Il canto del fuoco / Quando Leonard Cohen partì per il fronte

17 Aprile 2022

Leonard Cohen non credeva nel mondo di pace immaginato da John Lennon, un mondo senza nazioni, proprietà privata o religioni. “Non ho una canzone dal titolo Give peace a chance”, dichiarò in un’intervista sette mesi prima della guerra del Kippur. “Potrei scrivere una canzone sulla guerra e, se la cantassi in una maniera pacifica, allora avrebbe lo stesso messaggio. Non mi piacciono questi scrittori di slogan”. In un’altra intervista dichiarò che “la guerra è una delle rare circostanze in cui gli uomini danno il meglio di sé”. Era anche dell’avviso che la cultura derivi dalla lealtà verso una lingua, un gruppo, un luogo, e che soltanto il nazionalismo sia in grado di produrre arte.

 

In una delle sue canzoni si presentava ironicamente nei panni di Field Commander Cohen – il comandante da campo Cohen – e a un certo punto battezzò la band che lo accompagnava in tour The Army – l’Esercito. Il padre, Nathan Cohen, s’era guadagnato delle decorazioni durante la Prima Guerra Mondiale, e se non fosse morto quando Leonard aveva solo nove anni, con ogni probabilità avrebbe indirizzato il figlio verso la carriera militare. Sognava di vederlo in divisa all’Accademia di Kingston, forse in trincea. Fatto sta che Leonard fu attratto dalla vita militare per buona parte della sua vita. “Non ho alcun desiderio di sparare in faccia a qualcuno”, dichiarò anni dopo, “ma considerando quanto siamo pigramente indisciplinati, selvaggi e avidi, quando in effetti riesci ad avere alcune persone organizzate con dei vestiti puliti, uno stile di marcia gradevole e un’abitudine alla disciplina e all’obbedienza, penso che sia quasi una sorta di miracolo. E questi sono gli stessi metodi dei monasteri, o di qualunque forma di addestramento. Questo concetto di addestramento ha sempre suscitato il mio interesse e l’esercito è stato, tradizionalmente, un luogo dove giovani uomini vengono addestrati”.

 

 

Sul finire del 1972, dopo la nascita del figlio Adam e in piena crisi personale, Cohen lasciò Montreal per la California. Il poeta americano Steve Sanfield gli aveva parlato di un maestro zen chiamato Roshi che l’anno prima aveva fondato il Mt. Baldy Zen Center nella contea di San Bernardino. Leonard ci arrivò che nevicava, e dopo soli tre giorni si rese conto che intorno a lui era in atto una “vendetta della Seconda Guerra Mondiale”: un maestro giapponese e un monaco tedesco di nome Gershin imponevano a dei ragazzi americani di camminare con i sandali nella neve fresca alle tre del mattino (shivering and farting in the moonlightrabbrividendo e scoreggiando al chiaro di luna, scrisse nella poesia The Energy of Slaves). Cohen resistette tre settimane appena. La disciplina tanto agognata, unita al freddo polare, si rivelò troppo dura. Noleggiò una macchina e si diresse a Tijuana, in Messico, dove chiamò la compagna Suzanne (non quella della canzone), supplicandola di raggiungerlo e di volare con lui ad Acapulco.

 

Leonard Cohen era in crisi nera. Sul piano personale e sul piano artistico. Sempre dalla raccolta The Energy of Slaves:

 

Where are the poems

That led me away

From everything I loved

 

(Dove sono le poesie che mi allontanarono da tutto ciò che amavo?).

 

E ancora:

 

I have no talent left

I can’t write a poem anymore

You can call me Len or Lennie now

 

(Il mio talento è perduto. Non so più scrivere una poesia. Adesso mi puoi chiamare Len o Lennie).

