Due mostre su Massimo Dolcini

28 Agosto 2015

«Per me, che sono figlio unico, Massimo Dolcini è una specie di fratello maggiore. Del resto ai nomi non si sfugge: di battesimo lui fa Massimo (da maximus, superlativo di magnus, grande); io invece Paolo (da paulus, cioè piccolo). Dire che Massimo sia bravo, anzi uno dei grafici più bravi e importanti d’Europa, è il minimo: self-evident, avrebbero detto i padri costituenti americani. Ma la sua bravura è fatta anche di quella qualità rara, così urticante per gli invidiosi, che si ritrova nell’uovo di Colombo: cioè nella capacità di intuire prima degli altri soluzioni che sembrano a portata di mano di chiunque.

 

Massimo Dolcini, Manifesti

 

Come copywriter, io ho bacillato, cioè ho dovuto combattere, coi grafici per quasi vent’anni: li conosco, voglio dire. Ebbene, di Dolcini ho sempre apprezzato un’idea di fondo: che non c’è niente di male nel fare piacevolmente il proprio lavoro; così come non c’è niente di male, al termine di un lavoro ben fatto, nel ricavarne un “ragionevole guadambio”[1] (il contrario della scuola, fra parentesi, dove ogni grado di studio, d’impegno e di sgolamento viene compensato con la stessa irrisoria retribuzione).

 

Un’altra idea dolciniana, che condivido in pieno, è che per non essere provinciali bisogna essere locali fino in fondo: apparente eresia che lo accomuna ad altri grandi autori i quali, raccontando con passione il proprio microcosmo, sono arrivati a risultati universali: penso, ad esempio, al poeta Raffaello Baldini di Sant’Arcangelo di Romagna; al fotografo Mario Giacomelli di Senigallia; oppure, in campo gastronomico, alla pizza: quale piatto, infatti, è più napoletano e nello stesso tempo più internazionale della pizza?

 

Nel corso dei decenni, tra amicizia e lavoro, ho incrociato il percorso di Dolcini più di una volta. Una delle prime risale agli anni sessanta del secolo scorso. Eravamo molto giovani allora, ragazzi in senso proprio (adesso è diverso: rimangono ragazzi fino a 50 anni). Dolcini frequentava il liceo scientifico e dipingeva in una soffitta dietro la piazza; noi del classico gli chiedemmo un’illustrazione  per il nostro giornalino studentesco (si intitolava Il foglio: ma era il 1964). Massimo ci regalò un disegno a china, che rappresentava una mano. Gli è venuta l’ernia, mugugnò qualcuno in redazione. Solo dopo, a osservarla bene, notammo che quella mano aveva sei dita.

 

Ho poi ritrovato l’aiuto di Dolcini alla fine degli anni settanta, ai tempi del primo contratto per il mio primo romanzino (Scala di Giocca, che doveva uscire con la Cappelli di Bologna). Massimo si adeguò senza discutere allo schema ovale predisposto dalla casa bolognese (anche se il suo studio si chiamava Fuorischema) e disegnò la copertina “in amicizia”: cioè gratis.

 

Massimo Dolcini, Copertina di Scala di Giocca per l'edizione Edes 1984

 

In seguito ci siamo incrociati e confrontati in numerose altre occasioni di lavoro. Ricordo in particolare i manifesti del Gusto dei contemporanei: di cui il più bello, secondo me, rimane quello del 1984 (Italo Calvino; Andrea De Carlo) che raffigurava una penna stilografica inserita tra le posate di una normale mise en place.

 

Ma il debito maggiore che ho con Dolcini, più che con la grafica di pubblica (e privata) utilità, ha a che fare col canottaggio. Massimo infatti è stato anche un campione di kajak (negli anni sessanta ha partecipato a diversi campionati nazionali di K1) e un ottimo istruttore; uno che ha insegnato, a me e a tanti altri, a maneggiare la pagaia asimmetrica con una certa abilità; a non impozzare le pale; ad affrontare le onde con la giusta angolazione (45°, possibilmente); a pagaiare contro, di destro o di sinistro, se si vuole virare rispettivamente a destra o a sinistra; a mantenersi in equilibrio nella maretta improvvisa, usando il dorso di una pala a mo’ di bilanciere; a recuperare la canoa in caso di scuffiata. L’eskimo[2] no: quello, non sono mai riuscito a impararlo.»

