Romaeuropa festival / L’Orestea mutila di Romeo Castellucci: 2016-1995

Orestea: Roma, 2016

 

L'Orestea di Eschilo è l'unica trilogia tragica giunta grossomodo per intero fino a noi, divisa nelle tre parti di Agamennone, Coefore, Eumenidi. Certo amputata del suo presumibilmente importante quarto pezzo, il dramma satiresco che andava a chiudere le tetralogie in gara all'agone greco, un ipotetico Proteo andato perduto. Negli scritti che accompagnano la creazione del '95 di Orestea (una commedia organica?), Romeo Castellucci – seguendo Benjamin – dedica una certa attenzione alla questione, a questa «quarta parte enigmatica» che è una «commedia che ha il peso di tre tragedie». Sarà per questo che la messinscena di una tra le più violente, laceranti e tuttora vive opere teatrali della tradizione d'Occidente, firmata dalla Socìetas Raffaello Sanzio vent'anni fa e ora riallestita, è sì di un'atrocità inaudita, ma è anche popolata di inaspettati frammenti di quella “risata della commedia” andata persa col Proteo mancante, che sembrano puntellare lo sviluppo tragico, a volte lacerandolo altre sostenendolo.

«Cosa dire del Proteo perduto? Cosa dire di questa commedia che avrebbe controbilanciato (…) tutta quanta la trilogia tragica? È lì che mi colloco?», si chiedeva il regista all'epoca del primo allestimento, in un testo poi pubblicato da Ubulibri in Epopea della polvere. E si rispondeva: «probabilmente», indicando la possibilità di esistenza dello spazio vuoto lasciato dal Proteo, un luogo allo stesso tempo assente e percepito così presente, da cui – approfondiva Castellucci – sarebbe stato possibile volgere lo sguardo indietro all'intera trilogia, osservandola a ritroso, e stare nel punto sfumato in cui non c'è soluzione per l'eroe tragico, né “scaricamento della frustrazione” e men che meno catarsi (se non intesa nell'esperienza conclusiva ma altra della commedia). 

 

Così, ci sono tante parti di Orestea (una commedia organica?) che sembrano allestite al rovescio. A partire dal fuoco proiettato sottosopra che apre lo spettacolo nel buio assoluto e per continuare subito con la posizione difficile e paradossale della Scolta che ne recepisce e tramanda il messaggio facendo innescare – con la notizia del ritorno di Agamennone – l'intero dispositivo tragico.

Non è nell'interesse di Castellucci recuperare o attualizzare l'Orestea. Tant'è che il testo eschileo – anch'esso guardato “di sbieco” nelle versioni di Manara Valgimigli e Ezio Savino, «traduttori considerati superati» e scelti come dichiara il regista perché lo interessava «il dato morto della cosa» – è innestato di aperture drammaturgiche che si rivolgono a fonti altre, prima fra tutte (o almeno la più evidente) la scrittura di Lewis Carroll. Un'altra inversione. «L'Orestea attraversa lo specchio» diceva Castellucci a metà anni Novanta e così la Socìetas ce la restituisce al rovescio in numerosi sensi, verissima eppure imprendibile, strana come il rapporto fra il vero della riflessione specchiata e la sua statutaria, enigmatica differenza. All'incipit della Scolta segue l'apparizione del Coniglio Corifeo, personaggio che racconta, guida e spiega la storia come un maestro al pubblico e ai coniglietti di gesso del Coro. È così strano e pure così a suo agio, appunto come nella magia ambigua e però consueta dell'immagine rimandata da uno specchio, che si inserisce a pieno nello spettacolo fin dall'inizio. Così è per l'intreccio che verrà poi fra la caduta di Alice di Carroll e quella, uguale e inversa, della povera Ifigenia. 

 

Corifeo e coro, ph Guido Mencari, Parigi, 2015.

 

