Case Matte, teatro negli ex manicomi

12 Novembre 2015

Teatro documento violento quanto umano è Mombello – Voci da dentro il manicomio, realizzato da Teatro Periferico in collaborazione con la compagnia delleAli. Dopo due anni di repliche in scuole, caserme o carceri, lo spettacolo nato dalle storie di malati, medici, infermieri, assistenti sociali, che vissero e lavorarono all’interno dell’“Antonini”, l’ex ospedale psichiatrico di Mombello, frazione di Limbiate, vicino Milano, è stato il passo attorno a cui si è costruito Case Matte. Il cammino nei vecchi manicomi (questi dinosauri, come li ha definiti Giuliano Scabia nel convegno Case matte. Il teatro necessario), oggi chiusi e in molti casi minacciati dalla speculazione edilizia, ha toccato, tra settembre e ottobre, Limbiate, Genova, Reggio Emilia, L’Aquila, Aversa, Roma, Volterra e Firenze. Privo di finanziamenti pubblici, il progetto si è retto con il sostegno di associazioni, gruppi e comuni cittadini attraverso un crowdfunding online, insieme al contributo della Fondazione Cariplo, e ha vinto il Premio Rete Critica 2015, sezione organizzazione/progettualità. “Uno stimolo a continuare sulla strada intrapresa – commenta Paola Manfredi, regista e direttrice artistica di Teatro Periferico, di ritorno da Vicenza e dal convegno Blasphemìa. Il teatro e il sacro del 7 e 8 novembre, al termine del quale è stato assegnato il Premio – per noi e per tutti coloro che lottano quotidianamente per salvare la memoria dei luoghi e dei malati”.

 

Mombello, ph. Domenico Semeraro

 

Insieme a Mombello, compagni di viaggio sono stati i Chille de la Balanza (compagnia che risiede nell’ex ospedale psichiatrico di San Salvi a Firenze, con cui è stato ideato l’intero tour teatrale), che hanno passeggiato in C’era una volta... il manicomio, teatro di narrazione tra memoria ed eredità a partire dalle realtà manicomiali; Gigi Gherzi ha letto, raccontato e improvvisato orientandosi con l’Atlante della città fragile, il suo libro edito da Sensibili alle foglie: pericolose avventure, strazi sottili, confessioni e canzoni di esistenze che portano al parco del più grande ex ospedale psichiatrico della città. E poi con tante persone, associazioni ed enti che, in modi diversi, operano per salvare dall’oblio i reclusi nei manicomi italiani, dando voce a tutti quelli che subirono veri e propri crimini di pace.

 

 

Il paese nel paese

 

Alle porte di Milano è esistito per 130 anni, dal 1865 al 1995, uno dei più grandi manicomi d’Europa. Quasi 100.000 pazienti sono passati dall’“Antonini”. Un paesaggio umano, una geografia poetica che per Teatro Periferico comincia e finisce nell’oscurità, istituzione totale che rende tutti ugualmente invisibili, a se stessi e agli altri, matti, infermieri, attori, spettatori. Non (poter) vedere, sottrarci allo sguardo, rende concreto il vuoto e il buio dell’infermità e della dimenticanza. Mombello è un allora e un dentro che la compagnia residente dal 2009, grazie al Progetto Etre, nel teatrino liberty di Cassano Valcuvia – piccolo centro in provincia di Varese al confine con la Svizzera, in una zona circondata da laghi e montagne – abita per il tramite di un accurato impegno nella ricostruzione della memoria e nella restituzione artistica, in un processo sociale condiviso.

“Abbiamo preparato con l’aiuto di una formatrice, Beatrice Carmellini, un gruppo di cittadini volontari che hanno intervistato testimoni diretti del periodo in cui il manicomio di Mombello era attivo: infermieri, assistenti sociali, medici, pazienti” spiega Manfredi. “La metodologia utilizzata è quella della scrittura biografica concepita da Duccio Demetrio, che nel nostro caso non prevedeva la produzione di un libro-raccolta di storie personali, bensì proprio la costruzione di uno spettacolo teatrale”.