 

Massimo Dolcini

 

Questa pagina, recuperata dalla memoria del mio PC col titolo L’eresia dolciniana (primavera 2005), doveva salutare affettuosamente l’inaugurazione della prima mostra dei manifesti di Massimo Dolcini allestita dal prof. Luigi Panzieri presso l’Istituto tecnico Bramante di Pesaro (la raccolta, fondamentale, è ancora oggi visitabile). L’improvvisa morte di Massimo (15 maggio 2005) purtroppo trasformò quella che doveva essere una festa (5 giugno 2005) in una commemorazione funebre. Io lessi solo alcuni brani del mio testo (scritto al presente perché Massimo era vivo fino a pochi giorni prima), giudicandolo troppo leggero per l’occasione.

 

Oggi, a distanza di dieci anni, due sono le mostre dedicate a Massimo Dolcini: una a Pesaro (dove era nato nel 1945), l’altra a Fano (10 km a sud). La mostra pesarese Lo sguardo di Massimo, presso il Centro arti visive Pescheria è corredata da un volantone con scritti di Marta Alessandri, Franco Panzini nonché del curatore Ludovico Pratesi. La mostra fanese Massimo Dolcini. La grafica per una cittadinanza consapevole (Galleria Carifano, Palazzo Corbelli, fino al 10 settembre, orario 18,30 -21,30) dispone di un catalogo molto ricco, curato da Mario Piazza. Visitatele entrambe con grande attenzione[3], ritrovo numerosi spunti di riflessione su un artista che non era solo un grafico e che viene giustamente definito “poliedrico”; “caleidoscopico”; “personalità vulcanica e complessa”; “progettista, fotografo, disegnatore, ceramista, gastronomo, operatore culturale e appassionato uomo civile”: versatile, di multiforme ingegno, insomma polùtropos, come dice Omero di Ulisse: concetto che comprende anche una imprecisata dose di astuzia.

 

Come battitore libero (sulla mia tastiera) nonché vecchio copy fuori servizio esprimo qualche mio pensierino su questioni già toccate e meglio sviluppate da altri nelle due mostre, parallele e complementari, di Pesaro e di Fano.

 

Massimo Dolcini, Manifesti

 

 

  1. Dalla mezzadria all’industria

In qualità di “grafico condotto”, come amava definirsi, il suo quadro di riferimento nei primi anni settanta è il modello marchigiano, per non dire pesarese (suoi maestri, a Urbino, Albe Steiner e Michele Provinciali; suo primo mentore, a Pesaro, il sindaco illuminato Marcello Stefanini, convinto fautore del decentramento). Nello stesso tempo però (innegabile qui la sua maestria), l’apertura mentale dello studio Fuorischema (Massimo Dolcini, Jole Bortoli, Mauro Filippini) e la sua committenza non sono mai soltanto marchigiane, tantomeno solo pesaresi, bensì molto più ampie.

 

Operando professionalmente dal 1970 al 2005 Dolcini attraversa e documenta con grande intelligenza la crescita del paese e il passaggio da una società prevalentemente contadina (mezzadrile da noi), sostenuta da una fitta rete urbana di botteghe artigianali, a una società industriale: fatta per lo più da piccole industrie, con stretti legami col mondo da cui provengono, di cui condividono i valori di fondo e anche i ritmi del lavoro. Ri/guardando i tanti manifesti (sparsi nella mostra pesarese, più tematizzati in quella fanese) saltano agli occhi i segni di un mondo, rurale e artigianale, che allora erano ben presenti nel vissuto, cioè nel cervello, dei cittadini destinatari della sua comunicazione. Mi riferisco a una lunga serie di “cose”, cioè di arnesi, di animali e di prodotti che sono molto meno leggibili per i fruitori di oggi: mollette in legno per stendere i panni, rubinetti in ottone; attrezzi agricoli e strumenti di lavoro (falci fienaie, roncole, pennati, cazzuole, sgorbie, pennellesse, chiavi inglesi…); carrette; cappelli da muratore fatti con un foglio di giornale; zucche, pomodori, pidocchi (nel senso di cozze), animali da cortile, pollame a non finire. Visitare per credere.

 

Massimo Dolcini, Manifesti

 

 

  1. Dalla matita al computer

Nell’arco di un trentennio lavorativo molto intenso (forse troppo, per alcuni) Dolcini riesce a passare senza apparente sforzo dalla grafica povera dell’era pre-digitale (i manifesti allora erano stampati in serigrafia) alla grafica computerizzata. A meno che, come scrive Franco Panzini[4], il suo dedicarsi alla ceramica dell’ultima fase altro non fosse che tentativo di recuperare quella manualità che il computer gli aveva tolto. Partito come tutti i grafici della sua generazione dal disegno manuale, dalla matita, dai pennelli, dai colori, dalla pittura degli anni giovanili, dalla fotografia (la camera oscura, lo sviluppo, la stampa, il ritaglio, il ricalco, lo scontornare le immagini), tutte tecniche che padroneggiava, Dolcini approda con sicurezza negli ultimi anni alla computer-grafica: con risultati che, a mio giudizio, sono più freddi rispetto a quelli ruspanti dello studio Fuorischema.

