Marta Baiocchi. Cercando qualcosa di brutto

27 Settembre 2012

Questa rubrica raccoglie una serie di interventi che esplorano il tema delle forme, della bellezza/bruttezza, da punti di vista molto diversi fra di loro. Ne parleranno storici dell’arte, scrittori, critici, scienziati, musicisti, filosofi, esperti di paesaggio.

 

Marta Baiocchi vive a Roma, dove lavora come ricercatrice nel campo della biologia delle cellule staminali. Suoi racconti sono pubblicati in diverse raccolte e riviste. Il suo primo romanzo, Cento Micron è edito da Minimum Fax (2012).

 

 

Cercavo qualcosa di brutto tra le cose vive, e non l’ho trovato. Ho chiesto a Google un “ugly animal”, e Google mi ha dato questo:

 

 

Cielo! E come si fa a dire che è brutto? Oltretutto è un primate, cioè un parente, e dei parenti, si sa, non si parla male. E d’altra parte, si diceva, siamo tutti parenti in Adamo ed Eva, ma non èra vero, perché in realtà siamo tutti, ma tutti parenti, noi esseri vivi sulla Terra, in quella stringa originale di DNA – di RNA, secondo alcuni – che rimescolandosi, allungandosi, accorciandosi, intrappolando miracolosi errori di battitura, spezzettandosi e ricucendosi, si irradia dentro tutti noi, dal batterio che trasforma il vino in aceto, alle giraffe dagli esili colli, al moscerino che posa sul chicco d’uva, a tutti gli animali che appartengono all’imperatore, ai serpenti che dormono sul fondo degli abissi violacei.

 

Tutti gemmati da una sola molecola originaria, per un gioco della natura, così incredibile e strano, che se ci si pensa tutto viene da dire e da raccontare tranne che sia brutto.

E che sia il caso o la necessità, questa spirale di cose vive che si innalza e cresce su dalla materia inorganica, sembra un’onda che si alza sul mare salendo in alto e sempre più in alto, e genera spruzzi e gocce e particole infinitesimali e minuscoli arcobaleni intorno a sé, e a guardarla tutto fa pensare che cada, da un momento all’altro: prima o poi, ecco, adesso dovrà pur tornare giù, tutta quest’acqua immane, ma non cade, rimane alta e impavida come una zanna o un artiglio proteso. Questa è la vita: un equilibrio precario e instabile in cui la materia si solleva dalla linea dell’orizzonte, e tutto fa pensare che debba cadere, ma non cade.

 

E la bellezza è navigare dentro quest’onda gigante, fatta di tutte le cose vive, che si muove lungo l’acqua piatta, e l’acqua che la compone cambia ad ogni istante, non è mai la stessa, che sia acqua di cristallo, o l’acqua piena di meduse, quella che contiene le alghe marcite, o i piccoli pesci dorati, o i delfini che saltano al sole. Lasciarsi trascinare da quest’onda: è questo che tutte le cose viventi, per caso o per necessità, tutte quante incessantemente fanno.

 

E la bellezza è guardarle, le mille gocce d’acqua e i loro arcobaleni, i loro avvitamenti, i riavvolgimenti. Questa illusione ottica di un correre avanti che è invece anche un ripensarci, un guardarsi indietro, un ritornare.

La bellezza è guardarle, le cose vive.

 

Giocare a capirle, o a far finta di averle capite. Aspettarle al varco, vedere se si mostreranno dove avevi scommesso. Dire sì, ho capito, questo è l’ormone che farà raddoppiare le mie cellule in coltura, questo è quello che le farà diminuire. Qualche volta, le cose vive si muovono davvero come tu avevi previsto, allora ti dai una pacca sulla spalla e ti dici, lo vedi, ci ho azzeccato. Altre volte, spuntano da tutt’altra parte, come lombrichi che entrano nella terra, la bucano, ed escono più in là, chissà dove. Se ci stavi guardando per caso, li vedi uscire con la coda dell’occhio e dici: oh? Ma più spesso saranno spuntati fuori chissà dove: te li sei persi, e non ne sai nulla. Però sai che sono usciti: escono sempre, anche quando tu non li guardi.

