Diario 6 / Toccarsi l’ombelico con dovizia

22 Luglio 2020

Mi sembra che ci ammaliamo ogni giorno, che la malattia non sia una cosa che insorge, progredisce e, se non ci uccide, passa, bensì che la malattia sia costante, che si faccia strada dal principio, da quando siamo appena dei ragazzi, o forse anche da prima, da bambini, per non dire da quando nasciamo, che insomma veniamo al mondo infetti da questa malattia, che sia una malattia di cui non conosciamo il nome e le principali manifestazioni, per il semplice fatto che essa possiede infiniti nomi e molteplici manifestazioni, e che ci impesti il corpo e l’anima per tutto il tempo delle nostre vite, così che non possiamo mai dire “mi sono ammalato”, ma al limite “mi sono ammalato di questa o di quest’altra malattia che si è aggiunta all’altra, alla malattia più vasta, a quella di cui non si conosce cura, a quella che mi perseguita da sempre”, così che la malattia più vasta resti nell’ombra e non si manifesti mai in tutta la sua virulenza, come invece fanno le malattie occasionali, tanto le più feroci e diffuse quanto le più inoffensive e circoscritte, mi sembra insomma che il principale malessere, il disagio che proviamo, provenga dalla malattia più vasta, dalla malattia che non regredisce mai, che si accresce progressivamente nel corso del tempo e che contiene tutte le altre.

 

Elias Canetti, in La coscienza delle parole: “Recentemente mi sono imbattuto per caso nella seguente annotazione di un autore anonimo, di cui non faccio il nome appunto per il buon motivo che nessuno lo conosce. Reca la data del 23 agosto 1939 – una settimana prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale – e suona così: «Comunque è finita. Se io fossi davvero uno scrittore, dovrei essere capace di impedire la guerra»”.

 

 

Negli ultimi giorni, quando non voglio essere sopraffatto dai pensieri tetri, immagino che la mia mente sia la mansarda di una vecchia cascina di campagna invasa dai pipistrelli, entro a passo risoluto nella mansarda, spalanco i vetri della finestra e batto forte le mani, poi resto a guardare lo stormo nero dei pipistrelli in volo contro il cielo rosso della sera, e la mansarda torna a essere lodevolmente linda.

 

Tre cose ho iniziato a studiare da zero quest’anno: il tedesco, il salto della corda e la storia della pallacanestro americana. Soprattutto quest’ultima ormai riempie gran parte delle mie giornate. Ho sottoscritto un abbonamento alla Tv per poter guardare un canale satellitare che trasmette giorno e notte vecchie partite del campionato americano di basket. Ho anche acquistato dei libri, per lo più biografie di grandi campioni. In uno di questi ho letto le considerazioni di un uomo eccezionalmente alto, un ex giocatore che a dodici anni era alto centonovantasei centimetri, e che da adulto avrebbe toccato i duecentodiciotto: 

“A volte mi sentivo come se vivessi in una realtà parallela, situata leggermente al di sopra di dove vivevano tutti, e non riuscissi a trovare il modo di scendere. Immaginate che la vostra testa fluttui quasi cinquanta centimetri al di sopra di quelle della maggior parte delle altre persone. Loro vi parlano, ma si stancano anche di allungare sempre il collo verso l’alto. A poco a poco, le conversazioni si indirizzano verso altri, i cui occhi sono allo stesso livello dei loro. Era come se un sottile strato di nubi mi separasse da tutti gli altri”. 

 

 

Ho provato un incredibile senso di comunione con quest’uomo, e non perché anch’io sia alto duecentodiciotto centimetri (sono trenta centimetri in meno), ma perché quella sensazione l’ho avvertita per tutta la vita. Nel mio caso però ho sempre pensato che il vero ostacolo tra me e gli altri fosse rappresentato dai miei occhi, che gli occhi degli altri facessero una gran fatica ad avere a che fare con i miei occhi, e che quindi cercassero conforto in altri occhi, occhi che fossero “allo stesso livello dei loro”. Ciò che in molti mi dicono è che i miei occhi hanno un che di intangibile, un’estraneità, qualcosa che mette soggezione. Secondo altri invece la questione è più estesa e riguarda la mimica facciale, in quel caso le espressioni del mio volto non corrispondono mai con le mie vere intenzioni. Cosicché mi capita spesso di imbattermi in malintesi dovuti al fatto che la mia espressione pensata non corrisponde alla mia espressione manifestata, e quindi se nella mia espressione pensata sorrido, nella mia espressione manifestata non sorrido affatto, col risultato di apparire non tanto come un uomo che sorride, ma come un uomo che in una circostanza in cui dovrebbe sorridere non sorride, un uomo quindi che vive una condizione di perpetuo sfasamento rispetto alla realtà. La disparità che corre tra me e il mondo è motivo di grandi turbamenti. Così (per tutta la vita) io non sono mai stato come penso di essere, e per compensare (da tutta la vita) agisco come non sono.

