Decolonizzazione e studi classici / Was Athena black?

26 Marzo 2021

Nel mese di marzo del 2019 una cinquantina di studenti impedì al pubblico di accedere all’anfiteatro della Sorbona in cui avrebbe dovuto svolgersi una rappresentazione delle Supplici di Eschilo. I manifestanti della “Ligue de défense noire africaine” e di altre associazioni di studenti di colore protestavano contro la pratica razzista del blackface a cui era ricorso il regista, il grecista Philippe Brunet, dipingendo di nero il volto delle attrici bianche che impersonavano il coro delle Danaidi. Vi è una certa ironia nel fatto che la protesta degli studenti di Parigi fosse rivolta proprio contro la rappresentazione delle Supplici. La tragedia di Eschilo gioca infatti un ruolo chiave nel libro di Martin Bernal, Black Athena, che è un tentativo di provare le origini afroasiatiche della civiltà greca e di contestare il modello “ariano” che presuppone un’origine esclusivamente indoeuropea dei Greci. Il mito delle figlie di Danao, descritte da Eschilo come “nere”, che fuggono dall’Egitto per sottrarsi al matrimonio con i loro cugini e trovano rifugio ad Argo, conterrebbe secondo Bernal un ricordo della colonizzazione egizia della Grecia continentale avvenuta nel II millennio prima dell’era volgare. Nel difendersi dalle accuse di razzismo Philippe Brunet adottò una posizione in linea con le tesi di Black Athena: “Mi sono sempre impegnato – dichiarò a Le Monde – nel mostrare nell’eredità greca l’importanza dell’Africa. Un discorso che non era molto apprezzato dai grecisti indoeuropeisti”. 

 

La pubblicazione nel 1987 del primo dei tre volumi di Black Athena provocò un vero e proprio terremoto nel mondo sonnolento degli studi classici. Il titolo a cui Bernal aveva pensato era African Athena, ma l’editore impose il titolo di Black Athena con questo incontrovertibile argomento: “Blacks no longer sell. Women no longer sell. But black women still sell!”. Ci aveva visto bene: il libro riscosse un enorme successo e raggiunse un pubblico ben più vasto della cerchia degli accademici e degli specialisti, penetrando persino nella cultura popolare. Prova ne è il riferimento a Black Athena nell’omonima canzone del gruppo napoletano Almamegretta, i cui versi recitano:

 

“i' songo l'ommo niro 

ca vene 'a dint' 'a jungla

songo 'o figlio 'e lumumba 

si nun me saje piglia' songo 'na bomba

e si nun saje ca è 'a casa mia 

ca è accumminciata 'a storia 

rinfriscate 'a memoria”. 

 

E il ritornello ripete: “look back look back Athena was black”. Il testo degli Almamegretta è interessante perché mostra come nella cultura popolare il libro di Bernal sia stato associato alle tesi afrocentriche che fanno dell’Egitto “nero” e più in generale dell’Africa la culla della civiltà umana. 

In realtà l’Atena di Bernal non è solo black e africana, è anche semitica e vicinorientale. La tesi centrale del suo lavoro si può riassumere piuttosto agevolmente. Secondo Bernal negli ultimi duecento anni si sarebbe imposto nell’ambito degli studi classici un modello “ariano” che spiega l’origine della civiltà greca come il risultato di una invasione dal nord di popolazioni indoeuropee parlanti greco che avrebbero assoggettato le popolazioni locali, portatrici di una cultura egea, pre-greca. A questo modello Bernal intende opporne un altro che si rifà alla visione antica delle origini della Grecia.

 

Il suo modello antico aggiornato suppone che le storie antiche, incluse le tradizioni mitiche, sulla colonizzazione egizia e fenicia della Grecia contengano una base di storicità. La cultura greca sarebbe il prodotto della fusione di queste culture con quelle locali avvenuta nella prima metà del II millennio. Bernal non nega l’esistenza di invasioni di popolazioni indoeuropee nella penisola balcanica, ma le situa molto più indietro nel tempo, nel IV e III millennio. E in ogni caso queste popolazioni parlavano una lingua indoittita che non può spiegare la presenza di elementi non indoeuropei nel vocabolario greco di epoca storica. Il modello antico rivisto permetterebbe invece di spiegare questi elementi a partire dall’egizio e dalle lingue semitiche. Come si è passati dal modello antico al modello ariano? Questa è la domanda a cui Bernal si propone di rispondere nel primo volume, che è anche quello che ha provocato la deflagrazione più forte nell’ambito degli studi classici a causa delle sue implicazioni politiche. 

 

Per ammissione dello stesso Bernal il libro ha infatti un duplice intento, scientifico e politico. Lo scopo conoscitivo è di allargare il campo della ricerca, quello politico di “sminuire l’arroganza culturale europea”. Quest’ultima frase, che oggi ci pare scontata, deve essere situata nel contesto culturale in cui il libro è nato. Nel 1978 Edward Said pubblica Orientalism, il cui effetto nell’ambito degli studi di orientalistica è paragonabile a quello avuto da Black Athena nell’ambito di quelli classici. Gli effetti della decolonizzazione, delle lotte per i diritti degli afroamericani negli Stati Uniti, del femminismo, dei movimenti per i diritti degli omosessuali, si fanno sentire negli Stati Uniti anche nell’agenda degli studi umanistici, persino in quelli dell’antichità classica per natura profondamente conservatori.

