Un'autobiografia psichica / Emmanuel Carrère, Yoga

15 Giugno 2021

In Yoga (Adelphi, 2021), Emmanuel Carrère è preoccupato di farci sapere che quello che racconta in questo suo ultimo libro "è tutto vero". Quando pensa al genere di letteratura che fa, Carrère è fermamente convinto di una cosa: "la letteratura è il luogo in cui non si mente" (corsivo dell'autore), "le cose che scrivo forse sono narcisistiche e vane, ma non sono false". E si premura di spargere, nel corso del romanzo, indizi che avvalorano questa sua, non si sa fino a che punto sincera, presa di posizione: cita i nomi di alcune persone assassinate durante l'attentato terroristico a Charlie Hebdo (uno era davvero un suo amico); incontrando Jean-François Revel (vero padre di Matthieu Ricard, braccio destro del Dalai Lama in Francia) al supermercato, nota che ha il carrello pieno di bottiglie di vino; ci informa che è amico di Michel Houellebecq e che conosce "un po'" Alessandro Baricco; fa un ritratto commovente del suo primo editore, dicendo che lo aveva contattato perché pubblicava i libri di Georges Perec; riferisce dell'incontro, all'inizio della sua depressione, con Wyatt Mason, un giornalista americano che scrive otto pagine su di lui sul New York Times e dell'esecuzione pianistica di Martha Argerich dell'"Eroica" di Chopin ("Immagino che, dopo aver letto il capitolo precedente, abbiate digitato 'martha argerich polacca eroica' e che l'abbiate – il video, n.d.r. – guardato anche voi. Forse anche a voi è piaciuto. Forse anche voi avete inviato il link alle persone a cui volete bene"). Tutto vero, e verificabile con un click su Google.

 

"Non per vantarmi, ma posseggo un autentico talento nel trasformare una vita a cui non manca niente per essere felice in un vero e proprio inferno, e non permetto a nessuno di minimizzare questo inferno: è reale, terribilmente reale". Come se non bastasse, il libro è diventato oggetto di una spasmodica attenzione mediatica. La sua relazione con quei segnali che ne determinano la ricezione da parte del pubblico, sembra orientata nella stessa direzione: la ex-moglie di Carrère, Hélène Devynch, lo "sbugiarda" su Vanity Fair, affermando che Yoga racconta "una storia falsa" e che gli omissis del romanzo, in cui Carrère sostiene di non parlare dei suoi familiari per non ferirli, non sarebbero altro che il frutto di una costrizione legale a cui gli avvocati lo avrebbero obbligato. Così facendo, rafforza per contrasto l'ipotesi che il contenuto di Yoga sia invece vero, come ci prega di credere Carrère. In una intervista rilasciata a Anaïs Ginori su venerdì di Repubblica lo scrittore dice che, a causa degli avvocati, ha dovuto inserire brani di finzione nel romanzo, facendone "un libro impuro". Il discrimine di questa contaminazione cade, parafrasando Freud, sull'inconscio e sul suo manifestarsi come linguaggio. Lo sforzo di raccontare le cose più intime di sé usando l'"io", gettava già un sospetto di impurità su questo libro, anche senza gli avvocati, perché le cose più vere appartengono all'inconscio, l'"io" che parla non le può sapere e tanto meno raccontare.

 

Un insegnante esigente come Francesco Orlando, autore di Per una teoria freudiana della letteratura (Einaudi, 1973) lo rilevava, quando interrogava gli studenti all'esame: "l'equivoco continuo fra il testo di un'opera, la vita del suo autore, la sua fortuna nel tempo, il suo rapporto con l'epoca propria, il suo posto nel sistema letterario" caratterizzava le argomentazioni "degli impreparati". E sottolineava che "le principali vie della critica moderna furono aperte all'inizio del nostro secolo dal superamento delle confusioni grossolane fra realtà propria dei testi e realtà biografica". Che sia vero o falso quello che Carrère racconta in Yoga non è quindi essenziale. L'inconscio dell'autore parla altri linguaggi, magari includendovi vicende vere della sua vita come sintomi e ripiegando quindi sulla sua persona, ma non necessariamente "nella speranza che quello che mi succede, possa avere una portata di superamento del sé" (dall'intervista a Anaïs Ginori). Sul tema dell'autobiografia aveva sollecitato le nostre riflessioni di lettori anche Walter Siti, nell'"avvertenza" a Troppi paradisi (Einaudi, 2006): "Anche in questo romanzo, il personaggio Walter Siti è da considerarsi un personaggio fittizio: la sua è una autobiografia di fatti non accaduti, un facsimile di vita. Gli avvenimenti veri sono immersi in un flusso che li falsifica, la realtà è un progetto, il realismo una tecnica di potere. Come nell'universo mediatico, anche qui più un fatto sembra vero, più si può stare sicuri che non è accaduto in quel modo".

 

Se il lettore avvertito non deve mai mischiare l'opera con la vita dell'autore, sovrapponendole, anche l'autore, se sceglie di parlare di sé, deve maneggiare con cura il suo "io", quando trasforma la sua avventura umana in oggetto letterario. Il sofisticato Carrère fa tesoro del consiglio del suo vecchio psicanalista, François Roustang, che esiste davvero e che gli dice, a proposito della sua depressione: "Quello che sta vivendo è orribile: bene. Lo viva. Vi aderisca. Sia quell'orrore. Se deve morirne, ne morirà. Non cerchi né ragioni né mezzi per uscirne. Non faccia niente, lasci perdere: solo così può verificarsi un cambiamento".

