Ritratto d’interno en plein air / La casa di Gabriele Münter e Wassily Kandinskij

6 Marzo 2019

1909. Un quadro a olio mostra la tavola attorno alla quale stanno due pittori, Vasilij Kandinskij e Erma Bossi, seduti in conversazione su una panca ad angolo. L’ha dipinto Gabriele Münter, prima allieva di Kandinskij a Monaco e poi sua compagna. Nei tratti traspare una morbidezza che ritroveremo anche nei paesaggi bavaresi dipinti da Münter. In un certo senso anche questo quadro è un paesaggio, dipinto non en plein air, ma sotto la volta modesta di questa casa a Murnau, in Baviera, in cui ritroviamo proprio la panca angolare del quadro. È l’intimità di una scena familiare, dipinta come paesaggio dell’anima. Questo senso di raddoppiamento non ci lascerà per tutta la visita. Nello stesso quadro si vede, per esempio, una serie di dipinti realizzati da Kandinskij secondo la locale tradizione di pittura di temi religiosi su vetro, che sono ancora esposti in casa. 

 

Cinque anni è vissuta la coppia in questa che i paesani chiamavano Russenhaus, facendola diventare il punto di incontro di quel gruppo internazionale di artisti noto sotto il nome di Der Blaue Reiter, il Cavaliere Azzurro. Pittori come Franz Marc, August Macke, Alexej von Jawlensky e Marianne von Werefkin, ma anche il compositore Arnold Schönberg saranno ospiti fissi del Russenhaus. È qui che avranno luogo le riunioni di lavoro per l’almanacco del gruppo. 

Per l’occhio nord-europeo quest’angolo di Baviera conduce verso la luce meridionale che scalda le tonalità dell’aria. Le composizioni ispirate al paesaggio della coppia sono fatte di quel puro colore che presto condurrà Kandinskij alla pittura astratta. Dalle finestre della casa il sud ha la forma della silhouette delle Alpi. La luce che vi emana è intensa, il paesaggio si distende in larghe campiture, che ritroviamo nelle grandi superfici di colore tipiche sia di Münter che di Kandinskij. Da qui la natura non pare nemica, è solo colore che nutre la vita. I riflessi del lago di Staffel sembrano essere lì per dirlo. Ecco perché tra l’en plein air e la pittura di interni esiste una continua osmosi, di luce e di intimità, di spaziature e riflessi. Il paesaggio stesso ne è impregnato. I suoi colori caldi ed accoglienti sono gli stessi con cui la coppia dipingerà negli anni del suo sodalizio, ma anche quelli con cui Kandinskij decora i mobili di casa.

 

 

Nell’atmosfera vagamente rarefatta e un po’ sospesa dell’esposizione attuale, tutto questo fa a tratti un effetto un po’ infantile. È come assistere a un eccesso di idillio il giorno prima dello scoppio di una guerra mondiale. In questa deformazione di prospettiva c’è sicuramente lo zampino dello spaventoso stile di restauro che tanto spesso si adotta in Germania e che tende a rendere nuovo di pacca tutto ciò che tocca. Il restauro toglie in parte la semplicità, forse anche la povertà, della casa. La restituisce a una sterilità asettica, museale. Ciò che in questo contesto reso atemporale involontariamente si produce è però un interessante e vagamente perturbante effetto, una duplicazione della realtà, un contesto estraniante. Così un quadro di Münter mostra l’angolo-divano, appeso nell’angolo divano stesso, conservato con tutta la mobilia ricostruita (tavolo, lampada, divano, pianta, carta da parati, dipinti su vetro presi al muro), insieme alla fotografia del 1910 che ne ha permesso la ricostruzione. Tre volte lo stesso, tre volte delle variazioni. L’aura delle cose si moltiplica e al tempo stesso si volatilizza, diventando insituabile. Qui anche l’immobile tende al mobile, alla fuga, all’aria e ai suoi colori, facendo dimenticare il soffitto basso delle stanze. 

 

 

Le finestre guardano verso il paese e la valle. Il superamento del pensiero positivista e dell’oggettivazione perseguito dal Cavaliere Azzurro passava anche attraverso questo paesaggio e il “processo curativo” che esso prometteva, con la mediazione di tutte le arti convocate. Questa cura seguiva non solo l’ispirazione della natura, ma anche l’arte popolare, i dipinti tradizionali su vetro, i giocattoli o addirittura i disegni dei bambini. Lontani dalle grandi metropoli, tutto concorre a ricostruire un’innocenza perduta da una società che si faceva inesorabilmente tecnologica. Perciò, guardando i mobili colorati da Kandinskij, è ancora un’immagine intima che appare, quella di un’infanzia perduta e ritrovata nell’arte. A cosa serve del resto l’arte se non a ritrovare il momento prima che ogni storia incominciasse, quando forse la pura vita ancora coincideva con se stessa?