C'è tanto che rimanda all'infanzia in questa Orestea della Socìetas, dalle “favole” tremende che fanno capo al Paese delle Meraviglie alla leggerezza del ritorno trionfale di Agamennone, dai conigli veri e finti del Coro all'agghiacciante ambientazione tutta in bianco delle Coefore, fra scarpine, lettini, animaletti, maschere e cappelli a punta, paroline e parolacce, quasi giochi fra attori e personaggi. Ma lo spettacolo rimanda in modo piuttosto diretto a una parte dell'infanzia che fa una paura inaffrontabile, quel terrore vero, perpetuo e non del tutto comprensibile che accompagna l'essere bambini: i coniglietti del Coro esplodono con gran fragore poco dopo l'inizio per mano di Egisto, che poi tortura il Corifeo appeso per le lunghe orecchie, mentre restano infine soltanto odore di zolfo e sangue (una posizione sulla potenzialità o meglio inanità dialettica del coro che sarà poi confermata nella Tragedia Endogonidia); le apparizioni degli animali (prima due cavalli scuri e poi un asino bianco) sono inquietanti nella loro inafferrabilità retinica e concettuale; i rapporti fra Elettra e Oreste, accompagnato da un Pilade altissimo, tutti e tre dipinti di bianco, hanno esplicitamente l'aura leggera del gioco e insieme un risvolto pesantemente macabro, sadico. Su di loro, fra l'altro, domina Agamennone: non il suo fantasma o ricordo, ma il cadavere di un capro che si eleva a mezz'aria dalla sua tomba, viene reso nuovamente vivo e pulsante dai tre col fiato di Oreste e guida infine quest'ultimo – grazie a un braccio meccanico – a compiere la vendetta uccidendo la madre, Clitemnestra. Tutto è di fatto, negli accadimenti e azioni, concretissimo, poco resta alle parole, proprio come nei giochi d'infanzia (o nel teatro). In effetti Orestea si potrebbe dire che sia, anche, una tragedia tutta giocata da giovani, poco più che bambini: prima la giovanissima Ifigenia sacrificata dal padre in partenza per la guerra di Troia, poi la vendetta di Elettra con Oreste e Pilade. Una tragedia “giocata” da bambini e guidata da morti, una infinità di cadaveri che sono l'innesco stesso dell'azione, snodi drammatici ben chiari però celati nel momento dell'omicidio, come vuole tanto la tradizione classica che la narrazione per l'infanzia.  

 

Su tutto, domina l'impossibilità di comunicare, essere insieme, farsi capire: dal tulle che separa scena e platea per l'intero spettacolo al linguaggio rimasticato in tante infinite variazioni del testo pronunciato, della parola. Balbettii, incespicamenti di lingua, fiati in riverbero, tonalità che spaziano dal cavernoso all'acutissimo, gole esposte, quasi anche glossolalie, disegnano insieme un percorso che parte con la difficoltà del dire di Clitemnestra, riecheggia nel delirio intertestuale del Coniglio Corifeo, passa dall'incomprensibilità della profezia di Cassandra, si nutre della visione di Artaud – traduttore di Carroll nei suoi ultimi anni a Rodez – e giunge all'apice con l'assoluto irrimediabile mutismo di Oreste. Anche il Coro di statuette-coniglio è muto; nonostante il Corifeo gli intimi sempre “silenzio!”, lui spiega ma è ovvio che nessuno l'ascolta. Non c'è rapporto neanche fra Clitemnestra e l'amante Egisto, né tantomeno col marito con cui neanche s'incontrano; non c'è relazione fra Elettra e Oreste, fra lei e Pilade, mentre fra i due uomini il legame è teso, rarefatto, asettico; Ifigenia compare in pratica solo a parole e forse in una piccola visione, su tutto un altro piano; Cassandra, destinata tradizionalmente a non essere ascoltata, è schiacciata in un box semitrasparente, poco si vede e nessuno capisce. È sola. Anche Clitemnestra lo è, enorme sul suo grande triclinio; così come Agamennone nel suo brevissimo ritorno, Egisto mentre gestisce l'intero macchinario tragico nel primo atto, Oreste alle prese col suo braccio meccanico. 

Non c'è neanche rapporto in realtà fra assassino e vittima: Egisto nel momento in cui accompagna fuori scena il Re, Oreste quando si avventa suo malgrado sulla madre. Ognuno ha da fare per sé, ogni personaggio sta irriducibilmente per suo conto. La solitudine irrisolvibile dell'individuo, l'impossibilità della relazione, la difficoltà della comunicazione creano stratificazioni di emozione e di senso che si possono percepire come uno dei motivi laceranti e profondi dell'esperienza tragica, della sua tuttora enigmatica realtà. 

 

Uccisione di Cassandra, ph Guido Mencari, Parigi, 2015.

 

Si dice spesso dell'importanza della terza parte dell'Orestea, dentro e fuori il teatro: in evidente contrasto con la legge feroce e antica che domina le prime due parti, Agamennone e Coefore, nelle Eumenidi si dà la prima rappresentazione documentata a nostra conoscenza di un tribunale, di un approccio al giudizio e di un'idea di norma intesi in senso moderno, una metamorfosi cruciale che Bachofen in una tesi tanto discussa intendeva come passaggio dal matriarcato al patriarcato, all'origine della cultura occidentale. Come sottolinea Romeo Castellucci, qui Oreste viene assolto non in quanto innocente, ma per parità di motivi a favore e contro la condanna, mentre le Erinni che l'avevano tormentato si trasformano per volere di Atena in Eumenidi, passano da messa in atto inestinguibile del rimorso individuale a custodi della giustizia collettiva – una capitale chiusura che non cessa di interrogare artisti, pensatori, critici a 2500 anni di distanza. 