 

Mombello, ph. Domenico Semeraro

 

 

 

Ogni luogo è ‘unico’, così come ogni persona è un ‘ciascuno’: per questo la compagnia lascia nella sua alterità ciò che è altro da sé, evitando l’impazienza di assimilarlo a ogni costo, di colonizzarlo con il proprio senso, la propria visione o interpretazione. “Da tutte le interviste raccolte ho preso ogni azione, ogni parola detta e riferita dagli intervistati” prosegue Manfredi. “Insisto, non ho voluto selezionare le parole e le azioni più ‘belle’ o più ‘efficaci’ o più ‘poetiche’, ma le ho tenute tutte, indistintamente, per dare un quadro il più possibile completo della cruda realtà manicomiale. In Mombello niente è inventato, niente è frutto di fantasia. Persino i suoni, i rumori e i silenzi, sono entrati nel lavoro, sia nella banda sonora curata da Luca De Marinis (non ci sono musiche nello spettacolo), sia in quello che accade in scena”.

 

Mombello, ph. Domenico Semeraro

 

Echi di chiavi suscitano una luce fioca, smunta, su un corridoio stretto, tre porte sorvegliate da due infermieri e poco dopo da un’assistente sociale, barlume di solidarietà, tolleranza e comprensione nella notte dei lunghi lamenti. Forse la personificazione stessa dell’empatia, della partecipazione dell’azione teatrale alla natura del manicomio. I matti sono ancora incorporei, presenze assenti, ossessioni uditive: i contenuti in cella e i contenuti delle celle. Ascoltiamo Mombello con gli occhi bassi, colpevoli, come per vergogna del destino che ci ha messo da questa parte delle porte: la compresenza reale nel medesimo luogo e lo scontro tra la scelta nostra (volontaria) di essere qui e la detenzione altrui (involontaria) è la chiave di una partecipazione emotiva che è diversa dall’immedesimazione catartica, è la presa di coscienza di un alfabeto di richieste di aiuto che non abbiamo saputo riconoscere prima e al cui annientamento ora assistiamo immobili e impotenti.

 

“Non può esserci un intento a priori, un’operazione a monte: voglio denunciare questa condizione, voglio scioccare il pubblico…” precisa la regista. “C’è prima di tutto la materia, cioè le testimonianze, le storie personali, i vissuti dei ‘ciascuni’; e sono tutti diversi, tutti con le loro contraddizioni, con la loro mescolanza di sofferenza, gioia, voglia di vivere, disperazione, desiderio di rivincita, orgoglio per la propria professione… Ho capito che quando non hai un prodotto preconfezionato, anche il pubblico, quello vero, quello non irreggimentato, quando lo incontri è un’incognita, una sorpresa. Personalmente, non mi sarei mai aspettata la presenza di così tanti giovani, universitari per lo più, con la loro fame di emozioni, che ti vengono a dire: abbiamo voglia di commuoverci per le vite degli altri, non solo per le nostre”.

 

 

Cosa rimane dei matti

 

Si apre una porta, uno spiraglio sui no farmacologici che annullano qualsiasi capacità di volere, e da ombre dietro i vetri i matti diventano ciglia aggrottate, tic e camminate spezzate, nella luce verde come i muri ora scrostati, vandalizzati, dell’ex ospedale psichiatrico milanese. Le donne con la divisa grigia, gli uomini in maglietta bianca, scarpe grosse ai piedi, scarpe che sono ciabatte, perché qui non c’è il fuori, l’esterno, l’aperto, le chiavi arrivano dappertutto e chiudono ogni via e vita oltre la malattia. Si guardano, ma non si vedono, è un’epifania ellittica perché questo gruppo di speranze disintegrate rappresenta altro da quello che appare nella sua superficie dissonante: “andare da qualche parte, uscire e basta, perché ci hanno abbandonato”.

