Quegli anni / Il “folle” Della Mea e la sua Nave

28 Settembre 2019

I dischi di Ivan Della Mea (Lucca 1940-Milano 2009) li ho ascoltati fin da ragazzino; sono stato non so quante volte ai suoi concerti, ho cantato le sue canzoni quando avevo appena imparato a strimpellare la chitarra. Più tardi, quando ho cominciato a suonare un po’ più sul serio e a comporre i primi pezzi, l’ho anche frequentato di persona. Ricordo le riunioni a Milano in via Melzo, alla sede del Nuovo Canzoniere, i caffè al bar Picchio, l’intransigenza, la simpatia, l’affabilità di Ivan… E ricordo quello che raccontava di lui Renato Rivolta, suo incontenibile polistrumentista e in seguito anche nostro (degli Stormy Six). Insomma, dovrei conoscerlo abbastanza bene. 

 

In realtà, leggendo la biografia scritta da Alessio Lega, La nave dei folli. Vita e canti di Ivan Della Mea, uscita da Agenzia X, mi rendo conto di non avere mai saputo molto di lui. Quando avevo 18-19 anni, Della Mea era un mio idolo. La metto così, tanto per capirci, perché è difficile dire cosa rappresentasse veramente. Alla fine degli anni ’60, i veri idoli erano altri: John Lennon, Mick Jagger, Bob Dylan (suoi coetanei). Ma per chi – come me – si era formato anche sui Dischi del Sole, sui canti del lavoro e della Resistenza, sulla ricerca e sull’impegno artistico del Nuovo Canzoniere, Ivan era un punto di riferimento fondamentale, fuori da qualsiasi rituale mediatico. Il cantore militante per eccellenza; un personaggio carismatico, un modello di rigore e di coerenza. 

 

Che la sua fosse stata una vita difficile un po’ lo sapevo: è lui stesso a raccontarlo nelle prime canzoni, le Ballate della violenza, dove parla di un’infanzia durissima, fatta di brutalità e abbandoni, di un padre dalla mano pesante, fascista e alcolizzato. Ma quelle confessioni così dure, così brucianti, allora (fine anni ’60) non riuscivo bene a collocarle. Che senso avevano, elementi autobiografici tanto ingombranti, nei testi di un cantante “politico”? Cosa c’entrava la storia personale di un singolo individuo con la lotta di classe, con i “destini generali”? Ripensandoci, mi accorgo di avere a lungo rimosso le canzoni dedicate al padre, a favore di pezzi più tradizionalmente politici come Cara moglie (uno dei suoi più famosi, insieme a El me gatt e Io so che un giorno). Solo leggendo il libro di Alessio Lega mi rendo conto della terribile verità di quelle vicende, del loro peso nella vita di Luigi (Ivan è il nome d’arte scelto da adolescente). E torno a riflettere – a distanza di anni – sulla unicità di questo lucchese-milanese nell’ambito della canzone italiana. Nonostante tecnicamente (diciamo così) rientrasse nella categoria di “cantautore”, Ivan non lo è mai stato, né ha mai voluto esserlo. Tra l’altro, nessun cantautore – nemmeno Tenco, che Ivan ha conosciuto – si sarebbe mai sognato di mettere a nudo tanto direttamente, senza veli, vicende personali così scottanti. 

 

Anche come artista “militante”, d’altra parte, Della Mea è anomalo: sembra che faccia di tutto per sfuggire agli schemi del canto “di piazza”. Nella sua produzione, le canzoni-bandiera, quelle da cantare in coro, si riducono a ben poche. Inni, nessuno (se si eccettua L’Internazionale nella nuova traduzione di Fortini). Sulle certezze dell’epica rivoluzionaria prevalgono, nel suo lavoro, i dubbi, le contraddizioni, le domande, i rovelli, le provocazioni. Anche musicalmente – grazie soprattutto al contributo dell’irrefrenabile Paolo Ciarchi, appena scomparso – i suoi quattro accordi si scorticano sistematicamente, si spiantano, si sbarellano; la sua voce non fa nulla per essere gradevole, composta, impettita. La sua “esse” frusciante si esibisce senza schermi. Ivan – con la complicità dei musicisti che lo accompagnano (o sarebbe meglio dire lo “scompagnano”) – sembra a volte inseguire un’”estetica del brutto”, o se non altro del ruvido, dello scomposto. Negli anni ’70, la cosa mi inquietava: ogni volta che lo ascoltavo – nei dischi o dal vivo – mi chiedevo che necessità ci fosse di sgorbiare sistematicamente la bellezza, la sensatezza di un discorso cantato. Ma c’era poco da discutere: Ivan era fatto così. Allora si poteva (si doveva) accettare quella “alterità” in nome di una cultura radicalmente contrapposta a quella dominante; in nome della tradizione subalterna, della scabra verità che le bellurie consumistiche sistematicamente rimuovono. 

