36mo Torino Film Festival / “La Flor”: quattro petali, un gambo e una radice

30 Novembre 2018

Comincio con l’intravedere una forma, una specie di isola remota [...] Vedo la fine e vedo l’inizio, ma non ciò che si trova in mezzo. Questo mi viene rivelato gradualmente, quando gli astri o il caso sono propizi. Più di una volta devo ripetere il cammino nella zona d’ombra.

Jorge Luis Borges, Prologo a La rosa profonda

 

Da dove si comincia a parlare di un film di finzioni (il plurale è d’obbligo), che è anche un formidabile saggio sul cinema e sul suo connubio con la pittura, la letteratura, la fotografia, la musica, la politica, la storia? Un film che dura – intervalli inclusi – un po’ più di quattordici ore? Un film che seduce a tal punto gli spettatori da indurli a chiedersi di continuo “e poi? e poi?”, mai sazi, mai stanchi, mai disposti a abbandonarsi alle arti del mago Sabbiolino, perché qui la magia è tutta nelle mani di un regista che sa come tenere sveglio il desiderio e vivo il piacere? 

 

Sono il regista Mariano Llinás e i suoi alter ego scenici (tra cui il drammaturgo, regista e attore argentino Rafael Spregelburd) a dirci, dall’interno del film, quali sono le regole del gioco o, se volete, le istruzioni per l’uso. Lo fanno con tanto di taccuino e penna alla mano, disegnandone per noi in pochi tratti stilizzati la forma “teorica”. Solo che quella “forma” (utilizzata anche per il manifesto del film), combinandosi con il desiderio, non può che essere instabile, ondivaga, scivolosa: potrà assomigliare a un fiore, oppure a uno scorpione. 

 

 

Sherazade di sesso maschile, Llinás ha costruito con La Flor (in questi giorni nella sezione “Festa Mobile” del Torino Film Festival, dopo essere stato presentato a Locarno e al LEFFEST di Lisbona), un film “impossibile”, per dimostrare che il desiderio non si sazia, ma si risveglia, e che il piacere si riproduce all’infinito, fedele solo a se stesso e ai propri volatili, incostanti oggetti. Piacere uditivo e visivo insieme, ben noto ai piccoli della specie umana, dell’ascoltare una favola narrata da una voce/volto/corpo amati sul bordo del sonno. Sempre uguale e sempre diversa. Popolata dagli stessi esseri potenti e elusivi, paurosi e metamorfici: alberi che guardano, fate buone e streghe malefiche, trame costellate di iniziazioni, agnizioni, prove da superare per arrivare a un imprendibile premio finale o forse soltanto all’alba.

 

Ci ha messo dieci anni esatti a concludere (un verbo su cui riflettere) la sua megaopera, il quarantatreenne regista argentino, figlio del poeta surrealista Julio Llinás e discepolo del cineasta Hugo Santiago (il grande “complice” di Borges mancato nel febbraio di quest’anno). A muoverlo all’impresa, come lui stesso racconta, «è stato il desiderio di filmare le quattro chicas che compaiono in larga parte del film». Si riferisce a Pilar Gamboa (divenuta di lì a poco una star televisiva grazie alla serie Los Únicos), Elisa Carricajo (già protagonista di Historias extraordinarias, diretto da Llinás nel 2008), Laura Paredes (attrice e art director) e Valeria Correa (protagonista di El Estudiante, scritto da Llinás e diretto da Santiago Mitre nel 2011). Fondatrici nel 2003 della compagnia teatrale “Piel de Lava” di Buenos Aires (che co-produce il film), Llinás le vede in scena nel 2005 e da allora non abbandona più l’idea di creare un film insieme a loro. 

 

Le protagoniste (da sinistra): Laura Paredes, Pilar Gamboa, Valeria Correa, Elisa Carricajo.


«Il film è fatto per mostrare le attrici», afferma Llinás, «perché potessero farsi oggetto della camera. Le storie sono un trucco per filmarle». Incantato da loro (dalla luce e dall’energia che da loro emana, mutevole e evanescente, sullo schermo), costruisce attorno al corpo, alla mimica facciale, ai gesti, al modo di rivolgere lo sguardo verso l’obiettivo, alla voce di ciascuna, presa a sé e insieme alle altre, una rosa di trame che le contengono e tuttavia non le esauriscono. Un po’, dice il regista, «come Édouard Manet [si veda l'omaggio a lui dedicato nel film] di cui a Parigi, qualche anno fa, ho avuto modo di vedere l’intera opera, scoprendo che le sue modelle erano sempre le stesse, ma le figure dipinte/i personaggi erano sempre diversi. È lì che ho capito che per fare un ritratto credibile bisogna rendere irriconoscibile il proprio modello, provando a dargli una serie di forme successive. Sì, grazie a Manet ho scoperto che è solo attraverso la successione che si può fare un ritratto. Per mostrare il vero volto di un’attrice, bisogna mostrarla in tanti ruoli consecutivi. In La Flor non c’è relazione tematica tra le varie parti, se non in questa mutazione». 