 

Sulla ciclabile incontro spesso un uomo sulla sessantina che corre a torso nudo. È piccolo e tarchiato, con una pancia rotonda e tesa color bronzo, la pancia di chi espone la pelle al sole per molte ore durante il giorno. Il motivo principale per cui quest’uomo si fa notare è che corre all’indietro. Mentre tutti procedono in avanti, lui dà le spalle alla direzione verso cui corre. A guardarlo si ha l’impressione di assistere a un film in cui tutto fila nel verso consueto, tranne questo strano personaggio minore che riavvolge la storia a ritroso. 

 

Gli antichi greci avevano una visione del tempo diversa dalla nostra. Collocavano il futuro alle spalle, mentre il passato è qualcosa che si allontana davanti a noi. 

 

 

Se si vuole fare un viaggio nel tempo, un vero viaggio nel tempo, un viaggio a ritroso fino alla più tenera età, fino al momento della nostra nascita o giù di lì, bisogna toccarsi l’ombelico, ma toccarselo bene, con dovizia, come se non fosse una parte del nostro corpo, o meglio come se fosse una parte del nostro corpo che non si è però mai sfiorata con la giusta tensione, perché quella forma, la forma dell’ombelico, è la cosa di noi che è rimasta più simile a se stessa, mentre tutto il resto si è allungato, dilatato, disteso, degradato, rattrappito, l’ombelico ha mantenuto intatta la forma, la sua forma di buco rammendato, di prima bocca, di coda tagliata, di ferita strizzata.

 

In giardino ho un tavolo in marmo e ghisa in cui nelle belle giornate mi siedo a lavorare. La sedia è quasi avvolta dalle ortensie. Ho notato che le ortensie impiegano molto tempo a sfiorire. I petali diventano progressivamente più pallidi, il rosa sbiadisce in un grigio chiaro solcato da esili venature rossastre. Sembra la pelle di un organismo giovane e trasparente, e invece è la manifestazione palese del loro invecchiamento. Quando devo pensare mi volto verso questi petali impalliditi, li guardo a fondo come non è mai possibile fare col viso di una persona. Guardare insistentemente il viso di una persona è considerata una forma di insolenza. La ragione è che ogni contemplazione si trasforma in una meditazione, e ciò che si medita è principalmente un segreto che solo chi sta meditando conosce. E siccome i pensieri sono insondabili, la contemplazione assume i caratteri di una prevaricazione. Se i pensieri fossero trasparenti come i petali invecchiati delle mie ortensie, la contemplazione di un viso umano sarebbe accettata. Si tratta di sedersi allo stesso tavolo e scoprire allo stesso momento le proprie carte. L’uno scopre il viso, l’altro scopre il pensiero.

 

Ma non si possono scoprire i pensieri, neppure attraverso l’esercizio della confessione. I pensieri restano sempre per una parte nascosti. Restano nascosti perfino a chi li elabora, poiché i pensieri sono in continuo movimento, mutano col farsi, e come tali sfuggono. Si può contemplare indisturbati un viso solo in talune circostanze: durante il sonno del contemplato, per esempio, o quando si guarda il viso di un morto. In quei casi, sì, è ammesso contemplare indefinitamente un viso, come è ammesso che io contempli le ortensie del mio giardino. Ma in effetti ciò che contemplo è un fiore addormentato, e che tra poco sarà morto.

 

È sabato sera. Da una terrazza vicino casa qualcuno prova l’impianto stereo e le casse per una festa che si svolgerà da qui a poco. I bassi rimbombano mischiati al grido dei gabbiani. Non è più Roma, sembra un paese di mare all’ora dell’aperitivo in un anno di guerra, e un soldato impazzito che mette i dischi.

 

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