 

Non bisogna però dimenticare che, a partire dalla fine degli anni ottanta, l’affermazione del computer (fenomeno che non dipese certo da Dolcini) ha segnato un cambiamento epocale nel campo della grafica (e non solo), paragonabile all’invenzione della stampa nel corso del XV secolo. I grafici che non hanno saputo (o che non hanno voluto) adeguarsi ai nuovi strumenti in poco tempo sono stati molto semplicemente messi da parte. Qualcosa di simile, in fondo, è accaduto anche nel campo della scrittura professionale (giornalismo, narrativa; meno, credo, la poesia). Oggi, a cercare con attenzione, si troverà certamente qualcuno che ancora scrivere con la lettera 22 o addirittura con la stilografica, però, in linea di massima, gli scriventi usano il PC, meglio se portatile, o lo smartphone (lo confesso: io guardo con invidia quelli che digitano velocissimamente coi pollici su una minuscola tastiera touch screen).

 

 

 

Massimo Doclini, Manifesti

 

 

  1. Cuoco, ospite, gourmet

Figlio di un bravissimo ristoratore, il signor Bruno (indimenticabile il pranzo dei falegnami, il giorno di San Giuseppe, nel suo ristorante Stella dietro la piazza di Pesaro), Dolcini è stato un maestro anche in questo campo: ottimo cuoco, ospite generoso e grande attavolatore sapeva recuperare, con la complicità di Franco Bucci e di altri amici artigiani, i cibi e la cucina di un mondo che stava scomparendo: da qui la cura dell’orto, del pollaio e della vigna, la vendemmia, l’assaggio del picciòlo (altrove acquaticcio), le patate cotte sotto la burnigia (la cenere calda), la preparazione delle carni, cioè l’uccisione del maiale e tutti il lavorio che ne consegue, il brodetto di pesce, la trippa. Profetica in questo senso la sua collaborazione con la rivista La gola. Mensile del cibo e delle tecniche di vita materiale, che anticipava, temperandola con un pizzico d’ironia, l’odierna stucchevole ossessione per la cucina: tutta televisiva, tutta inodore, tutta in favore di telecamera.

 

E su questo piacevole filone mangereccio Dolcini disegnò la serie dei manifesti per Il Gusto dei contemporanei, dove accanto al nome dello scrittore (Calvino, Levi, Volponi, Moravia…) campeggiano, di volta in volta, posate, caramelle, torte guarnite di panna, un cameriere stilizzato che regge un vassoio carico di libri. Una freschezza comunicativa che piacque molto a Italo Calvino: il quale, incontrando gli studenti pesaresi al teatro Sperimentale (11 maggio 1983), li salutò con queste parole:

 

“Care ragazze, cari ragazzi, sono molto contento di trovarmi tra voi, dopo che da tanto tempo ero stato invitato a venire a Pesaro; sono contento di vedervi numerosi, sono contento di vedere il mio nome sui muri di Pesaro insieme con un cucchiaio, una forchetta e un coltello, che sono arnesi molto simpatici.”[5]

 

Massimo Dolcini

 

 

(Pesaro, agosto 2015)

 

 

 

Le mostre:

Lo sguardo di Massimo

Centro arti visive Pescheria, Corso XI Settembre, 184, Pesaro

tel. 0721.387541, fino al 4 ottobre 2015

orari: 17,30-22,30

chiuso lunedì

 

Massimo Dolcini. La grafica per una cittadinanza consapevole

Galleria Carifano, Palazzo Corbelli, Fano

fino al 10 settembre,

orari: 18,30-21,30

 

 

 


[1] Gadda Carlo Emilio, “Risotto patrio. Rècipe”, in Le meraviglie d’Italia, Einaudi, Torino 1964, p. 207.

[2] La manovra che fanno gli eschimesi quando scuffiano: con un colpo di reni recuperano l’assetto compiendo una rotazione di 180° con la testa sott’acqua.

[3] Intendi: dopo averle visitate; ma anche: andate a visitarle tutte e due.

[4] “Mal di ceramica. M. D. ceramista e collezionista”, in Lo sguardo di Massimo, cit.

[5] “Il gusto dei contemporanei. Quaderno n. 3, Italo Calvino”, PS, Banca popolare pesarese 1987; poi anche in Italo Calcino, Sono nato in America… Interviste 1951-1985 (a cura di Luca Baranelli), Mondadori, Milano 2012.

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