La collezione di giocattoli e di arte popolare, di statuette, soprattutto di cavalli e uccellini, sembra essere lì per dircelo. Avere l’infanzia, solo l’infanzia, come ispirazione. Da qui arriva il coraggio di continuare a dipingere, quando non si è riconosciuti come pittori, come capitava a Münter e Kandinskij. E questi due innovatori della pittura del Novecento hanno continuato ossessivamente, senza pausa, a coltivare la loro intimità pittorica con il mondo, in mezzo alle difficoltà. In questi quadri c’è un rapporto con la natura e con il colore che ha a che fare con lo sfamarsi. Si sfamano di colore. 

 

Nei quadri in casa e in quelli che ammireremo più tardi nel castello di Murnau, il paesaggio si fa lentamente astrazione. Il pittore vi scompare dentro ciò che si è realizzato come colore e che ora si compie, annullandolo in quanto soggetto. Astrazione e figurazione appaiono inseparabili. È come se ogni figura ne portasse sempre infinite altre, diventando così astratta dal suo riferimento esplicito. Contemporaneamente ogni pura forma è tutte le figure possibili del mondo, evocandole nella semplicità del suo tratto, che si allontana dagli oggetti del mondo, per non voler cogliere che il mondo stesso.

Accade un po’ come quando si guardano le nuvole e si gioca a scorgere le forme che il loro movimento compone in un continuo flusso di trasformazione di quelle immense masse di vapore visibile. Qui tutto è transizione. Le immagini fuoriescono dal processo di ripetizione e spostamento degli stessi paesaggi e delle campiture di colore che li compongono. Non sono immagini del processo di trasformazione del mondo. Sono il processo stesso in statu nascendi reso in immagine. L’immagine è la trasformazione del mondo. È da lì che ricava la sua potenza.

 

 

D’ora in poi una montagna può diventare cavallo o dal lago può d’improvviso rendersi visibile lo scorrere del giorno, sempre uguale a se stesso, eppure sempre unico. Da un’unica forma emerge la ricchezza delle infinite forme possibili, che sono colore puro. Ecco perché davanti a questi quadri non possiamo dire solo di ammirarne il tratto o l’invenzione, ma che in fondo essi ci permettono di camminare nel colore, di respirarlo, di sfamarci. L’astrazione distrugge la sintassi per dare vita a una grammatica generativa senza termine né fine. Dissolve le strutture, mostrandone la rigidità, per liberare il potenziale di metamorfosi che aderisce dentro ciascuna delle nostre singole cose. Se ci circondiamo di oggetti non è che per nutrire l’illusione di permanenza e di stabilità in un mondo nel quale tutto cambia sotto i nostri occhi. Come una spaziatura che si faccia largo nelle forme prestabilite, questo sguardo permette ora di spaziare verso i monti e dentro la luce che da loro emerge. Permette di vedere un mare sempre in movimento dentro la roccia o i boschi. 

 

 

È perciò da questa insospettabile casetta bavarese con giardino a Murnau che si origina l’esplosione che travolge l’arte del Novecento. Certo, questa esplosione porterà anche all’abbandono da parte di Kandinskij di Murnau per tornare in Russia nel 1913, lasciando Gabriele. Il passaggio può essere artistico solo perché è anche umano. 

Da allora i covoni diventeranno sempre di più le connessioni cosmiche con il cielo. L’esplosione sarà di immensi raggi. Già in questo tranquillo angolo di Baviera sembra ci dicano: da là viene il vivente, viene da tutte le connessioni abitualmente invisibili agli occhi. La pittura ne coglie l’aria, ne ascolta le vibrazioni, accendendo i colori di luce. Non c’è più niente di statico, tutto diviene, tutto è processo infinito, tutto esplode di vita. Per convincersene basta guardare i quadri di quell’ultimo periodo, per esempio il Paesaggio con macchie rosse, n. 2 (1913), ora esposto in un’altra casa, quella veneziana di Peggy Guggenheim. La luce immaterializza il contenuto del paesaggio (per esempio il campanile del paese), rendendolo pura espressione di forma fatta di nulla, se non di colore, cioè di luce. 

 

 

Più che alla scabrosa origine del mondo (che del resto Courbet aveva dipinto già quasi cinquant’anni prima e per cui André Masson dipingerà su richiesta di Jacques Lacan una copertura che la nasconda allo sguardo del visitatore), qui assistiamo a qualcosa come a un’infanzia della terra. Se in Kandinskij e Münter essa ci appare asessuata, è nel senso che qui tutto ha inizio dal colore, principio androgino, madre e padre insieme di tutte le cose. Il colore come non-forma dà origine a tutte le forme. 

Allora l’idillio non era forse tale. O forse la vita tranquilla e all’apparenza così equilibrata di questo angolo di Baviera ha luogo accettando che da una montagna possa scaturire il volto di una donna o di un uomo amati o da amare. L’illusione che le cose abbiano contorni, e così le nostre vite, non poteva trovare una smentita più radicale e insieme più serena che nel colore di questi quadri.

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