 

Altrove – Life in 1973 – scrive:

 

 

A un certo punto sono stato un cantante famoso con il mio gruppo. Ho incontrato un sacco di ragazze strada facendo. Andavo matto per le ragazze, e dopo un po’ andavo matto solo per la fica. Non me ne frega niente di ciò che pensi della dignità umana, perché la dignità non mi contempla. Non mi importa chi sei e quale nobile forma di tortura rappresenti. Puoi anche chiudere questo libro.

 

Quando, il 6 ottobre del 1973, giorno della festività ebraica di Yom Kippur, giorno del digiuno, giorno dove in Israele ogni attività umana si ferma, le truppe siriane ed egiziane decidono, a sorpresa, di sferrare un attacco armato contro Israele, Leonard Cohen è un uomo depresso, sprovvisto di piani a breve, medio o lungo termine. Sulle riviste dell’epoca si parla ormai di un prossimo ritiro dalle scene. Lo stesso Cohen, in tono solenne, dichiara a Melody Maker: “È finita. Auguro buon lavoro a tutti nel mondo del rock. Non voglio essere parte di tutto questo. Ho delle canzoni nella mente ma non so come dar loro voce. Ad ogni modo, me ne vado”. All’epoca dell’attacco militare a Israele Leonard è sull’isola di Idra, in Grecia, con la compagna Suzanne e il figlio Adam (“vivo qui con una donna e un bambino, e la situazione mi rende un po’ nervoso”). Su un taccuino rimasto a lungo inedito, Cohen immagina un dialogo di coppia: 

 

Le dissi: “Considerando che le cose fra noi vanno malissimo andrò a fermare i proiettili dell’Egitto”. (…) Mi disse: “Perfetto. Allora posso suicidarmi e il bambino finirà nelle mani di estranei”.

 

E ancora:

 

“È più facile andare che rimanere. L’eccitazione della guerra è preferibile a questo tormento di calore e di monotonia. Andarsene è la strada più facile. Andarsene è un alibi. Non siamo fatti per la strada più facile”.

 

 

È la guerra a chiamare Leonard Cohen o dobbiamo piuttosto credere che si aggrappi alla guerra per sfuggire all’apatia che lo sta soffocando? Forse entrambe le cose. In fretta e furia Leonard s’imbarca sul primo aereo per Tel Aviv. Con quali intenzioni? Non è del tutto chiaro. Di sicuro sappiamo che non porta con sé la chitarra. A chi gli chiede lumi dice di voler andare a lavorare in un kibbutz come volontario, così da permettere ai ragazzi israeliani di andare a combattere. Giunto a destinazione viene invitato a seguire i cantanti israeliani diretti al fronte per intrattenere le truppe. Cohen tentenna: “le mie canzoni sono tristi, come Bird on a wire, riuscirei solo a deprimerli”. Alla fine però si lascia convincere. Si fa prestare una chitarra da uno dei musicisti e parte alla volta del deserto del Sinai.

 

Il racconto di quei giorni, un periodo cruciale della vita di Leonard Cohen ma di cui si è sempre saputo poco e che persino i biografi avevano fin qui ricostruito soltanto per sommi capi, è oggetto di un bellissimo libro pubblicato da poco dall’editore Giuntina. L’ha scritto un giornalista israelo-canadese, Matti Friedman, firma del New York Times che aveva esordito nel 2012 con The Aleppo Codex: A True Story of Obsession, Faith, and the Pursuit of an Ancient Bible. Nell’originale inglese questo nuovo libro si rifà al titolo di una celebre canzone di Cohen, Who by fire, a sua volta ispirata alla preghiera ebraica Proclamiamo la validità della santità di questo giorno:

 

A Yom Kippur viene decretato

Quanti se ne andranno e quanti nasceranno

Chi vivrà e chi morirà

Chi sarà giunto alla fine dei suoi giorni e chi no

Chi a causa dell’acqua e chi a causa del fuoco,

Chi a causa della spada e chi a causa di una bestia selvaggia

Chi per fame e chi per sete…

 

La versione italiana del libro, nella traduzione di Rosanella Volponi, prende invece il titolo de Il canto del fuoco. Leonard Cohen e l’incredibile tour del 1973 del Sinai, pag. 240, € 18.