 

 

Del resto il vero/falso è uno dei temi ricorrenti nelle opere di Carrère: c'era nell'Avversario, la storia di un mentitore patologico, in Vite che non sono la mia, dove l'esperienza del dolore svelava maschere e identità nascoste, perfino nel Regno dove Carrère parla ancora di sé, e dice di vivere "nel culto e nella cura perpetua della propria persona". Carrère deve sempre convincere il lettore della verità di ciò che dice e di cui – notava Luigi Grazioli in una recensione al Regno – dichiara ogni volta lo statuto: "che creda che è vero quando dice che è vero, e che lo è anche quando dice che non è vero alla lettera, ma in qualche altro modo: che lui pure 'senta' la verità dell'accento anche nell'invenzione e riconosca le marche stilistiche che le conferiscono flagranza, o adotti lui pure come guida il 'criterio dell'imbarazzo', secondo il quale quando una cosa è imbarazzante per chi la scrive, è molto probabile che sia vera".

 

Chissà perciò se è vero che uno scrittore importante come Carrère, che ha superato la sessantina, sia stato attirato da una pratica "tanto alla moda" (lo dice lui a pagina 43) come lo yoga o se non sia questo nient'altro che un pretesto letterario, perché il suo unico, vero problema ("un problema da ricchi"), confessa all'inizio, è "un ego ingombrante, dispotico" di cui aspira a ridurre il potere. Per questo si avvicina alla meditazione, "che cambia la postura. Cambia la respirazione. Cambiano i pensieri. Cambiano perché tutto, in ogni caso, cambia, ma cambiano anche perché li si osserva. Quando si medita, non si fa e soprattutto non si deve fare nient'altro che osservare". Per lui, che dice di essere "narcisista, instabile e ossessionato dall'idea di essere un grande scrittore" l'autobiografia psichica e il saggio sullo yoga sono, o meglio diventano, lo stesso libro. Dallo yin nasce lo yang, dallo yang lo yin e l'uomo saggio è colui che si abbandona alla corrente, lasciandosi trasportare da un polo all'altro. Il libro trova infatti la sua unità in questa complementarità perché, dice Carrère "la mia vita, la mia povera vita infelice e a volte viva e a volte capace di amore, non è stata solo illusione sfacelo e pazzia, e dimenticarlo è un peccato mortale. (...) E sono sicuro che questo possa essere un buon libro, un libro necessario, in cui i due poli riusciranno a convivere: l'incessante aspirazione all'unità, alla luce e all'empatia e l'opposto, potente richiamo alla divisione della chiusura di sé, della disperazione".

 

La ex-moglie rivela implacabile, sempre a Vanity Fair, che dopo i quattro mesi di ricovero nell'ospedale psichiatrico di Saint-Anne non è vero che lui abbia passato due mesi tra i rifugiati sull'isola greca di Leros: "i due mesi del libro sono solo pochi giorni, in parte in mia compagnia". Eppure il racconto di Leros, dei giovani Atiq, Hamid, Hassan, il ritratto dell'americana Frederica sono le pagine più belle e più vive di Yoga, anch'esse contaminate dal dubbio del vero e del falso: quei ragazzi migranti, con vite così sfuggenti a una classificazione nel "reale" – si sa a mala pena da dove vengono e non si sa dove andranno, rinchiusi nel non-luogo di quel campo di accoglienza, uno di loro a un certo punto sparisce e non se ne saprà più niente – usano un racconto tipo per ottenere lo status di rifugiato politico "e in questo racconto tipo il bambino imbottito di oppio e poi abbandonato agli avvoltoi sulla montagna è una tappa obbligata: ora non voglio dire che il ragazzo che hai conosciuto non abbia assistito davvero a un fatto del genere, dico solo che non può succedere ogni volta" gli svela un'amica che lavora per una ONG, a proposito della storia che gli aveva raccontato Atiq. Anche Frederica, condivide con lui il racconto di una vita al limite dell'invenzione: la gemella schizofrenica scomparsa nel nulla, il volontariato nella "scuola di scrittura" per i rifugiati, il viaggio verso l'Australia alla ricerca del figlio, ma partendo con soltanto una piccola borsa da viaggio, come se già sapesse che là non sarebbe mai arrivata.

 

La finzione della verità e del "non detto" è più avvincente del "tutto vero" della degenza psichiatrica di Carrère, con le quattordici sedute di elettroshock cui si sottopone e la sua agghiacciante "richiesta di eutanasia". Insistere sulla "verità" del racconto come fa lui nel libro e in tutte le interviste è l'unica, "falsa" pista obbligata sulla quale lo scrittore può instradare il lettore, una volta effettuata la scelta di trascinarlo nel vortice della trasparenza, dell'autoindulgenza e del masochismo punitivo, in questo romanzo-verità che, a prescindere dall'autenticità delle storie che vi si raccontano, rappresenta una sfida. Quella che Carrère si è dato, qui molto più che nei romanzi precedenti: la libertà di debordare con il suo "io", in una vita, vera e immaginata, vissuta fra luce e tenebre, dove "è fondamentale, nelle tenebre, ricordare di aver vissuto anche nella luce e che la luce non è meno vera delle tenebre". Un "tira e molla" che è più o meno la storia di tutti gli uomini ma che in lui "è portato all'eccesso, è patologico, ma siccome sono uno scrittore posso farne qualcosa. Devo farne qualcosa". Con l'ambizione, molto letteraria, che la sua "triste storia personale" possa "diventare universale". 

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