Ma – come è noto – nelle tre date delle repliche al teatro Argentina in occasione di Romaeuropa, questa terza parte dello spettacolo non è potuta andare in scena, per un “vizio procedurale” che ha coinvolto festival e Prefettura nella “richiesta di autorizzazioni per il coinvolgimento in scena di animali classificati come esotici”, come dichiara la compagnia. Le Eumenidi si spostano in qualche modo a mo' di prologo, con le parole di spiegazione e racconto che lo stesso regista ha offerto al pubblico dal palco dell'Argentina; restano un punto di arrivo anelato e – si sa fin da subito – irraggiungibile, lasciando solo immaginare le tanto richiamate strida di scimmie, il fascino raccontato da qualcuno della personificazione delle statue mutile dell'antichità nella figura di Apollo, il presagito ritorno del fuoco iniziale con la promessa seppur ambigua della sua estinzione. 

 

Oreste, Pilade, Elettra, Hermes, ph Guido Mencari, Parigi, 2015.

 

Il taglio di questa terza e ultima parte dello spettacolo – va detto subito – lascia un amaro enorme in bocca e negli occhi come spettatori (e figurarsi agli artisti e interpreti). Ma questo episodio guardato – necessariamente – da tutt'altro lato fa in qualche modo riverberare per contingenza il paradosso dell’Orestea: unica trilogia sopravvissuta dalla Grecia classica e però senza il suo presumibilmente indispensabile passaggio finale del dramma satiresco, che viene privata anche del terzo atto; ciclo tragico che non si scioglie e non si conclude, che si sospende, chiudendo solo in parte e forse in modo solo apparente la storia maledetta degli Atridi nell'assoluzione di Oreste. Guardare indietro all'intera vicenda da questo punto di vista, dalla fine delle Coefore, come è capitato a forza nelle repliche romane di Orestea (una commedia organica?), rende l'esperienza del tragico ancora più atroce, l'avvicinamento del momento conclusivo fortissimo, la cesura integrale. Non so se sia un pensiero legittimo, lo è diventato come emozione durante la fruizione e senza dubbio la visione dell'opera completa è insostituibile. Ma nelle repliche di Roma, privata della sua – seppure apparente – risoluzione nelle Eumenidi, senza l'apertura del tribunale di Atena, il possibile confronto fra i personaggi, l'assoluzione dell'eroe e l'illusione dell'inizio di una nuova e diversa era, l'Orestea resta una tragedia senza possibilità di scampo. Si chiude a forza sull'omicidio di Clitemnestra con il braccio meccanico di Oreste lasciato solo a funzionare appeso; sull'eco sonora di quel gesto gravido di conseguenze per una volta tutte da immaginare che si intreccia al frastuono tellurico di pareti, palazzi, storie, persone, famiglie, idee che cadono – letteralmente – a pezzi.

 

Roberta Ferraresi 

 

Orestea: 1995-2016

 

Era un’invenzione geniale, il finale di Orestea della Socìetas Raffaello Sanzio (ora Societas/Romeo Castellucci).

Il matricida Oreste – quello che aveva vendicato il padre uccidendo la madre – chiedeva aiuto a un Apollo col volto coperto da una maschera nera che ricordava un precedente Masoch della compagnia. Aveva ali nere, torso nudo senza braccia, una lunga gonna nera. Una vivente statua offesa dal tempo, un resto dell’antichità che prendeva consistenza, con il suo valore oracolare, in un corpo mutilato. Un’immagine della distanza e della vicinanza da quell’opera, barbarica e contemporanea, con le sue vendette, il suo sangue, i suoi corpi estremi, perfettamente inscritta dentro di noi, nel nostro Dna culturale occidentale. Con quelle strida – più che voci – della coscienza, delle forze antiche, che emettevano un gruppo di macachi arrampicati su un ramo in un tondo di luce nel buio, simile a un occhio spalancato su qualche oscura visione interiore. Furie, Erinni, la bestialità redenta da dèi simili a reperti archeologici (ma vivi), con un ritorno finale all’utero esploso della Grande Madre. 

La tragedia e la sua improponibilità, oggi: le sue rovine, simili e diverse da quelle, devastanti, che chiudevano il Giulio Cesare del 1997, sedie di cinema bruciate e due ragazze anoressiche, ossa, ossa e occhi, che trascinavano per il palco nei loro corpi la morte per suicidio di Bruto e Cassio dopo la battaglia di Filippi.

 

Erinni, ph Guido Mencari, Parigi, 2015.

 

Un tale teatro della psiche, che riesce a dire qualcosa di profondo su quello che siamo anche come società, più del teatro politico, civile o sociale, non può non disturbare. È stato un incidente burocratico quello che ha vietato il terzo atto, le Eumenidi, a Roma. Ma Kafka ci ha insegnato quale macchina di tortura reale, quale meccanismo che siamo noi a innescare senza pietà sia la burocrazia. Le ferite inferte agli artisti – diceva un maestro di studi come Claudio Meldolesi, riferendosi al coma di Leo de Berardinis, causato da un’operazione sbagliata – sono una vendetta della società (un crimine di stato) contro la loro difformità, contro le loro provocazioni a cercare paesaggi oltre le realtà previste, autorizzate, maggioritarie. 

Questa Orestea mutila – come Apollo, come il torso del Belvedere scempiato da damnatio memoriae o da invasioni barbariche – è segno forte dell’assalto a quel mistero disturbante che è l’arte da parte dello stato delle cose, di una politica e di una società sempre più conformiste nelle loro apparenti libertà, molteplicità, trasgressioni.

 

Per concludere: la mia recensione dello spettacolo completo, visto da qualche parte nel 1995:

“Inizia con fiamme sulla bocca del palcoscenico, caverna oscura, antro delle apparizioni di ombre inquietanti che arrivano dalle origini barbariche del rito, del teatro, della favola della nostra civiltà occidentale. La sentinella che aspetta la notizia della caduta di Troia su una sedia girevole sotto un ombrello scassato precipita nella gioia del segnale di fuoco della vittoria mentre suoni, rumori, voci deformate avvolgono la scena ed entra il coro, il coniglio di Alice, accompagnato da una fila di coniglietti di gesso. Esplode la tragedia, nel corpo enorme di Clitemnestra, nello sguardo dolce dell'Agamennone interpretato da un ragazzo mongoloide che indossa la suprema idea di regalità come distanza assoluta e come innocenza, perfetta vittima sacrificale di un delitto che inonderà la scena di sangue; nel sangue, finto, nelle frattaglie, in un acquario di plastica è soffocata Cassandra, la profetessa, come un quadro di Francis Bacon fatto spazio e urlo fisico, vaticinante l'assassinio del re da parte della moglie. 

Nell'Orestea della Socìetas Raffaello Sanzio le immagini si sovrappongono, i riferimenti, le emozioni; i paesaggi, i corpi degli attori cambiano di intensità, di dimensione, man mano che si snoda la saga degli Atridi, dall'assassinio del padre fino alla vendetta, all'arrivo di Oreste in uno scenario di polverosità lunare, clown magrissimo, macilento, col suo consimile Pilade; fino al gesto matricida, reiterato da un braccio meccanico armato di pugnale, fino al giudizio degli dei contro il figlio assassino nel tribunale di Atene, tra le ombre inquietanti delle infere vendicatrici Erinni incarnate in alcuni macachi, un Apollo attore senza le braccia (nero e luminoso), e la madre, la gigantesca madre, che ritorna, in un'inquadratura che ricorda l'utero, il luogo dell'origine, del riposo amniotico.

 

[…] Questo spettacolo è un atto teatrale totale, eccessivo, violento, scandaloso. Che usa la violenza come scandalo, come insidia del pensiero e della percezione addomesticati dall'abitudine. Come l'Alice di Carroll supera lo specchio del testo, del quale rimane solo la corazza o il cuore pulsante. Respinge o affascina, attingendo l'ombra, scandagliando ogni eccesso dell'esibizione di shock, di immagini, e soprattutto di corpi, corpi smisurati, corpi diafani, corpi animali, corpi diversi, mutilati. Perché, scrive il regista, Romeo Castellucci: "Teatro significa creare, partorire demonicamente un corpo, prima di tutto come cosa, peso, grumo da far vedere per un soldo, baraccone in sé. Sento fortissimo, in questo momento, lo scontro alto, l'agone con l'icastica sorellastra che è la pubblicità. Sento una grande potenza da battere, in essa. Ci unisce un discorso di superficie, di cose turpi, se volete, cose spirituali. C'è una cura per il corpo che, da una parte, è la potentissima preparazione di una mummia, dall'altra – dalla mia – una preparazione che anch'essa tende all'ostensione di un corpo".

 

Massimo Marino

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