Vite istantanee / Microracconti, teoria e pratica

23 Settembre 2018

Andrés Neuman pubblica con Vite istantanee (Sur 2018) una raccolta di microracconti alla cui coda pone un'ampia riflessione sui fondamenti di questo sotto-genere narrativo, permettendo quindi, grazie a tale abbinamento, una verifica immediata della teoria; e più indicando, tra i numerosi sudamericani, anche qualche autore italiano, induce a un ampliamento del canone nazionale in questo specifico ambito. Il quale, se il racconto è sintesi linguistica e strutturale (con “niente di troppo, nessuna scena, nessuna digressione, nessun particolare”), dovrebbe esserne con ragione la quintessenza. La tentazione prima di circoscrivere il microracconto dentro il racconto sulla base del numero di pagine è ovvia: devono essere meno. Di quanto però resta aleatorio, e lo stesso Neuman, autore peraltro di racconti tradizionali e di romanzi, presenta esempi che vanno dalle dieci pagine alle quattro, otto righe (Sproporzione, L'appuntamento della vita). Il microracconto d'apertura, che dà anche il titolo alla raccolta, è infatti a sua volta fatto da una serie di altri microracconti potenzialmente autonomi. “Signore distinto, non grasso, cerca donna semplice, preferibilmente di classe, laureata, sicura del fatto suo, rossa, spigolosa, esperta di scacchi, per primo contatto senza nessun impegno”: così il primo della composizione di questi annunci matrimoniali o di incontri, tutti giocati sulla parola esatta e sullo humour di pochi tratti, che rivelano in filigrana il carattere degli scriventi.

 

Ancora una volta dunque se il racconto “parte da ciò che viene detto e continua con ciò che viene taciuto”, di certo il microracconto offre ancor più spazio alla collaborazione immaginativa del lettore, ingaggiando con esso provocazioni continue all'insegna paradossale della massima riduzione come massima apertura. Concentrazione ermetica e “centralità del segreto” paiono tratti determinanti del genere e nel contempo sfida e stimolo alle integrazioni o divagazioni di chi legge.

A proposito di generi Neuman introduce due filoni principali: il neofantastico, che vede Cortázar quale grande esponente novecentesco e Maupassant quale antesignano; il metaletterario dove eccellono Borges e Bolaño, nonché lo “sfruttatissimo modello ellittico” (Cechov, Hemingway, Carver) e, aggiungiamo, dominante nelle scuole di scrittura di marca statunitense, nonché nell'editoria italiana, con i mille relativi epigoni. Al modo di un piccolo buco nero il microracconto, attraverso notevoli esercizi di stile, può inoltre appropriarsi di altri generi codificati come brillantemente fa Neuman. Ad esempio della fantascienza riscritta in chiave virtuale (Fahreneit. com), del romanzo epistolare – Lettere tristi –, uno dei pezzi migliori che, sfruttando proprio il silenzio e il fraintendimento possibili con la comunicazione a distanza, delinea la carriera di due artisti lontani, un uomo e una donna, ribaltata fino a una chiusa forse drammatica. O addirittura con il Noir cubista che si può riportare per intero:

 

Entrai di profilo nella mia stanza in pendenza. Spensi metà lampadina e poi l'altra metà. Mi sembrò di udire un fruscio posteriore. Ma nella sala non ero ancora entrato. O sì, dipende. Nel dubbio, gridai. La mia voce si alzò, toccò il soffitto, rimbalzò gialla come una palla da tennis e mi tornò in bocca. Logicamente, nessuno poté salvarmi. Il mio cadavere giaceva in un angolo della stanza. Dall'altra stava scappando via il piede sinistro dell'assassino. Cosa ci faceva la lampada ancora accesa? Questo è il problema.

