A 10 anni dalla morte della cantante argentina / Mercedes Sosa: folklore ed esilio

4 Ottobre 2019

Nel breve ciclo di conferenze dedicate al tango pubblicate di recente da Adelphi, Jorge Luis Borges a un certo punto usa l’espressione guitarra trabajosa per sottolineare come nei tango da lui amati la chitarra dia “sempre l’impressione di fare fatica”. Borges sostiene che la chitarra entrò nel tango prima del bandoneon ma dopo il pianoforte, il flauto e il violino, e si serve dell’annotazione per confutare l’idea secondo cui il tango sarebbe nato in periferia e nelle osterie, dove la chitarra regnava sovrana.

 

Borges tenne quel ciclo di conferenze nell’ottobre del 1965, lo stesso anno in cui Jorge Cafrune presentò una quasi sconosciuta Mercedes Sosa al festival del folklore di Cosquín, dandole notorietà nazionale. Poco più di due anni prima, l’11 febbraio 1963, a Mendoza, un gruppo di artisti fra cui la stessa Mercedes Sosa, il poeta Armando Tejada Gómez e il compositore e primo marito della Sosa, Manuel Óscar Matus, avevano presentato il Manifiesto Fundacional de Nuevo Cancionero, un documento programmatico volto alla promozione di una nuova forma di canzone popolare che fosse, nelle parole di Mercedes Sosa, “espressione dell’uomo argentino del nostro tempo”. In quei mesi la musica folk era in auge un po’ ovunque. Negli Stati Uniti, proprio nel 1963, Bob Dylan aveva pubblicato il suo secondo e storico disco The Freewheelin’ Bob Dylan, e mentre Martin Luther King pronunciava a Washington il celebre discorso I have a dream, in tutta l’America latina si ponevano le basi per una nuova canzone di impianto folklorico impregnata di temi sociali e fortemente connotata sul piano politico, la cosiddetta nueva canción che sarebbe emersa di lì a poco. Dal Cile all’Argentina, da Cuba alla Bolivia, dal Perù al Nicaragua, dal Guatemala a El Salvador, dal Brasile all’Uruguay, dal Messico al Venezuela, dalla Colombia a Puerto Rico, tutti i paesi dell’America latina profittarono di un’onda che avrebbe profondamente trasformato l’idea stessa di canzone folk e, nel farlo, per usare la felice espressione della cantante argentina Liliana Herrero, avrebbe insegnato loro che cantare un paese è anche pensare un paese.

 

Gli elementi caratteristici e i punti d’incontro di questo rinnovamento furono molteplici. Uno di questi, forse non il principale ma certo uno dei più evidenti sul piano musicale, fu l’imporsi della chitarra come strumento non solo di riferimento (già lo era), ma da combattimento del nuovo interprete folk. Anni prima, negli Stati Uniti, Woody Guthrie aveva apposto sulla cassa armonica del suo strumento uno slogan che recitava: this machine kills fascists, questa macchina uccide i fascisti. Anni dopo, José López Rega, fondatore e guida dell’Alleanza Anticomunista Argentina (lo squadrone della morte tristemente noto come “tripla A”), aveva sostenuto che Jorge Cafrune e la sua chitarra erano più pericolosi di un esercito in armi. Se sul piano simbolico la questione è, nella sua vertiginosità, tutto sommato semplice – dalla guitarra trabajosa di Borges s’era passati alla chitarra come strumento di lotta della nueva canción – su quello prettamente musicale la questione è assai più complessa.

