobica con Carnage, che rinchiude in un appartamento di New York due coppie borghesi, incontratesi per risolvere civilmente una lite fra i figli undicenni, e li osserva spietato abbandonare gradualmente i panni civili in un gioco al massacro che non risparmia nessuno, tanto i liberal buonisti quanto i cinici carrieristi. Nonostante i luoghi comuni rovesciati del successo teatrale di Yasmina Reza (Le Dieu du carnage), Polanski confeziona un buon film, che riscatta la prove mediocri del passato recente, mette d’accordo tutti, ma non intasca nulla – l’amico americano veglia e i criminali ricercati restano a bocca asciutta.

 

Sempre sui toni del massacro, ma in robusta salsa pulp, Killer Joe di Friedkin ci tuffa la testa nel bidone umano del white trash, dove il piano per uccidere la madre e riscuoterne l’assicurazione abbozzato da un giovane con pusher creditore alle calcagna si va a spappolare miseramente così come ogni legame familiare che non sia convertibile in denaro. Brandendo una coscia di pollo fritto, il sicario-poliziotto ingaggiato e non pagato arriva a sciogliere i nodi e a riscuotere in pegno la sorella, bella addormentata che cova un risveglio esplosivo.

 

 

Borghese o proletaria, la famiglia non ne esce granché bene, ma del resto non è una novità.

 

Sicuramente non lo è per Todd Solondz, che continua a rimestare nello squallore pop dell’odiato, irrinunciabile New Jersey, questa volta ripulendo le stanze da patologie e scabrosità e riempiendole dei gadget collezionati dal malato terminale della società occidentale, un inetto Peter Pan che neanche il matrimonio con una coetanea depressa, rassegnata a non avere di meglio, potrà salvare dal fallimento completo: Abe è il Dark Horse del titolo, il brocco su cui puntare per fare un colpaccio, ma su cui nessuno scommetterebbe seriamente un centesimo. Astenendosi dai tratti più repellenti per cui è famigerato (vedi, almeno, l’agghiacciante Happiness), Solondz lascia respirare il suo talento di regista comico, sfondando verso la fine in un onirismo angosciante e confezionando un ritratto di looser che gronda di un pessimismo raro anche per la sua opera.

 

 

Una misantropia raggelante pervade anche il terzo film del greco Yorgos Lanthimos, Alpis (premio Osella alla sceneggiatura), dove un piccolo gruppo male assortito e in cui vige un’implacabile gerarchia, si lancia, più per deviazione psicotica che per vero business, in una bizzarra e inquietante impresa: sostituire temporaneamente dei parenti scomparsi, aiutando i familiari a elaborare il lutto attraverso performance fredde ed esteriorizzate come le prestazioni di una prostituta (o di un attore?). Ma le barriere di questo gioco alienato sono labili, e chi non le rispetta viene punito o sprofonda nella follia di un’identità vuota e perpetuamente scambiabile. La recitazione straniata e un uso notevole dell’inquadratura (un campo-controcampo lacerato, fra nuche in primo piano e volti fuori fuoco) forniscono la cifra stilistica di questa soffocante vacuità. L’acida riflessione sulla dimensione simulacrale che assedia il quotidiano, su una vita che rimuove la morte, incapace di trovare la propria consistenza se non nella violenza e nella sopraffazione, è riuscita e coerente nell’impedire qualsiasi spiraglio di luce, ma forse un po’ troppo compiaciuta del suo rigore.

 

 

Un po’ più di crudeltà ci si sarebbe invece aspettati dall’esordio alla regia del fumettista GiPi (Gian Alfonso Pacinotti), che col pretesto di un’imminente invasione aliena, ci propone l’apocalisse laica e irrisolta de L’ultimo terrestre. Senz’altro GiPi ha trovato una faccia e un protagonista da ricordare, costruendogli attorno la gabbia di una provincia mostruosamente anonima: volti e spazi che il suo talento grafico sa come trattare. Tra lo squallido bingo in cui lavora e lo scabro appartamento da cui spia la vicina, anziché i dischi volanti che tutti aspettano, si muove un antieroe nevroticamente bloccato, diviso tra la sua unica amicizia con un transessuale e il fascismo quotidiano dilagante. Ma quando il motivo fantascientifico (l’arrivo degli alieni come giudizio universale) è sul punto di deflagrare, il film si perde in una serie di stereotipie, che dovrebbero tirare le fila, ma lasciano perplessi e insoddisfatti. Un po’ più di immaginazione anarchica avrebbe giovato.

 

Qualche delusione la lascia anche Un Été brulant di Philippe Garrel, non certo per il nudo-integrale-che-non-era-poi-così-integrale di Monica Bellucci (unico argomento che è riuscito ad appassionare molti quotidiani italiani in attesa del festival), ma perché il forte coinvolgimento personale da cui sorge il progetto (la perdita del migliore amico, la morte del padre) e il sottile gioco generazionale in cui è presa la famiglia Garrel (tra il figlio Louis che interpreta il ruolo dell’amico scomparso e il padre Maurice che appare come un fantasma al suo capezzale) non riesce a bruciare davvero e questo corpo a corpo tra film e vita si presenta alquanto freddo e incompiuto. Ma scavando sotto la superficie, satura di un cromatismo in cui il regista si tuffa gioioso dopo anni di bianco e nero, emerge una trama ricca di spunti (l’omaggio al Disprezzo di Godard, il commiato alle rovine dell’Italia-Cinecittà, che “si riposa dal Rinascimento”) e di complessi dualismi: amicizia/amore, pittura/cinema, Italia/Francia. Difficile riassumerli qui, ma sarebbe stato bello se questi spunti si fossero integrati con più grazia nel corpo della sceneggiatura, invece che restare primizie per intenditori. Eppure l’idea di ritrarre la propria generazione rivoluzionaria come “gente che non ha conosciuto la guerra” (la Resistenza compare all’inizio come finzione e alla fine come memoria vissuta dal nonno/padre Maurice) calandola nei corpi di un’altra generazione, che guarda (o rinuncia) a un’altra rivoluzione, emana un fascino problematico.

 

 

La clausura dell’Angelo sterminatore buñueliano sembra assediare il festival e anche Abel Ferrara, con 4:44 Last Day on Earth, si rinserra fra quattro mura, con una coppia in crisi, ad aspettare l’annunciata apocalisse: perché lo faccia non l’ho ben capito, ma il film, funestato dai cambi di programmazione, l’ho mancato, quindi sospendo il giudizio. Nella pioggia di titoli (23 solo per questo concorso) se ne perde sempre qualcuno: alcuni si trascurano senza grandi rimpianti, altri lasciano curiosi, come il ritratto adolescenziale di Himizu, del giapponese Sion Sono o il film a sorpresa cinese Ren Shan Ren Hai di Shangjun Caj, che si è aggiudicato il premio per la miglior regia. Altri ancora si spera di recuperarli presto in sala o altrove. Nella mia lista ci sono: il folle adattamento di Wuthering Heights firmato da Andrea Arnold, che restituisce la pelle scura a Heathcliff e affonda nel nero brumoso della brughiera il romanzo di Emily Brontë, troncando le parole e lasciando affiorare la lacerazione emotiva nelle immagini. La sobria elegia di Ann Hui, che in Tao jie (A Simple Life) racconta il quieto avvicinarsi alla fine della vita di un’anziana cameriera, il rapporto materno con l’unico membro della famiglia in cui era servizio rimasto ad Hong Kong, la nuova famiglia dell’ospizio in cui decide di trasferirsi. Dyut Ming Gam (Life Without Principle) del maestro hongkongese Johnnie To, geniale decostruttore di generi, che alla sua quarantasettesima fatica è ancora capace di mescolare le carte e superare la dicotomia noir/commedia che caratterizza la sua produzione, lanciando un’accusa al gangsterismo del capitale finanziario da tre punti disparati: un’impiegata di banca costretta a vendere titoli ad alto rischio, un criminale da strapazzo impegnato a racimolare i soldi di una cauzione, un ispettore di polizia angosciato dalla bolla immobiliare di Hong Kong.

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