Oreste Del Buono / Racconto d'Inverno. Un'altra deportazione

27 Gennaio 2020

Nel mese di novembre del 1945 esce Racconto d’inverno, uno dei primi resoconti dei campi di prigionia tedeschi. L’ha scritto tra aprile e luglio un ventiduenne appena ritornato dai Lager nazisti. Si chiama Oreste Del Buono e, nonostante la giovane età, già inserito nei giri letterari milanesi. Alla fine degli anni Trenta è stato infatti un collaboratore del giornale satirico Bertoldo, inoltre ha scritto sui giornali degli universitari fascisti milanesi e lombardi. Nel 1943 insieme a Domenico Porzio e a Marco Valsecchi ha poi fondato una rivista, di cui sono usciti nove numeri, che si è intrecciata con il gruppo comasco animato da Renzo Cantoni, fratello del filosofo Remo, facente capo a una libreria dove gravitano Dino Buzzati, Antonio Banfi, Giuliano Gramigna, Carlo Bo, Luciano Anceschi e i poeti Eugenio Montale e Salvatore Quasimodo. Del Buono, chiamato alle armi di leva, ha lasciato i due amici per arruolarsi in marina e partecipare alla guerra che volge male per le sorti italiane.

 

L’ha fatto, racconterà in seguito, in memoria dello zio, Teseo Tesei, un eroe di guerra medaglia d’oro disperso nelle acque di Malta durante un attacco alle navi inglesi. Oreste non crede alla guerra, ma si sente spinto ugualmente a fare questa scelta. Il momento è il peggiore, il 24 aprile 1943. Siamo alla vigila del Gran Consiglio che decreterà la caduta di Mussolini. Così dopo l’8 settembre Oreste, figlio di una ricca famiglia toscana trasferita a Milano, viene catturato dai tedeschi nelle isole di Brioni e spedito in Germania. Fa parte di quel contingente di militari italiani catturati dalle truppe tedesche dopo l’armistizio: oltre 800.000, secondo gli storici. Di questi solo 186.000 restano fedeli all’alleanza con il Terzo Reich. La maggior parte viene perciò internata in diversi campi di prigionia, alcuni molto duri, tra Polonia e Germania.

 

Gli Imi, ovvero i militari italiani internati, saranno costretti a diventare manodopera nelle fattorie, nelle aziende e nelle fabbriche tedesche. Una deportazione che è stata per lungo tempo ignorata a vantaggio della deportazione politica, in modo simile a quella ebraica, la cui rimozione continuò a lungo, anche a guerra terminata, se è vero che, dieci anni dopo la fine del conflitto bellico, nel 1955, Primo Levi ne scriveva su un giornale torinese ribadendo la dimenticanza dello sterminio ebraico. I soldati di leva o i militari di carriera che non entrarono tra le truppe di Salò, o direttamente nei reparti tedeschi come le SS italiane, furono smistati in vari campi di prigionia e lavoro. La loro vicenda è stata raccontata di recente in vari volumi di studiosi: Gabriele Hammermann (Gli internati militari italiani in Germania 1943-45, Il Mulino 2004) e Mario Avagliano e Marco Palmieri in I militari italiani nei lager nazisti. Una resistenza senz’armi (1943-1945) edito sempre da Il Mulino.

 

Santo Peli, nella Storia della Resistenza in Italia (Einaudi) uscita nel 2006, dedicava finalmente un capitolo ai “Protagonisti dimenticati”: le donne resistenti e i militari italiani nei Lager tedeschi. Il giovane Oreste finisce così nel campo di concentramento a Gerlospass in Tirolo, dove si trovano anche prigionieri ucraini e polacchi. Per un anno e mezzo lavora alla costruzione di una linea elettrica tra il Tirolo e il Salisburghese. Si tratta di un lavoro duro, come racconta nel suo libro, condotto al freddo in un ambiente climaticamente ostile. Certo non sono i campi della morte, di cui hanno reso testimonianza i deportati politici subito dopo la fine della guerra, o quelli per l’eliminazione di ebrei, uomini e donne, alcuni dei quali apparsi già nel 1945 e 1946. Le condizioni di vita nel campo di Gerlospass sono decisamente migliori. Del Buono e i suoi compagni devono tuttavia trasportare sulla neve con slitte i piloni e i materiali della linea elettrica che attraversarà i monti delle Kitzbuheler Alpen. Un lavoro molto faticoso e anche rischioso, ma non c’è l’eliminazione sistematica dei malati o dei deboli come accade nelle selezioni di cui racconta Primo Levi. La tempestività del libro del giovane Oreste è dovuta alla sua evasione dal campo. Già una prima volta nell’ottobre del 1944 si è allontanato da Gerlospass, ma la fuga è durata solo una settimana, perché stanco di girovagare, fa ritorno al campo.

 

La seconda fuga è invece quella definitiva, perché riesce a ritornare in Italia, a Milano, la sua città, il 23 aprile del 1945, due giorni prima della insurrezione generale e della liberazione, cui non partecipa perché malato di itterizia. Strano destino il suo: la sua attività di militare, prima addestrato e poi internato, si svolge nell’intervallo di tempo che corre tra la destituzione del Duce e la sua esecuzione, il tempo segnato appunto in Italia dalla lotta di Resistenza nei due lunghi anni che cambiano la storia del nostro paese. In realtà Racconto d’inverno non è esattamente una testimonianza, o almeno non solo, perché si tratta di un vero e proprio romanzo. Il finito di stampare reca la data del 15 novembre 1945; ne vengono tirate 1000 copie. Lo pubblica Edizioni di Uomo e fa seguito ad un racconto redatto dall’autore subito dopo il ritorno, “Fine d’inverno”. Sergio Antonielli, anche lui autore di un libro di memorie di prigionia, Il campo 29, situato in India, uscito nel 1949 presso le Edizioni Europee di Milano, dopo essere stato respinto in Einaudi da Cesare Pavese e Natalia Ginzburg, sostiene a ragione che Racconto d’inverno inaugura in Italia la serie dei documenti di guerra e di prigionia, il cui libro più famoso è oggi Se questo è un uomo.

 

 

La distanza tra il libro del chimico torinese e quello del giovane marinaio non può essere maggiore. Mentre il primo ha redatto un memoriale scritto in una lingua scabra, essenziale e decisamente classica, il secondo ha optato per un romanzo fornito di una lingua a tratti espressionista, inventiva e fortemente letteraria. Riletto oggi alla sua quarta ristampa in oltre settanta anni, presso Minimumfax con la postfazione di Ernesto Ferrero (dopo la prima del 1945 lo ristampa Scheiwiller del 2003 e poi entra nel primo volume dell’antimeridiano delle opere di Del Buono a cura di Silvia Sartorio, Isbn edizioni, 2010), ci si rende conto come il neorealismo, se di questo si tratta, abbia avuto anche una sua corrente espressionista, linea decisamente minoritaria, di cui i primi due libri di Del Buono, questo e il successivo La parte difficile (1947), rappresentano uno dei punti alti. Non c’è niente di spontaneo, diretto in queste pagine, niente è tratto dal parlato in questo incunabolo della letteratura del Lager.

 

Non si capisce da dove Oreste Del Buono abbia tratto questa lingua così ricca, mentale, e al tempo stesso così concreta e diretta. Forse dagli scrittori americani che leggeva, o provava a leggere, negli anni Trenta, o dalla letteratura francese che seguiva. Fatto sta che Racconto d’inverno appare diverso da qualsiasi altro libro dell’epoca, così che non trovò né subito né in seguito veri estimatori. Lo stesso autore negli anni Sessanta liquidava quel primo romanzo con una alzata di spalle, quasi fosse un errore giovanile. Mentre è interessante proprio per il suo stile che scarta sia dal realismo moraviano di Gli indifferenti che dal neorealismo degli autori letterari degli anni Quaranta, mentre è vicino al neorealismo cinematografico. Raccontato in terza persona, da un narratore onnisciente, comprende un personaggio in cui la voce narrante tende a identificarsi, seppur distanziandosi a tratti; è Tommaso, un perdente, un’indolente, quasi un anticipo del personaggio esistenzialista.

 

Forse che Del Buono aveva già letto La nausea di Sartre uscito nel 1938 in Francia o Lo straniero di Camus del 1942? Non è dato di sapere. Di certo Tommaso e gli altri soldati italiani prigionieri in un campo di lavoro tedesco soffrono il loro “male di vivere” a contatto con i custodi tedeschi violenti e oppressivi. Travagliano nella neve, patiscono il cibo scarso, lo sporco, l’abbandono, il non-senso del vivere dentro l’esperienza del Lager (parola che Del Buono non usa mai). Consumano il margine in cui sono ridotti, dice il narratore, mentre intorno a loro il mondo è in guerra, tra le montagne dove trasportano i piloni dell’alta tensione sperimentano tutta la loro miseria provocata certamente dalla condizione di prigionia, ma anche dal proprio senso interiore d’abbandono. Tommaso va a letto con una donna ucraina, Kata, una derelitta come loro provata dalla vita, e se ne vergogna. Questo sentimento è quello dominate, insieme al rancore, al senso di rabbia per la propria condizione di abbruttimento. Sono dei ragazzi di diversa origine sociale, per età ed esperienza, scarsi di vita; vivono costrittivamente insieme in un contesto che non è né di lotta né di ribellione. Cercano di sopravvivere. Luciano e Serafino si chiedono: “Che colpa abbiamo della guerra?”.

 

Nessuna colpa, nessuna responsabilità. L’hanno subita. A renderli soli è la prigionia, ad unirli è invece lo sconforto, la condanna, la vergogna. A tratti emerge anche qualcosa di cristiano nei discorsi dei giovani prigionieri, un senso del peccato e colpa. Tommaso ha paura delle donne, chiosa la voce narrante. Sono giovani maschi senza una coscienza politica e neppure sociale. Atomi alla deriva. La figura dei loro carnefici – il capo del campo e gli altri sgherri – non ha nessuna profonda malvagità; sono degli scherani, stupidi e crudeli, figure mediocri, modeste. Anche nella crudezza di alcune scene, in cui i capi pestano i prigionieri, non c’è mai la presenza d’una spietatezza senza fine. Quello che emerge non è quindi un elemento testimoniale, quanto la carica espressiva del linguaggio usato da Del Buono allora giovanissimo. Qui sono al loro debutto i futuri protagonisti dei quasi venti tra romanzi e libri di racconti pubblicati dallo scrittore toscano tra il 1945 e il 1987. I suoi “eroi” sono personaggi senza qualità, che attirarono forse non a caso la reprimenda di Vittorini, che definisce La parte difficile: “Grigio, triste, noioso”.

 

Racconto d’inverno scarta certamente dalla letteratura postbellica dominante, dal mito politico che prende forma in Uomini e no, e si apparenta in forma simmetrica e rovesciata ad un altro libro in controtendenza, Il sentiero dei nidi di ragno. Forse non a caso fu Calvino a promuovere i libri di Del Buono in Einaudi molti anni dopo. Riletto oggi, Racconto d’inverno ci presenta uno scrittore di valore a lungo incompreso, anche perché sommerso dalla mole di attività che l’infaticabile Del Buono ha per decenni condotto nel mondo editoriale e giornalistico. Resta un magnifico libro sui campi di prigionia dei dimenticati militari italiani, quelli che non aderirono alla Repubblica di Salò, e resistettero alle pressioni dei nazisti e dei fascisti. Una storia tutta da raccontare, o raccontare di nuovo, all’interno della complessa vicenda della deportazione nazista, che attende ancora il suo riconoscimento. Un pezzo mancante della nostra memoria collettiva.

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