 

L’America latina vanta tre dei massimi compositori di chitarra classica del Novecento: il messicano Manuel Ponce (colui che Andrés Segovia considerava il più grande compositore per chitarra di tutti i tempi), il brasiliano Heitor Villa-Lobos e, fra i contemporanei, il cubano Leo Brouwer. In Argentina, e in particolare nella zona dell’estuario del Río de la Plata, fin dall’Ottocento la chitarra era uno strumento studiato e suonato sia dalle classi abbienti che dal popolo. Il primo corso di conservatorio per chitarra fu introdotto a Buenos Aires già nel 1820 da un musicista di origini italiane, Esteban Massini (1788-1838), e la chitarra, diversamente da quanto succedeva in Europa, non era considerata uno strumento meno nobile rispetto al pianoforte o al violino. Nei primi anni del Novecento, al repertorio classico di scuola europea i chitarristi argentini cominciarono ad accostare un filone marcatamente indigeno interpretando opere di Justo Tomas Morales, Antonio Sinópoli o Julio Sagregas, i quali, con le loro composizioni d’ispirazione folklorica, seppero delineare uno stile che avrebbe fatto scuola ispirando musicisti come Abel Fleury, Eduardo Falú, Atahualpa Yupanqui, El Zarco Alejo, Cacho Tirao, Irma Costanzo, Roberto Lara o Carlos Di Fulvio, tutti musicisti che ebbero il grande merito di promuovere la chitarra in ambito popolare, creando un ponte fra la classicità europea e le diverse tradizioni autoctone.

 

 

La figura di Eduardo Falú, che legherà il suo nome insieme a Carlos Guastavino, Ariel Ramirez e Mercedes Sosa, fu in questo senso esemplare. Nel 1963, l’anno della presentazione del Manifiesto Fundacional de Nuevo Cancionero, Falú pubblicò un disco intitolato Virtuosismo y Folklore de Falú, un lavoro che inquadrava al meglio la prossimità che in alcuni casi diventava quasi sovrapposizione fra la dimensione colta e quella popolare, un po’ come era accaduto in Spagna con la tradizione del flamenco (si pensi, e sempre in termini di virtuosismo e folklore, a musicisti come Sabicas o Paco de Lucia, e prima di loro a Ramón Montoya, Niño Ricardo o Javier Molina). In Argentina la chitarra seguì un percorso per molti versi analogo, avvicinando il repertorio di tradizione folklorica alla dimensione classica. Di questo avvicinamento (una sorta di “canonizzazione del folklore in chiave colta” si potrebbe dire) Mercedes Sosa fu, fin dall’inizio, una delle più convinte sostenitrici oltre che una delle interpreti più autorevoli. “Era ora che ci occupassimo della nuova canzone, che la affrancassimo non tanto dalle radici ma da quel folklore a buon mercato ormai spentosi da molti anni”, dichiarò la stessa Mercedes anni dopo. Mercedes Sosa, nata e cresciuta a Tucumán, era sbocciata nella comunità di artisti e intellettuali della Mendoza di fine anni ’50, inizio anni ’60. “Il folklore era roba di paesaggi”, dichiarò anni dopo uno dei fratelli di Mercedes, Orlando detto Chichi, “con le canzoni di Matus e Tejada Gómez si scoprì che il paesaggio è importante ma molto più importante è l’uomo”. Manuel Óscar Matus, musicista, e Armando Tejada Gómez, scrittore e poeta, furono i primi autori di Mercedes Sosa, e con lei diedero vita a un sodalizio aureo, paragonabile per impatto a quello fiorito in Brasile fra Antonio Carlos Jobim, Vinicius de Moraes e João Gilberto pochi anni prima. 

 

Il canzoniere nato da questo sodalizio ebbe un effetto dirompente sulla scena folk argentina. Il rinnovamento di cui si fece carico il Nuevo Cancionero non toccò tanto il piano formale (le canzoni restavano pur sempre fedeli ai ritmi delle diverse regioni del paese: la zamba, la chacarera, la milonga), quanto il piano poetico ed esecutivo. La forza e l’audacia delle penne dei giovani poeti argentini di quegli anni, unita alla perizia strumentale di musicisti magari autodidatti ma con un gusto e una sensibilità che si richiamava alla scuola chitarristica classica, si sposarono al repertorio di tradizione. Quelle canzoni funzionavano, e nel farsi carico delle emozioni della gente si fecero anche megafono delle sue aspirazioni e dell’urgenza di un cambiamento sociale, conferendo dignità da un lato alla musica popolare che si trovò come d’incanto proiettata in una dimensione di “classicità”, una classicità fatta di spessore poetico e di qualità musicale, e dall’altro offrendo dignità agli umili e alla povera gente. Mercedes Sosa fu la voce e la personificazione di tutto questo. Fu soprannominata la madre d’America, o anche la Pachamama (la dea della terra e della fertilità per gli Inca e le popolazioni andine), la voce della terra. Una donna che detestava salire su un palcoscenico, ma che una volta salita su un palco aveva il potere di ammaliare e tenere in scacco qualunque platea. 