Nello stesso anno in cui esce Black Athena, il filosofo Allan Bloom pubblica The Closing of The American Mind. Saul Bellow nella prefazione lo definisce “a meditation on the state of our souls, particularly those of the young, and their education”. Si tratta di un attacco conservatore contro l’università americana, responsabile di favorire un livellamento democratico degli studenti, anziché promuovere un sano elitismo. A determinare la chiusura della mente americana sono, secondo Bloom, gli intellettuali nietzschiani di sinistra, oltre che la musica rock e pop, la cultura nera, il femminismo, ecc.

 

In questi stessi anni scoppiano polemiche infuocate attorno a personaggi a dir poco discutibili, come Leonard Jeffries, professore di Black Studies alla City University di New York, afrocentrista sostenitore di teorie pseudoscientifiche, come quella secondo cui la maggiore concentrazione di melanina sarebbe all’origine della superiorità fisica e intellettuale dei neri sui bianchi. All’interno della galassia afrocentrista circolano in effetti teorie cospirazioniste, sentimenti antisemiti, spiritualità new age, fake news strampalate, come quella che attribuisce agli antichi egizi l’invenzione del telefono, con buona pace di Meucci. Queste sono tutte spie della guerra culturale che imperversa per tutti gli anni ’80 e ’90 nell’accademia americana tra conservatori e “liberals”, ortodossi e post-moderni. È in questo contesto che si sviluppò l’aspro dibattito attorno a Black Athena.

 

 

Gli specialisti rivolsero severe critiche alle conclusioni del lavoro di Bernal e ne contestarono molti aspetti: dall’attendibilità delle sue etimologie all’uso disinvolto e selettivo delle fonti, dalla confusione tra categorie linguistiche e categorie etniche all’assenza di un metodo storico solido. Alcuni accademici non hanno perdonato all’autore di Black Athena di non essere un classicista di professione. Bernal era un esperto di storia politica della Cina moderna, professore di Government Studies a Cornell University, e il suo interesse per la storia del Mediterraneo antico e per lingue semitiche erano nato alla metà degli anni ’70 in seguito a una crisi personale e politica. Come in tutte le guerre, anche in quella scoppiata attorno a Black Athena, i due avversari finirono per influenzarsi a vicenda. E così anche il mondo dei classicisti, pur avendo liquidato l’apporto scientifico del libro, ne ha di fatto recepito, almeno in parte, le istanze politiche. Persino in una lontana provincia dell’Impero come l’Italia, le questioni sollevate da Bernal hanno trovato una certa eco.

 

Nell’introduzione al primo volume della Storia greca di Einaudi, intitolato I Greci e noi (1996), si legge: “Con quale ostinata presunzione potremmo mai chiedere ai Cinesi o agli Indiani di riconoscersi nei Greci, implicandone l’identità con un ‘noi’ tutto europeo, senza offrire in cambio il desiderio di identificarci, noi, nella loro antichità? Se quella è la nostra immagine dei Greci, se quello è il ‘loro’ ruolo nella storia universale che vogliamo costruire, riducendo la storia universale a storia dell’Europa e dell’espansione europea, allora davvero i Greci sono (o rischiano di diventare) il primo bersaglio di una cultura destinata a soccombere”. È quindi innegabile che, al di là delle critiche sull’impianto metodologico e sulle singole prove fornite da Bernal, Black Athena abbia contribuito a cambiare il modo di considerare e studiare la civiltà greca. Almeno in ambito scientifico. Molto meno, mi pare, nella cultura popolare.

 

Se il mondo accademico ha chiuso i suoi conti con il libro di Bernal, le questioni politiche che esso pone non sono affatto superate. Anzi, esse rimangono estremamente attuali. Gli studi classici, al pari di altre discipline umanistiche, continuano a essere accusati di contribuire al mantenimento di strutture e atteggiamenti razzisti, colonialisti e suprematisti. La questione è particolarmente sensibile negli Stati Uniti dove perdura uno spaventoso razzismo di Stato e dove i movimenti di destra, la cosiddetta Alt-Right, si rifanno alle radici greche e romane della cultura europea per giustificare il suprematismo e il separatismo bianco e per promuovere uno stato etnico popolato solo di americani di origine europea. Un movimento particolarmente presente nei campus delle università americane negli anni della presidenza Trump è stato Identity Evropa, che nel 2019 ha cambiato il nome in “American Identity Movement”. Il movimento ammette tra le sue fila solo persone “of European, non-Semitic heritage”. Nei loro manifesti campeggiano immagini della statuaria greca con slogan del tipo “Make America Beautiful Again”. Che non si tratti solo di movimenti più o meno folkloristici, lo si è visto lo scorso sei gennaio, quando questa galassia di gruppi neonazisti, incitata dal presidente uscente e senza che la polizia federale intervenisse, si è riversata nel Campidoglio. Sarebbe però un errore pensare che le difficoltà in cui si trovano i “Classics” nel panorama accademico statunitense, siano una questione tutta americana. Sono una questione anche europea che ci riguarda da vicino.

 

In occasione della contestazione alle Supplici di Eschilo alla Sorbona, Alain Tallon, decano della facoltà di lettere di quell’ateneo, indignato per la protesta, dichiarò: “La sola cosa che possiamo fare in quanto universitari è riflettere a quale risposta dare a questa incomprensione”. Le risposte date dai classicisti hanno spesso alimentato l’incomprensione anziché appianarla. Lo dimostra il dibattito infuocato che ebbe luogo a New York nel 1996 davanti a una platea composta soprattutto di neri, in cui si affrontarono da un lato Bernal e John Henrik Clark, uno dei padri fondatori dell’afrocentrismo, dall’altro i classicisti Mary Lefkowitz e Guy Rogers, curatori del volume Black Athena Revisited. Guardando la registrazione del dibattito su youtube si percepiscono il disagio e la tensione di Lefkowitz e Rogers, le cui argomentazioni e dimostrazioni scientifiche sono travolte dal risentimento e dall’emozione palpabili che agitano il pubblico.

 

Un dibattito simile si è svolto alla Vrije Universiteit di Amsterdam nel giugno del 2015 in seguito alle accuse rivolte a un professore di greco e a uno di storia antica di diffondere l’ideologia del suprematismo bianco. Sotto accusa era anche il manuale di storia greca su cui gli studenti delle università olandesi studiano. Anch’esso veicolerebbe pregiudizi sulla superiorità della cultura europea, farebbe della Grecia classica la culla della filosofia, della scienza e della democrazia e non riconoscerebbe il debito dei Greci nei confronti dell’Africa o, nei termini del discorso afrocentrico, il furto della sapienza africana da parte dei Greci. Come il dibattito del 1996 tra Bernal, Clark, Lefkowitz e Rogers, anche quello di Amsterdam sembra un dialogo tra sordi o, per lo meno, un dialogo che avviene su due livelli diversi. In entrambi i casi il tentativo degli studiosi di mantenere il confronto a un livello filologico, legittimo, anzi doveroso sul piano scientifico, fallisce di fronte a una richiesta altrettanto legittima da parte degli studenti di colore di giustizia sociale, di un pieno riconoscimento della dignità culturale delle società non europee, di una decolonizzazione del sapere e dell’insegnamento accademico.

 

I due dibattiti non sono avvenuti in uno spazio neutro. Negli Stati Uniti, e, in forme diverse, anche in Europa vige un razzismo istituzionalizzato. Anche in Europa i cittadini di colore sono esposti più dei bianchi alla violenza fisica dello Stato, oltre che alla violenza simbolica della società tutta. Il leader di uno dei partiti di estrema destra olandesi, che alle elezioni europee ha ottenuto il 10 per cento, manda tweet apertamente razzisti ai suoi elettori, infarcisce i suoi discorsi di riferimenti a Rosenberg e altri ideologi del nazismo, pretende di difendere gli interessi e il patrimonio culturale dei popoli “boreali” e in parlamento tiene discorsi in latino. È in questo contesto che gli studenti di colore contestano l’insegnamento eurocentrico della storia antica. L’afrocentrismo, con la sua ricostruzione mitologica della storia e con le sue teorie pseudo-scientifiche, si oppone, con forza uguale e contraria, all’eurocentrismo che gli studi classici hanno alimentato. 

 

Come si esce da questa impasse? Non lo so. So solo che la conoscenza può essere uno strumento di oppressione e uno strumento di liberazione. La conoscenza del greco e del latino è stata in passato e, talvolta lo è ancora, al servizio degli oppressori. John Calhoun, vicepresidente degli Stati Uniti dal 1825 al 1832 disse che “avrebbe creduto che un negro è un essere umano e deve essere trattato come un uomo” solo “quando avesse trovato un negro che conoscesse la sintassi greca”. Quanto all’Italia, patria degli Azzeccagarbugli, non c’è bisogno di insistere sul legame tra “latinorum” e oppressione di classe e di genere. Solo se lo studio del greco, del latino, della storia antica, è un mezzo di emancipazione e soprattutto di auto-liberazione, solo allora può diventare davvero inclusivo. Solo se la conoscenza non è intesa come possesso e come rispecchiamento di un’identità, solo allora essa diventa un fattore di integrazione. 

Il grande grecista francese Guillaume Budé scrisse a Erasmo il primo febbraio del 1519: “Sarebbe un’ingiustizia che, nell’immenso oceano dell’Antichità, che appartiene a tutti secondo il diritto naturale, un solo uomo si permettesse di pescare quel che vi è di più bello e negasse questo diritto a tutti gli altri”. L’oceano dell’antichità non è un “mare nostrum”, è qualcosa di più vasto in cui accanto alla “nostra” tradizione classica, ce ne sono molte altre.

 

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