 

Friedman è un narratore abilissimo e di grande acume, un narratore a cui riesce il non facile compito di intrecciare la cronaca di quei giorni di guerra al difficile momento che stava vivendo Cohen, sovrapponendo il destino di un uomo a quello di un paese, il lacerante conflitto di un poeta che si considerava un indomito peccatore, alle ansie e le speranze di un intero popolo.

 

La voce interiore disse: tornerai a cantare solo se saprai rinunciare alla lussuria. Scegli. Questo è un posto per ricominciare. Ma io voglio lei. Lasciatemela avere…

 

 

Di quel frammento di vita di Cohen nel 1973 sono rimaste poche tracce. Qualche fotografia, rari articoli apparsi sui quotidiani israeliani dell’epoca, i ricordi dei soldati scampati alla guerra e dei cantanti che accompagnarono Leonard in quel giro di concerti, ma soprattutto un taccuino redatto sull’isola di Idra una volta rientrato da Israele a fine conflitto, e che fin qui era rimasto inedito. Friedman nel libro ne riporta degli ampi stralci. Troviamo ad esempio menzione dell’incontro con il futuro Primo Ministro Ariel Sharon, incontro di cui si è tramandata anche una surreale testimonianza fotografica: Leonard Cohen intento a cantare e, alla sua destra, fra i soldati, la figura dell’allora generale. Nel taccuino Leonard annota:

 

Viaggiamo verso Ismailia. Ci fermiamo nella postazione più avanzata. Paesaggio desertico, i carri armati la sola architettura. Vengo presentato a un generale importante, “Il Leone del Deserto”. Rendo omaggio alla sua vitalità e, silenziosamente, domando: “Come osi?”. Lui non si pente. Beviamo del cognac seduti sulla sabbia all’ombra del carro armato. Voglio il suo lavoro.

 

Leonard Cohen cantò per le truppe israeliane nei luoghi più disparati. Sempre dal taccuino:

 

Cantavamo ovunque ci fosse un gruppo di uomini, qualche volta in sale per centinaia di persone, o accanto alle batterie antiaeree per dieci, venti persone. Qualche volta c’erano le luci, altre volte era necessario usare delle torce. Cantavamo ovunque ce lo chiedessero. (…) Mi si sono formati i calli sulle punte delle dita. C’erano degli indizi qua e là che ciò che facevo era utile.

 

Nel deserto Cohen scrisse anche una canzone che, l’anno dopo, sarebbe confluita sul disco New Skin for the Old Ceremony, al pari di Field Commander Cohen e Who by fire. Si tratta di Lover Lover Lover, che si apre su questi versi:

 

I asked my father

I said, “Father, change my name

The one I’m using now it’s covered up

With fear and filth and cowardice and shame”.

 

(Interpellai mio padre

Dissi: “Padre, cambia il mio nome

Quello che porto ora è coperto

Di paura e sporcizia, di viltà e vergogna”).

 

Dalle testimonianze dei musicisti che accompagnarono Cohen in quel tour scopriamo che Leonard chiese loro di chiamarlo non con il nome con cui era registrato all’anagrafe, Leonard appunto, ma con il suo nome ebraico, Eliezer

 

 

Friedman nelle sue ricerche è anche riuscito a risalire a una strofa perduta della canzone, una strofa che Cohen cantò per i soldati nel deserto ma che non avrebbe mai più intonato in seguito:

 

Sono andato nel deserto

Per aiutare i miei fratelli a combattere

Sapevo che non avevano torto

Sapevo che non avevano ragione

Ma le ossa devono alzarsi in piedi e camminare

E il sangue deve circolare

E gli uomini vanno, tracciando delle brutte linee

Su un terreno sacro.

 

Sempre nel taccuino, Leonard scrive:

 

Dissi a me stesso: forse posso proteggere qualcuno con questa canzone.

 

Presentando Lover, Lover, Lover in concerto, Cohen aveva accortezza di sottolineare come la canzone fosse stata scritta “per gli egiziani e gli israeliti durante la guerra del Sinai”. Non soltanto per i fratelli ebrei dunque, ma anche per gli egiziani. Non tutti in Israele la presero bene. Dieci anni più tardi, in Book of Mercy (Il libro della misericordia), pubblicato dopo la guerra del Libano, Cohen avrebbe usato parole di fuoco nei confronti dello stato ebraico:

 

Israele, e tu che chiami te stesso Israele. La Chiesa che chiama sé stessa Israele, e la rivolta che chiama sé stessa Israele, e ogni nazione scelta per essere una nazione, nessuna di queste terre è vostra, voi tutte siete ladre di santità, voi tutte siete in guerra con la Misericordia. Chi lo dirà? (…) Pertanto voi dominate sul caos, issate le vostre bandiere senza alcuna autorità, e il cuore che è ancora vivo vi odia, e ciò che resta della Misericordia si vergogna a guardarvi.

 

Il libro di Matti Friedman è un’opera rilevante per l’appassionato e lo studioso di Leonard Cohen, un testo che mancava, il racconto è avvincente, ben documentato e scritto benissimo, ma offre anche uno sguardo originale su un conflitto che ha segnato profondamente la storia dello stato di Israele e, con ogni probabilità, di tutto il Medio Oriente. Una guerra, come scrive Friedman, anche chiamata “Guerra di Espiazione, come se fosse una penitenza per la superbia e la cecità che l’avevano preceduta, per i fallimenti di leadership che lasciò i soldati israeliani esposti all’aggressione il 6 ottobre 1973”.

 

La musica e le canzoni, e non soltanto quelle di Leonard Cohen, sono al centro della narrazione, ma lo sono in modo pertinente e mai pretestuoso. Anche qui Friedman è abilissimo nell’attribuire al “cantare per le truppe al fronte” il giusto rilievo, suggerendo come certe canzoni abbiano facoltà non solo di risollevare il morale ai combattenti o di distogliere temporaneamente dall’orrore della guerra, ma anche di determinare un nuovo modo di sentire collettivo:

 

Quando in Israele le persone dicono che la Guerra dello Yom Kippur ha ucciso la fisarmonica, intendono dire che, dopo quella guerra, la musica e la cultura furono diverse. La guerra screditò la vecchia leadership politica, il ‘noi’ collettivo e la colonna sonora nazionale comunemente accettata, fatta di canzoni popolari e di troupe militari.

 

Poche canzoni seppero rappresentare questo mutamento come Lu Yehi, ispirata al classico beatlesiano Let it be e composta dalla cantante Naomi Shemer. Sempre Friedman:

 

La canzone sembra aver avuto, al tempo, un effetto dirompente, aprendo una piccola crepa nella rigida immagine pubblica della generazione dei padri fondatori. Quando la Shemer andò a cantare in un kibbutz che aveva perso otto dei suoi figli nella guerra, per esempio, i compagni erano seduti in cerchio intorno al suo pianoforte, nel refettorio. Fino a quel momento, nessuno nel kibbutz Giv’at Haim aveva espresso il proprio dolore pubblicamente. Sentimentalismo e autocommiserazione erano esecrabili per gente che era sopravvissuta alla catastrofe in Europa e aveva voluto con tutte le sue forze che ci fosse, contro ogni previsione, uno Stato ebraico. Quando la Shemer suonò ‘Lu Yehi’ uno dei compagni cominciò a piangere. Altri lo seguirono. Queste erano le prime lacrime pubbliche del kibbutz, ed era la prima volta che accadeva qualcosa del genere. ‘Questa canzone’ ha detto il figlio della Shemer, ‘ha dato alle persone la possibilità e il diritto di piangere’.

 

Chava Alberstein, “Lu Yehi”

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