 

 

Il nuevo cancionero è stato, prima di tutto, un fatto artistico”, teneva a sottolineare Mercedes Sosa. Prima di scegliere una canzone ne vagliava con cura il valore poetico e musicale. “Se le parole non hanno poesia”, diceva, “la canzone non mi interessa”. È anche vero che l’avventura della nueva canción, premesse artistiche a parte, fu connaturata a tal punto con le tragedie e il destino del continente latino americano che oggi, a tanti anni di distanza, risulta pressoché impossibile scindere le questioni estetiche dalle motivazioni politiche. Delle centinaia, forse migliaia di canzoni che Mercedes Sosa ha interpretato nel corso della sua lunga carriera, e della moltitudine di versi contenuti nelle sue canzoni, a me in questi giorni ne è tornato in mente in particolare uno, di verso, tratto dalla canzone Triunfo agrario (parole di Armando Tejada Gómez, musica di César Isella): El que no cambia todo, no cambia nada (colui che non cambia tutto, non cambia niente). È un verso che esprime bene lo spirito dell’epoca e descrive altrettanto bene, credo, la visione del mondo e il carattere di Mercedes Sosa, la sua coerenza feroce, il suo idealismo, la sua assoluta fame di giustizia. Tutte cose che più volte rischiò di pagare a caro prezzo. Nel 1978, impegnata in un concerto a La Plata, “la prima città rossa”, non perché comunista ma per il sangue che i militari vi avevano fatto scorrere, Mercedes Sosa osò cantare la canzone Cuando tenga la tierra. Terminato il pezzo in sala risuonò il movimento di carica dei fucili dei militari, saliti sul palco a prelevare lei e il chitarrista Nicolás "Colacho" Brizuela. Fu tenuta in stato di fermo per diciotto ore e poi rilasciata, su pressioni internazionali. Nell’impossibilità di liberarsi fisicamente di lei, i militari le impedirono però di cantare, costringendola a lasciare il paese. Fu, quella dell’esilio, una delle esperienze più dolorose nella vita di Mercedes Sosa. Girò il mondo e le sale da concerto più prestigiose del pianeta nei tre anni in cui mancò dall’Argentina, ma furono anni di solitudine, di tristezza e di lacrime senza fine. (Lo stato d’animo di quei mesi è ben restituito dal recital tenuto negli studi della Radiotelevisione svizzera di Lugano nel 1980, che potete rivedere nella sua interezza a chiusura dell’articolo).

 

Nel 1982, al suo rientro in patria, Mercedes Sosa si esibì in una serie di concerti al Teatro Ópera di Buenos Aires, concerti cui sarebbe seguita una tournée in altre città del paese. Molta paura, molta tensione, molte telefonate anonime che annunciavano la presenza di bombe nei teatri in cui si tenevano gli spettacoli. Alla fine, grazie al cielo, non successe nulla. Quel ritorno in patria fu un evento artistico, umano e politico di enorme rilievo, sia per Mercedes Sosa che per gli argentini. Mercedes lo visse con terrore ma anche con profonda commozione. Durante il primo concerto a Buenos Aires, a Mercedes, solitamente così loquace sul palcoscenico, mancò la voce proprio quando intendeva ringraziare chi era venuto ad applaudirla. Aprì la bocca e le uscì soltanto questo: “mi chiamo Mercedes Sosa. Sono argentina”. Bastò perché venisse giù il teatro. Era tornata a casa, che altro importava?