 

Mutazione, viene da aggiungere, che produce una sorta di accumulazione cubista. Dei sei segmenti, spezzoni, bracci (“episodi” non sarebbe la definizione giusta) che compongono il film, i primi tre hanno un inizio, ma non una fine e il quarto non ha né un inizio né una fine. Tutti ricalcano un genere filmico codificato – l’horror alla B-movie, il musical, la spy story, l’esperimento metanarrativo – per sovvertirlo troncandolo sul più bello. «L’idea dei generi non mi è venuta subito», dice il regista. «All’inizio sapevo solo che la prima storia doveva essere stupida e convenzionale, non sofisticata, classica, e avevo chiara anche l’idea per il terzo blocco. Il resto è nato dalla mia relazione con le chicas, dal lavorare con loro.» 

 

In La Flor è dunque il tempo (non lo spazio) a essere cubista. Parte integrante della continuità degli eventi all’interno della narrazione, esso è un evento in sé, paragonabile agli altri eventi, non un semplice contenitore. Tempo multiplo e sfaccettato: all’interno di ogni singola storia, nelle giunture/disgiunzioni tra le diverse storie, nelle trasformazioni dei corpi e dei volti delle chicas dentro e fuori lo spazio filmico, nel ritmo del montaggio sonoro ancor più che in quello visivo di un film plurimo e rigorosamente unitario.

 

La complicità richiesta allo spettatore da questo autore – che, «girando insieme a un gruppo di amici, nei ritagli di tempo, come quando si fanno dei corti o delle pellicole amatoriali, lavorando contro l’industria», si è garantito la libertà di fare uno dei film più anarchici e radicali degli ultimi anni, più innamorati di cinema – nasce senza dubbio come invito a condividere un piacere, a giocare insieme. «Le riprese sono state una successione di picnic tra amici», dice Llinás. «Sì, girare questo film è stato come praticare uno sport, in cui si migliora ogni giorno.» 

 

Mariano Llinás con le protagoniste.


Ecco perché, arrivato al quinto blocco narrativo, il grafico di Llinás imbocca una direzione imprevista e migra altrove, per la prima e unica volta in assenza delle attrici. E così ci troviamo di fronte a un remake di Partie de Campagne di Jean Renoir (1936), «un furto», dice il regista, «non un omaggio». Sulle immagini di questo episodio, mute e in bianco e nero, il regista monta in una straniante lontananza le voci e i suoni dell’originale, annunciando il sesto e ultimo, ma non conclusivo, tuffo delle sue chicas e del suo pubblico all’indietro nel tempo della storia (XIX secolo, fuga di quattro donne tenute in cattività dagli indiani) e del cinema. 

Sfocate, pittoriche, sabbiose, sgranate, queste ultime immagini – che presto si riveleranno non ultime – sono affidate all’improvvisazione delle chicas (due di loro adesso sono incinte), che sembrano jouer a essere se stesse in piena jouissance. La lente dell’obiettivo le allontana e le avvicina, forse si prepara a lasciarle e lasciarci andare, a restituirci alle nostre vite, fuori dal buio della caverna. E d’un tratto, un attimo prima che i lunghissimi titoli di coda comincino a scorrere sulle immagini, il quadro cinematografico si capovolge, il sotto diventa sopra, il cielo diventa terra e esseri umani, animali e alberi si ritrovano a testa in giù. Come a ricordarci non solo il pre-cinema (la stenoscopia e l’immagine ribaltata della camera oscura), ma anche la libertà di immaginare e costruire quel che non c’è o non c’è ancora.

 

Come si distribuisce un film come questo, un atto di suprema libertà che sfida il mercato e le sue leggi? «Ti ricordi», mi chiede di rimando Llinás, «quale fu il film più visto la settimana in cui andò nelle sale Citizen Kane? Qualcuno lo ricorda? Nessuno, perché non importa. I film, se non hanno il diktat di recuperare soldi, si fanno strada alla loro maniera». Ancora una volta, col tempo.

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