 

Mombello, ph. Domenico Semeraro

 

“Ho selezionato una serie di ritratti di internati fatti dal pittore Gino Sandri, anch’egli ricoverato e morto a Mombello”, chiarisce Paola Manfredi a proposito del corposo lavoro fatto con e sugli interpreti, Giorgio Branca, Elisa Canfora, Antonello Cassinotti, Alessandro Luraghi, Laura Montanari, Raffaella Natali, Loredana Troschel, Lilli Valcepina, Dario Villa, sorprendenti per sensibilità, precisione e cura della naturalezza. “Poi ho chiesto agli attori di scegliere alcuni di quei volti, di quei corpi disegnati, alcune di quelle posture, e a partire da quelle scelte hanno cercato una camminata, una parlata, un gesto ossessivo. Ma tutto è come scaturito da sé, non c’è stata una decisione a tavolino. Ogni volto ritratto era una maschera che li conduceva a un carattere, a una personalità che dovevano svelare e far vivere. Hanno così creato personaggi che sono in realtà la sintesi di più persone realmente esistite e che a Mombello hanno vissuto, sofferto, atteso”.

 

Il dentro si capovolge nel davanti al secondo atto di questo documentario vivente, presepe tragico e criminale di natività lasciate al freddo e al gelo dei propri fantasmi. I matti adesso sono tutti nel corridoio, suddivisi fra un televisore, un tavolo, una panchina, un letto, degli armadietti. In mezzo sta lo sportello dell’accettazione, la portineria, ai lati i momenti del lavarsi, del mangiare, del dormire, dello stare in giardino. Si sfoglia un giornale sbiadito, un numero di “Oggi” degli anni ’50-’60. Il dottore passa e si ferma solo per farsi strapazzare il camice dall’infermiera. La vita degli altri scorre, quella degli internati è una crisi continua, punteggiata di pochi sorrisi, che rendono il gelo ancora più pungente. E quando anche le parole vengono meno, ci pensa la televisione, le soap opera, una agorà refugium peccatorum, una giostra di anestetiche luci colorate che riesce a riappacificare con gli ospiti nella testa, eccetto quelli che hanno bisogno di essere legati nudi alla rete del letto per ritrovare a forza un’incostante tranquillità.

 

Nell’allucinazione verde del mattino, ragione di vita per gli infermieri e ingiustizia di morte per i reclusi, il processo di mediazione tra passato e presente e tra Storia maiuscola e ufficiale e storia minuscola e privata, è una voce di dentro restituita alla dignità e alla responsabilità dell’ascolto. “La testimone più importante – conclude Paola Manfredi – è stata Emilia Gandini, che purtroppo ci ha lasciato ormai quasi due anni fa. Quando l’ho conosciuta e intervistata viveva in una comunità in Piemonte: era lucida, pur avendo vissuto tutta la vita a partire dall’età di tre anni a Mombello. Emilia non era matta, ma figlia di una madre povera in tempo di guerra e dunque come tanti era finita in manicomio per necessità. Dentro, ha subito molte delle cose che si vedono nello spettacolo, vere e proprie torture. La sua richiesta, fattami dopo avermi raccontato la sua storia, è stata: “Dìghel a tücc”, raccontalo a tutti. Questo ho cercato di fare”.

 

 

Per saperne di più:

Renzo Francabandera, Da Mombello a Case Matte: il percorso al buio dentro i manicomi di Teatro Periferico, PAC.

Elena Scolari, Voci da Mombello, PAC.

Progetto Case Matte. Un viaggio teatrale attraverso otto ex manicomi italiani, Ateatro.

Mario Bianchi, Case Matte: per non dimenticare gli ergastoli bianchi. Intervista a Teatro Periferico, Klp.

Francesco Guerroni, Dentro il manicomio, Teatro402.

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