Adattare Joe R. Landsdale

3 Febbraio 2015

Partiamo da Lansdale. Dalla sua passione per il genere. Tutti i generi: dall’horror al pulp, dal noir alla fantascienza, dal western all’action virato al buddy buddy, e per tutte le forme nel quale una storia può essere raccontata. Quelle che ha praticato come autore, il romanzo, il racconto, il fumetto, e quella che ha amato come spettatore, il cinema. Partiamo dal fatto che il materiale di uno dei più fecondi e affascinanti creatori di immaginari contemporanei, maestro del pastiche e profondamente imbevuto di codici cinematografici, non sia mai stato, fino ad oggi, fatto oggetto di un adattamento per il grande schermo. Con la godibilissima eccezione degli omaggi, naturalmente circoscritti alla sua produzione horror, che gli ha tributato Don Coscarelli, con Bubba Ho-Tep (da noi direttamente in home video) e con l’episodio Panico sulla montagna per la serie Masters of Horror. Partiamo da qui perché è da qui che è partito Jim Mickle. Di quasi trent’anni più giovane, Mickle nutre una sterminata ammirazione per Landsale, e con il suo maestro letterario condivide naturalmente la passione per l’horror imbevuto di ironia e sarcasmo (come dimostrano i suoi due primi, e introvabili, lungometraggi, Mulberry St. e Stake Land), e la capacità di lavorare sull’immaginario. Di mescolare tradizioni e enciclopedie visive per metterle al servizio di una messa in scena della società filtrata attraverso la lente dei codici e delle convenzioni. In We are what we are, presentato nel 2013, come Cold in July, alla Quinzaine de réalisateurs di Cannes, sceglie la via del remake, e trasforma un horror politico e metafisico come il messicano Somos lo que hay (perdizione, deriva e riscatto di una famiglia di cannibali) in un gotico rurale “classico”.

 

Con Cold in July il lavoro derivativo produce uno scarto, e l’opera di traduzione (da un sistema socio-culturale e da un immaginario a un altro) diventa ri-edizione, riuscendo letteralmente a tradurre in immagini le parole del romanzo, e insieme a recuperare le fondamenta cinematografiche che stanno alla base della scrittura di Lansdale. La sensazione, insomma, è che Mickle riesca a fare il film (anzi: l’insieme di film) che Lansdale avrebbe guardato da spettatore per scrivere il suo libro. La trama è praticamente la stessa, al netto di qualche semplificazione e alleggerimento di sub-plot laterali: un borghese texano piccolo piccolo, il corniciaio Rich (Michael C. Dexter Hall), si sveglia nel cuore della notte, sorprende un ladro nel soggiorno di casa e il dito gli scivola troppo facilmente sul grilletto. Mentre la polizia archivia in tutta fretta il caso, dal passato arriva un avanzo di galera, Russel (Sam Shepard) convinto che il malcapitato rapinatore sia il figlio che non vede da una vita, e decide di dare il tormento al bravo padre di famiglia. In realtà si tratta di una macchinazione della polizia locale, e l’improbabile coppia si mette sulle tracce della verità, e del vero figlio perduto, con l’aiuto di un detective con cappello da texano, Jim Bob (Don Johnson). Se nell’originale Lansdale mantiene tutti i registri in parallelo (il noir, il western, il pulp con venature horror e la consueta dissacrante ironia), Mickle sceglie di procedere sequenzialmente lungo tre film differenti.

 

Il film di assedio familiare, per la prima ora, il revenge film, e il western, negli ultimi venti minuti. A segnare il cambiamento di passo, due arrivi: quello di Don Johnson sulla sua Cadillac rossa targata Texas Red Bitch (una delle immagini-feticcio del film) e il ritorno di Rich per riunirsi ai due compagni e partecipare alla resa dei conti finale. A tenere la barra dritta longitudinalmente l’oscillazione continua tra deviazione ironica e iperbole splatter. La strada è mostrata in una delle prime sequenze del film, in cui Rich, assassino per caso, ritorna a casa dopo la deposizione all’ufficio di polizia. Trova la moglie seduta in soggiorno, lo sguardo fisso davanti a sé, e le si siede accanto. In controcampo la macchina da presa carrella in avanti verso la parete, autentico altarino domestico (divano, mobiletto, vecchio orologio, foto di famiglia e quadro appeso alla parete), è ancora coperta di sangue (un’altra immagine feticcio). I bravi genitori si apprestano alla pulizia, mentre parte in soundtrack un classico di James Carr, Forgetting you. Bisogna chiudere con cartone e nastro adesivo il buco nella finestra, togliere il quadro insanguinato (e scoprire il buco nel muro lasciato dalla pallottola), sciacquare la foto del bimbo, e pulire le gocce di sangue dal quadrante dell’orologio, spazzolare la moquette e togliere gli schizzi sul muto bianco, e poi ricoprire di nuovo il divano con un telo, e spruzzare il deodorante. Si svuota nel water il secchio pieno d’acqua sudicia e si indugia davanti alla tazza, dopo aver tirato lo sciacquone, come dopo una normale minzione notturna. Al bambino che arriva insonnolito davanti alla porta del bagno si può dire che è ora di tornare a letto.

 

 

Svelare e ricoprire, togliere le tracce, vedere e nascondere. Tornare a quello che è successo prima. Il Rich con la faccia di Dexter ha la normalità patologica del Tom Stall di A History of Violence di Cronenberg, non gestisce ma frequenta un diner nel quale può ricevere sostegno e complimenti per le sue azioni, ha una moglie bionda alla quale può mentire. Il passato da scoperchiare non è il suo, ma quello di Russel, eppure partecipa ugualmente all’espiazione. Il vecchio soldato ex galeotto si mette sulle tracce del figlio perduto per fare perdonare le sue colpe (l’abbandono), ma scopre che sono le colpe del figlio (colluso con la mafia del Sud del Texas e regista-attore di snuff movie in cui uccide a colpi di mazza da baseball le ragazze reclutate per i porno amatoriali) a non poter aver redenzione. Il vecchio arnese che non ha il coraggio di vendicarsi sul figlio di Rich si vedrà costretto, insieme a Rich e a Jim Bob, a uccidere il suo stesso figlio, dopo che questi li ha colpiti, tutti e tre, uno per uno. Non si salva niente nel Texas di Lansdale (come in quello di Corman McCarthy) e di Mickle: le istituzioni sociali (la famiglia, luogo di menzogna, la polizia, che confonde la giustizia con la vendetta), i legami di relazione, il ruolo del padre e il potere catartico del figlio. Rimane soltanto la forza di un’amicizia virile che è letteralmente brotherhood, perché costruita sul sangue che ci si è risparmiati a vicenda (Russel grazia Rich, Rich salva Russel, Russel in passato ha salvato la vita a Jim Bob, Jim Bob viene in soccorso di Russel, e tutti e tre si coprono le spalle nella mattanza finale), e che insieme si sparge, senza pietà, come cowboy, come assediati dall’interno in un fortino al contrario, come giustizieri.

 

Rich ritorna completamente trasformato al suo interno domestico, entra in casa, con l’orecchio tumefatto da un colpo di pistola e bendato, e si sdraia sul letto dove dormono moglie e figlio. Nessuno si accorge di nulla, forse nemmeno della sua assenza. Russel e Jim Bob rimangono al loro ranch, a giocare a carte e bere birra. Lansdale è pronto ad un’altra storia. Mickle, con il fido co-autore Nick Damici, è pronto a scrivere una serie per il Sundance Channel sulle avventure di Hap and Leonard.  E tutto riprende il suo corso. In Texas. E nel cinema.

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