 

Così alla fine pensi che tutto della natura è bello, non c’è una cosa sola della natura che sia brutta, certo, la malattia è brutta, pensavi, è brutta la morte, eppure anche la morte…

C’è questa morte cellulare programmata, apoptosi, si chiama, in gergo. La parola viene dal greco, significa il cadere dei petali da un fiore, o delle foglie dagli alberi. Ed è la morte programmata delle cellule del picciolo, infatti, che fa cadere le foglie in autunno. Gruppi di cellule dell’organismo se ne vanno a morte in massa come lemmings, comandati da messaggi precisi e complessi.

 

Perché? Avviene nell’embrione: le mani dell’animaluncolo si formano come palette, o spatoline. Un bel giorno (di gravidanza), cordoni di cellule radiali, lungo le spatole vanno a morte: così si separano tra loro le dita, in tutti gli animali che hanno le dita, compresi quelli che appartengono all’imperatore e quelli disegnati con pennelli di cammello.

 

 

 Avviene, sempre nell’embrione, ai linfociti: le cellule dell’immunità. E infatti, come mai i nostri linfociti reagiscono ai microbi, alle sostanze estranee, rigettano i trapianti, ma non attaccano i nostri stessi tessuti?

Durante la gravidanza, un bel giorno che i linfociti si sono formati da poco, vengono chiamati a raccolta in organi specifici (timo, midollo osseo), e comincia la cernita.

 

“Tu, linfocita, a che rispondi?”

 “Puntura di zanzara”.

“Puoi andare”.

 

“Tu? “

“Virus”.

“Vai”.

 

“Tu?”

“ Alla cartilagine del mio ginocchio”.

“Muori!”

 

Così, l’apoptosi spazza via da subito tutti i linfociti “self”, quelli che potrebbero attaccare i tessuti e le cellule dell’embrione stesso. Un processo di una complessità impossibile da abbracciare con lo sguardo tutta insieme, a cui cooperano centinaia, forse migliaia di molecole diverse, con una coordinazione che una catena di montaggio giapponese fa ridere i (bellissimi) polli.

Ecco, come si può solamente pensare che quello che fanno le cose vive sia brutto?

 

E insomma, ho trovato qualcosa di brutto, mentre lo cercavo?

Beh, sì, alla fine l’ho trovato, e adesso lo mostro. È un mostro.

 

 

Questo è il brutto, bruttissimo, orribile grafico fatto male di una crescita cellulare. Perché se la mia domanda era chi cresce meglio, tra le cellule rosse e quelle blu, sono rimasta senza risposta. Quelle enormi, orribili barre dell’errore significano che l’incertezza su ognuna delle misure è così grande, che non si può veramente dire cosa sia davvero maggiore o minore.

 

Cosa sarà stato sbagliato? Forse alcune delle provette sono state maltrattate. Troppo caldo, poco caldo, troppo tempo tenute fuori dai loro teporosi termostati?

Oppure è solo un errore nella conta: forse stavano bene e crescevano serene, erano cento, ma ne sono state registrate venti.

Forse è un errore di calcolo: bisognava, dopo averle contate, moltiplicarle per cinque, e sono state moltiplicate ora per due, ora per dieci, come l’estro dello studente gli ha ispirato?

 

Ecco, per chi cerca di spiare le cose vive, questa è la cosa più brutta: un esperimento venuto male, un esperimento che non dà nessuna risposta, perché hai contato male, perché è andata via la corrente, perché è successo qualcosa di cui non ti sei accorto. Perché ti sei accostato a ciò che volevi vedere senza attenzione, senza pazienza.

Le cose vive, questo, non lo perdonano.

E allora, l’unica cosa è ricominciare, domani è un altro giorno, e domani, si spera, se faremo meglio, se guarderemo con più attenzione, avremo un grafico bello: così.

 

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