 

 

Il microracconto sembra dunque naturalmente portato all'ibridazione (e probabilmente alla distorsione e alla parodia), anche con il poema in prosa e la lirica, il saggio breve, l'aforisma, forse in virtù del suo essere assolutamente consentaneo all'orizzonte d'oggi che tutto frammenta, copia e incolla, e fa girare (di qui un po' sprezzantemente il neologismo di “twitteratura”). Tuttavia Neuman, che pure, come visto, si misura assai con i generi liofilizzandoli, non li ritiene l'elemento più importante per i microracconti, privilegiando invece lo spontaneo e fulmineo generarsi e sondare “un certo punto di vista, un determinato ritmo, una sintassi”, in modo tale che sia poi difficile distinguere la tripartizione del racconto classico – inizio, sviluppo, scioglimento –, “impossibile rendere ciò che è introduzione, qual è il nodo e se c'è scioglimento”. Un'esemplificazione a partire dalla prima persona e dalla focalizzazione ristretta si trova nel Monologo della guardona, la cui giornata, scandita dagli inizi di capoversi “E quando […] E quando”, passa nell'osservazione delle vite altrui, dalla piccola folla davanti alla chiesa, in particolare di una ragazza a cui viene palpeggiato il sedere, fino a casa con il litigio dei genitori, nella convinzione che a lei “non succede mai niente”.

 

Si diceva anche dell'ampia galleria di anticipatori citata da Neuman; tra questi, in cima al filone metaletterario, viene posto Giovanni Papini. Stella primo-novecentesca oggi assai offuscata, scrittore poligrafo e non certo amabile per le posizioni nazionaliste e guerrafondaie, finite, come spesso in Italia, con un'ostentata conversione religiosa, ma anche autore perlomeno dell'ottimo Gog (1931). Un milionario si permette di incontrare personaggi famosi – Freud, Lenin, Edison –, che in brevi monologhi disvelano se stessi, e di invitare stravaganti accademici (La cattedra di ftiriologia), architetti, scultori, filosofi (Caccavone) e teorizzatori della più varia specie (La malattia come medicina) in maniera da poter satireggiare la cultura e le mode del tempo non di rado con umorismo nero (La bottega di Ben-Chusai). Lungo questa scia vale la pena citare Rodolfo Wilcock con La sinagoga degli iconoclasti (1972), fatto di estrose e fittizie biografie di folli inventori, pensatori e ciarlatani, come quell’Yves Lalande, produttore del romanzo su scala industriale, che mette su una vera e propria fabbrica basata sui principi di automatizzazione, classificazione e combinatoria, con reparti ben organizzati, dall'“ufficio intrecci base” e delle “storie individuali e dei destini” fino a quelli dello stile e dei titoli (ma già Papini aveva scritto L'industria della poesia). Oggi sono venuti Paolo Albani con i suoi Mattoidi italiani (2012), produttori di idee e di libri “esistiti o esistenti”, Cavazzoni (Vite brevi di idioti, Feltrinelli 1994) e altri stralunati basso-padani. Eugenio Baroncelli dal Libro delle candele. 267 vite in due o tre pose (Sellerio, 2008) in poi si è dedicato a “simulacri di biografie”, lampeggianti e brevissime, di personaggi, soprattutto letterari, o di qualche semi-anonimo conoscente. Manganelli è stato un caso particolare con Centuria (1979), “libriccino sterminato” di cento romanzi da una pagina e mezza, dalla mossa talvolta quotidiana che sfocia rapidamente nel metafisico e sempre ad alta temperatura d'invenzione linguistica.

 

Il versante  del microracconto più interfacciato con la comunicazione odierna potrebbe essere ben rappresentato da Woobinda (Castelvecchi, 1996) di Aldo Nove, in cui la prima persona, piatta come uno schermo televisivo, ridotta al nome, al segno zodiacale, all'età e talvolta alla professione, genera coerentemente la sua estroflessione di merce (“Ho ammazzato i miei genitori perché usavano un bagnoschiuma assurdo, Pure & Vegetal”) e con finali spesso interrotti (“dovevano capire che t”). Ancor prima del decisivo avvento della Rete già l'autore diceva: “Il mio scopo era quello di riportare il ritmo dello zapping in letteratura, scrivere televisivamente ciò che è breve, veloce e spezzato. È stato un misto di scelta letteraria e … come dire... di gratificante comodità, perché così si vive e così si parla.”

Dunque una tradizione letteraria laterale ed eccentrica ma ben presidiata, che ancora oggi può forse sperimentare in un genere non del tutto codificato e, pare, poco amato dagli editori (si veda l'intervista a David Thomas proprio su Doppiozero), alla perenne ricerca più che di sguardi, forme e linguaggi, di trama e di conferme al panorama esistente. 

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