 

 

L’esilio di Mercedes Sosa coincise con quello di tanti artisti e intellettuali latino americani in quegli anni bui. Un intero continente fu privato della fantasia, dell’immaginazione e del pensiero. Il giornalista Rodolfo Braceli nella bella biografia dedicata a Mercedes, La Negra (Giulio Perrone Editore, 2010), racconta di un tenerissimo incontro fra Mercedes e il cantante brasiliano Caetano Veloso un giorno di novembre del 1984 in avenida Corrientes a Buenos Aires, la strada dei teatri e della vita notturna, incontro di cui lo stesso Braceli fu testimone. Veloso è in città per un concerto al Teatro Ópera, e Mercedes decide di rendergli visita nel pomeriggio, durante le prove. I due si accomodano in platea, quarta fila, mano nella mano, e cominciano a parlare. Mercedes chiede a Caetano se ha letto il racconto El perseguidor di Julio Cortázar, e Caetano le risponde di sì, e aggiunge che Cortázar “è un poeta che suona la tromba e scrive romanzi e non invecchia mai”. Poi, a bassa voce, entrambi attaccano una canzone di Milton Nascimento, Corazón de estudiante. Braceli li descrive come due adolescenti intenti a coccolarsi a vicenda, mano nella mano. Più tardi, di fronte a un caffè, parlano di politica, e della morte della cantante brasiliana Elis Regina, stroncata da un mix di droghe, alcol e sonniferi due anni prima. Mercedes comincia a piangere, e così fa Caetano, il quale aggiunge: “ci sono cadaveri a cui non si deve credere”. E poi parlano dell’esilio. Anche Caetano, come Mercedes, fu costretto a rifugiarsi in Europa durante gli anni della dittatura militare brasiliana (nella sua canzone dell’esilio, London London, Caetano si sorprende di come i poliziotti inglesi sembrino felici di aiutare chi li interpella per avere un’indicazione stradale). Escono dal caffè, sta piovigginando, e un passante si avvicina con cautela per salutarli e ringraziarli: “senza di voi, cosa sarebbe il mondo?” Dopo qualche passo Caetano si ferma e invita Mercedes a fare altrettanto. “Respira”, le dice, “l’ultima volta che sono stato qui avevo paura”. E poi è la volta di Mercedes. S’arresta di colpo e chiede: “cosa vedi, Caetano?” Lui punta gli occhi a terra e si avvede che dal selciato è stata rimossa una mattonella. Mercedes gli spiega allora che un ragazzo, durante gli anni della dittatura, aveva tolto la mattonella da avenida Corrientes per portarla ai suoi amici esuli in Francia, affinché potessero baciarla, calpestarla e camminarci sopra.

 

 

Che cos’è la patria?, si chiede Rodolfo Braceli dopo aver raccontato la magia di quell’incontro. È un cuore nostalgico. Il profumo unico del cibo. Una mattonella di avenida Corrientes che pulsa delle lontane notti di Buenos Aires. Ma è anche l’abbraccio fra un’argentina e un brasiliano che erano stati costretti a vivere lontano dal proprio paese perché lo amavano a tal punto, quel loro paese, da non potersi impedire di sognarlo diverso.

 

 

Mercedes Sosa dal vivo a Lugano, 1980

 

Lettura consigliata:

Julio Cortázar, La scuola di notte (in Disincontri, SUR, traduzione di Ilide Carmignani, 2019)

 

Ascolti consigliati:

Atahualpa Yupanqui, Chacarera de las piedras

Jorge Cafrune, Zamba de mi esperanza

Alfredo Zitarrosa, Diez Decimas de Saludo al Pueblo Argentino

Roberto Lara interpreta Abel Fleury, Estilo Pampeano

Eduardo Falú e Atahualpa Yupanqui

Eduardo Falú, Virtuosismo y Folklore de Falú

Caetano Veloso, London London

 

Film consigliati:

Argentinísima, di Fernando Ayala e Héctor Olivera

Cosquín, amor y folklore, di Delfor María Beccaglia

El canto cuenta su historia, di Fernando Ayala e Héctor Olivera

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO