Portammo tutti un eskimo innocente / Gli 80 anni di Francesco Guccini

14 Giugno 2020

Un giorno, invitato a pranzo da mia madre, notai che stava ascoltando i Metallica alla radio. Nothing else matters le sembrava una canzone adatta a farci il sugo. Poche settimane prima mi aveva detto di aver visto Guccini da Fabio Fazio, e che ne era rimasta commossa. Le feci presente che era recidiva. La passione tardiva per Guccini faceva il paio con l’amore sbocciato per De André grazie alla fiction trasmessa mesi prima da RAI Uno. Che avesse infine digerito Renato Zero e il triangolo era cosa risaputa in famiglia, ma nessuno si sarebbe aspettato di vederla sbucare in via Paolo Fabbri o su via del Campo.

 

Negli anni ’70 questo non sarebbe potuto succedere. Alla locomotiva lanciata a bomba contro l’ingiustizia mia madre avrebbe certamente preferito lo slow train coming di dylaniana memoria, un treno più lento, evangelico, che portava con sé il languore di un sud refrattario e devoto, rassegnato alla giustizia ultraterrena. La passione senile per Guccini, non potendo derivare dalle canzoni o dal lambrusco, doveva per forza sgorgare dallo sguardo retrospettivo del Guccini quasi ottantenne, un suo quasi coetaneo. Mia madre aveva verosimilmente colto, nelle sue parole e nella sua bonarietà atavica, qualcosa in cui poteva riconoscersi e in cui era possibile credere. Era insomma il Guccini sprofondato nei ricordi ad averle smosso il cuore. La famiglia e il paese, gli antenati, l’umiltà contadina, non Primavera di Praga o il sempiterno giro di Do.

 

 

Nel recente documentario L’amata genitrice di Victor Tognola, dedicato alla mondina Giovanna Daffini, Massimo Zamboni, già chitarrista dei CCCP e dei CSI, rileva un aspetto fondamentale dello stile canoro e interpretativo della Daffini: come il suo marcato registro popolare, così scabro e diretto, non mediato e senza fronzoli, sia oggi difficilmente accostabile al folk inteso nella sua accezione moderna, misura non più della fatica e degli stenti ma dei metri cubi da riattare o del miraggio della vita all’aria aperta. In Giovanna Daffini era ben presente la terra nella sua rudezza e soprattutto nella sua bassezza (la tèra l’è bàssa e lavorà stracca, il proverbiale monito dei nostri nonni). Nel prendere le distanze dalla cosiddetta musica di consumo, tanta parte del cantautorato degli anni ’70 si lasciò inavvertitamente alle spalle anche molto del canto di tradizione popolare. Nella forma, nello stile, nel portato. Fu la sua stessa ambizione a rendere inevitabile quel distacco, un distacco che a tutt’oggi risulta difficile ricomporre (con le dovute eccezioni beninteso, su tutte, pensando agli esempi più recenti, il Capossela delle Canzoni della cupa). A uscire peggio, nel faccia a faccia fra impegno e disimpegno, fu proprio la canzone popolare, che con quella disputa sui massimi sistemi non c’entrava un tubo.

 

Uno degli aspetti chiave di quella stagione fu senza dubbio la sottolineatura autoriale unita alla consapevolezza del ruolo (tu sei un – ah ah – cant-autore, si autofustigava Edoardo Bennato, che faceva il paio con l’invettiva gucciniana per eccellenza dei colleghi cantautori, eletta schiera). Il folk inteso non tanto a misura dell’interprete, ma dell’autore. Era la strada che in certa misura avevano già intrapreso i Cantacronache, sorta di anello di congiunzione fra la figura del cantastorie e quella del cantautore. La prima conseguenza di questa sottolineatura fu certamente quella dell’aver allontanato l’interprete dalla mera funzione di veicolo di tradizione. Il cantautore come elemento di rottura, di invenzione e di sabotaggio insieme, non come testimone di folclore. In ambito di cultura popolare invenzione e rottura sono operazioni sempre delicate, non facili da assorbire. Ogni deviazione dalla norma o, per meglio dire, dalla ritualità, può avere delle conseguenze drammatiche per la comunità e compromettere l’equilibrio del mondo. Il cantante folk, nel privilegiare l’invenzione e la rottura rispetto alla trasmissione, si fa carico di una responsabilità enorme. Guccini ha però sempre avuto l’accortezza di marcare il terreno che aveva sotto i piedi, proprio come fa il contadino. L’osteria e il fiasco di vino si fecero misura della sua identità, smarcandolo dal ruolo di maître-à-chanter, ridimensionandolo (e ridimensionandosi) a cantore di taverna o di trattoria.

 

 

Quello che negli anni è diventato un ameno segno di riconoscimento se non proprio un aspetto della liturgia da concerto (bere direttamente dal fiasco fra una canzone e l’altra), rappresentava in questo senso per Guccini una sottolineatura identitaria capitale. Quando il successo lo portò nei teatri, nei palazzetti dello sport e negli stadi, lontano cioè dal convivio fra amici, si rese necessario sottolineare come la dimensione dell’osteria restava pur sempre quella dentro cui le sue canzoni respiravano al meglio. Nelle sue canzoni potevano anche farsi largo le tastiere e le chitarre elettriche, ma da sotto la sedia sempre spuntava un fiasco di quello buono. Rispetto a Fabrizio De André, che arrivava da una tradizione musicale meglio radicata (la forma ballata, la scuola francese, il richiamo alla figura del trovatore, gli arrangiamenti affidati a dei musicisti di vasta e raffinata esperienza: Giampiero Boneschi piuttosto che Gian Piero Reverberi, Nicola Piovani piuttosto che Mauro Pagani) e che arpeggiava classicamente alla chitarra, Guccini si trovò inizialmente immerso in una tradizione altra (il blues, il beat dei Nomadi o dell’Equipe 84), e per anni nei suoi dischi a farla da padrone fu il finger picking di scuola anglosassone. Non a caso lavorò a lungo con Deborah Kooperman, una musicista newyorchese cresciuta alla scuola di Pete Seeger (colui che mediò il folk americano dalla dimensione rurale a quella urbana), la quale aveva vissuto in prima persona la stagione del revival folk dei primi anni ’60 nel Greenwich Village di New York. Musicalmente Guccini si è quasi sempre mosso su territori che non avevano attinenza con le osterie emiliane e il fiasco di rosso, dei territori sui generis – mettiamoci pure, fra le tante, l’ambientazione russa, quasi vysockijana, di Cinque anatre, o il più tardo bandoneon di Juan José Mosalini e le atmosfere argentine di Scirocco, una delle canzoni musicalmente più (ac)curate di Guccini. Non era la sperimentazione consapevole del De André delle mulattiere di mare, l’azzardo progressive del progetto con la PFM o la minuziosa ricerca sui dischi a tema, quanto piuttosto la difficoltà di infilare l’interprete Guccini dentro una tradizione musicale che fosse all’altezza della sua sapienza popolare e del suo dono poetico.

 

In una delle sue canzoni più taglienti e conclusive, Addio, dal disco Stagioni, Guccini si nega l’appellativo di artista, preferendosi piuttosto nella condizione subalterna di baccelliere, di novizio, di apprendista. Addio è una marcatura a fuoco. Congedo ed epitaffio insieme. Se proprio dovete ricordarmi, fate che sia in questi termini:

 

Io, figlio d'una casalinga e di un impiegato,

Cresciuto fra i saggi ignoranti di montagna

Che sapevano Dante a memoria e improvvisavano di poesia,

Io, tirato su a castagne ed ad erba spagna,

Io, sempre un momento fa campagnolo inurbato,

Due soldi d'elementari ed uno d'università,

Ma sempre il pensiero a quel paese mai scordato

Dove ritrovo anche oggi quattro soldi di civiltà...

 

Il conflitto del campagnolo inurbato vissuto da Guccini fu anche il conflitto del folk inurbato degli anni ’60. Dylan ebbe l’accortezza di allontanarsi da certo folk di protesta non proprio a gambe levate, ma quasi. E lo fece, se ricordate, dapprima imbracciando una chitarra elettrica, per lo sgomento e l’incredulità di Pete Seeger, e poi andando a registrare due dischi a Nashville, la patria della musica country (John Wesley Harding e Nashville Skyline). Fu il tentativo di immedesimarsi nella parte del cantore folk rustico, spogliato del ruolo di sabotatore sociale al quale era stato assegnato suo malgrado, e fu una delle tante mosse spiazzanti di Dylan. Per quanta adesione si fosse sforzato di porvi sul piano delle intenzioni però, il country non apparteneva a Dylan, tanto quanto, verrebbe da dire, la musica popolare nella sua accezione più asprigna e non mediata, poco s’incontrava con Francesco Guccini.

 

 

È risaputo che Guccini ha sempre riservato un’altissima attenzione al testo poetico a fronte di una minore vigilanza sul piano musicale: a me interessa molto più quello che dico e con che parole lo dico di quanto mi interessi il supporto musicale, dichiarò in un’intervista. Non ho mai detto che a canzoni si fan rivoluzioni, si possa far poesia (da L’avvelenata), ma neppure, si potrebbe dire, a canzoni era disposto a far musica (sono convinto che con le canzoni non si possa fare della ‘musica’, dichiarò infatti Guccini altrove). Sono affermazioni di un certo rilievo ma non sorprendenti, proprio perché coerenti con la prassi musicale di estrazione popolare che ha come obiettivo primario il ricalco, la perpetuazione di un repertorio, di uno stile, di un tracciabilità condivisa. A patto però che ci si rifaccia alla prassi musicale della tradizione cui ci si riferisce o a cui si appartiene. Se invece ci si rifà a tradizioni o tendenze musicali altre, e nel contempo si rinuncia a sottolinearle con originalità, ecco che la marcatura si fa subito più generica, rendendo più difficile ed evasiva la tracciabilità. 

 

Una delle ricorrenze o dei leitmotiv che hanno accompagnato l’intera carriera di Guccini è stato il disagio nei confronti del titolo di cantautore. L’asciuttezza e l’umiltà contadina mal si adattavano alla retorica e alla consapevolezza che il ruolo sembrava richiedere. Prima ancora che a un intralcio di natura personale s’era di fronte a un dissidio di fondo, la difficile sovrapposizione di due diverse matrici. Come conciliare l’osteria, Pavana, l’incessante richiamo alle tradizioni e al mondo contadino, con la sottolineatura individuale e poetica – artistica – che il ruolo di cant-autore presupponeva e pretendeva? Per farsi cantore popolare a tutti gli effetti Guccini avrebbe dovuto rinunciare all’autorialità, al segno individuale, e farsi invece interprete, privilegiando la trasmissione anonima e il calco della tradizione. Ciò che beninteso avrebbe significato contravvenire all’assunto stesso del cant-autore (un assunto che Bob Dylan, da par suo, non s’è mai fatto scrupolo di infrangere, si pensi soltanto al ciclo di incisioni sui song americani che l’ha impegnato negli ultimi anni). Col problema supplementare che, musicalmente parlando, s’era discosti dal proprio baricentro (fiasco e osteria a parte). A me questo pare uno snodo importante della poetica di Guccini. Chi può appoggiarsi a una matrice musicale più solida o attinente – il De André della forma ballata e dell’indagine mediterranea oppure il Dylan del blues e dei gospel, ambiti che possono essere facilmente rivendicati sul piano identitario e culturale – ha meno necessità di sottolineare il legame e il vincolo con la tradizione, perché la porta implicitamente con sé. Meno deve preoccuparsi di perpetuare la tradizione e insieme di cambiare il mondo. 

 

Sul finire degli anni ’90, desideroso di trovare degna collocazione al suo archivio personale – documenti sonori, la biblioteca di libri e di riviste, un’ampia collezione di strumenti musicali raccolti in giro per il mondo – l’etnomusicologo Roberto Leydi, grazie alla lungimiranza di Franco Lurà, allora direttore del Centro di Dialettologia e di Etnografia di Bellinzona, donò allo Stato del Canton Ticino il frutto di tanti anni di lavoro al fine di creare quello che sarebbe poi diventato il Fondo Roberto Leydi. Sempre nel documentario L’amata genitrice di Victor Tognola, il musicologo Carlo Piccardi rivela come Leydi si risolse a collocare l’archivio in Svizzera perché temeva che le sue carte potessero in qualche modo finire oggetto di strumentalizzazione politica. In tutt’altro contesto è quanto successe anche a Ivano Fossati, il quale, dopo aver prestato una canzone alla politica – La canzone popolare, per la campagna dell’Ulivo del 1996 – sentì di dover rinunciare a cantare quella canzone in pubblico, perché il farlo avrebbe alimentato il sospetto che stesse tenendo non un concerto, ma un comizio:

 

Alzati che si sta alzando

La canzone popolare

Se c’è qualcosa da dire ancora, ce lo dirà

Se c’è qualcosa da imparare ancora, ce lo dirà.

 

 

La canzone può essere tante cose. Un’arma d’offesa o un balsamo per le orecchie. Un bel modo di stare assieme ma anche uno strumento per far sentire la propria voce, chiedendo giustizia. Francesco Guccini della canzone ha indagato ogni piega. Nonostante o forse proprio in virtù dell’attrito di cui si diceva – la necessità di richiamarsi alla tradizione e insieme quella di agire sul mondo – le sue canzoni hanno saputo cogliere e raccontare al meglio la transizione ch’era in atto nella società. Il richiamo alle origini (Pavana, ma anche la scrittura) in Guccini negli anni s’è fatto vieppiù urgente. E quanto più questo richiamo si faceva pressante, tanto più la musica e le canzoni sono finite in secondo piano, fino ad essere abbandonate e osservate, oggi, come un lontano ricordo. Era forse inevitabile. L’anima contadina e l’uomo di penna hanno finito col prevalere sul cantante. Vale sicuramente per Guccini, un po’ meno per noi, che quelle canzoni continuiamo ad ascoltarle ripensando a quando le sentimmo la prima volta, dieci, venti, trenta, quarant’anni fa (diciamo anche cinquanta, per chi già c’era), e in quali circostanze, se soli, in coppia, con delle cuffie da paura calcate sulle orecchie oppure al mare, su o giù di corda, spaparanzati sul divano, felici, inquieti o soltanto mogi, incazzati neri, insomma, nei vari modi in cui si sta al mondo. Consapevoli però di aver avuto tutti qualcosa in comune: quel famigerato eskimo, innocente o meno, che alcuni indossano ancora come se niente fosse, e che altri invece hanno pigiato a forza dentro un armadio, accanto al blazer di lana blu e a un tot di abiti smessi da cui risulta però tremendamente difficile separarsi.

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