 

 

Nella biografia di Alessio Lega Ivan non emerge come quell’intellettuale con chitarra, quel cantore-ideologo che sempre mi è sembrato. Dalle pagine sulla sua infanzia e sulla sua giovinezza, dalle numerose testimonianze raccolte, la sua figura risulta molto più genuinamente “popolare” di quanto uno si potesse immaginare in quegli anni (anni in cui più di un figlio di papà se la tirava da “proletario”). La formazione culturale del Mea (come lo chiama affettuosamente il suo biografo) è disorganica, precaria, ben diversa da quella degli intellettuali coi quali è stato in contatto (Gianni Bosio, suo amatissimo padre “spirituale” al quale sono dedicate alcune bellissime canzoni, Roberto Leydi, il fratello Luciano). Per alcuni anni, dopo il suo trasferimento a Milano, il giovane Ivan vive ai margini della società, in condizioni di estremo disagio economico e sociale. 

 

In La nave dei folli (il titolo della biografia riprende quello di un famoso spettacolo di Ivan) il ritratto dell’autore di Cara moglie, insomma, è molto più complesso e sfumato dello stereotipo a cui eravamo abituati. Senza mai deviare troppo dall’oggetto della sua biografia, Lega racconta e documenta la storia del folk revival italiano, dei suoi legami con la politica e con la cultura degli anni ’60 e ’70. Si parla così del dissidio tra Leydi e Bosio, di quello tra “puristi” e fautori della “nuova canzone”, della nascita di spettacoli storici come Bella ciao e Ci ragiono e canto, di Dario Fo, di Giovanna Daffini, Rudi Assuntino, Fausto Amodei, Michele Straniero, Giovanna Marini, Paolo Pietrangeli, e via dicendo. Si parla poi, tra l’altro, della collaborazione di Ivan con Franco Solinas alla sceneggiatura per il film Tepepa, diretto da Giulio Petroni e interpretato da Tomas Milian (1969). Della Mea avrebbe potuto puntare su una carriera da soggettista e sceneggiatore, a Roma; ma qualcosa in lui rifiutava ogni via troppo facile al successo. Anche come “cantautore” avrebbe potuto scendere a qualche compromesso: in fondo, personaggi appartati e apparentemente refrattari alla canzonetta, come Guccini, stavano ottenendo inaspettati riscontri di pubblico. Ma Ivan era fatto di un’altra pasta. Se non fosse esistito un circuito musicale “alternativo” (epiteto in voga in quegli anni, e persino troppo moderato per descrivere questo personaggio) il Mea non avrebbe avuto nessuno spazio.

 

Con il pop – anche col più “progressivo” – non aveva niente, ma proprio niente a che fare. Per indole, direi, prima che per scelta ideologica. Anche volendolo, sforzandosi, non sarebbe mai riuscito a raggiungere quel minimo di gradevolezza indispensabile a conquistare il grande pubblico. Pezzi in milanese come El me gatt (uno dei suoi più riusciti) non sono poi così distanti da quelli di Enzo Jannacci; ma per farli “passare” ci sarebbe voluto un lavoro di produzione, di immagine, di marketing, che a Ivan era radicalmente estraneo. In lui c’era come una durezza, una scontrosità insuperabile. Così, a ricordare oggi questo protagonista-outsider della canzone italiana del Novecento sono in pochi. C’è da augurarsi che la bella biografia di Alessio Lega spinga qualcuno a riascoltare le sue canzoni e a ripercorrere da una prospettiva diversa la storia di quelli che vengono sciaguratamente bollati come anni di piombo (titolo italiano di un film di Margarethe Von Trotta, del 1981, dove si ascolta tra l’altro una canzone di Ivan), anni che – come Alessio Lega ci mostra – oltre al famigerato piombo hanno prodotto svariati metalli assai più nobili e preziosi. 

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