La Valle del Perturbante / Uncanny Valley, Silicon Valley

1 Dicembre 2020

La Valle del Perturbante, in inglese “the Uncanny Valley”, è una curiosa distorsione cognitiva ipotizzata dallo scienziato giapponese Masahiro Mori nel 1970, quando in Giappone si lavorava a film e cartoni animati con effetti speciali sempre più realistici. Man mano che queste creature assumevano forme sempre più simili agli esseri umani, il gradimento dello spettatore cresceva. Ma a un certo punto quelle creature diventavano sempre più inquietanti e repellenti e mettevano ansia, finché la tendenza si invertiva. Per definire questo effetto, Mori ha utilizzato uno dei termini chiave del lessico psicanalitico: per Freud i l perturbante (Das Unhemlich) è “quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare” (Il perturbante, 1919). È qualcosa che ci inquieta e atterrisce, perché lo conoscevano già. Ma non sappiamo riconoscerlo.

La controversa ipotesi della Valle del Perturbante ha affascinato i maghi giapponesi della robotica come Hirata Ishiguro, lo scienziato che tiene conferenze in tutto il pianeta grazie a un suo doppio che egli stesso anima da remoto, a migliaia di chilometri di distanza. Più di recente i Rimini Protokoll, in uno spettacolo dal titolo appunto The Uncanny Valley hanno portato in scena lo scrittore Thomas Melle, o meglio un suo doppio robotico di impressionante somiglianza, con la scatola cranica aperta per mostrare l'intrico di fili, pulegge e circuiti integrati che anima il sofisticato burattino.

 

 

The Uncanny Valley è ora il titolo originale di La valle oscura, appena pubblicato da Adelphi, l'illuminante memoir in cui Anna Wiener ripercorre la sua carriera nelle start up tecnologiche della Sylicon Valley. È una giovane umanista poco più che ventenne quando si catapulta dalla New York delle case editrici, delle librerie e delle agenzie letterarie, con impieghi iperqualificati e sottopagati, alla San Francisco degli ingegneri e dei venture capitalists, dove un pugno di maschi bianchi ventenni che hanno abbandonato il college diventano miliardari in pochi mesi attraverso la “distruzione creativa” del vecchio mondo e plasmando la realtà in cui viviamo tutti. O meglio, queste avventurose e affascinanti imprese ci espropriano blocchi di realtà e li privatizzano. A cominciare dal sapere, colonizzato dal “colosso dei motori di ricerca” presto degenerato “da archivio accademico della conoscenza globale a gigante della pubblicità”. Per passare dai rapporti personali e dalle amicizie, risucchiati dal “social network che tutti dicevano di odiare ma a cui nessuno riusciva a smettere di loggarsi” e dalla “piattaforma di microblogging per sentirsi vicini a celebrità e ad altri sconosciuti che nella vita reale avrebbero detestato”, per non parlare delle “varie app di incontri”. Fino ad arrivare al nostro corpo, colonizzato dal bio-hacking degli smartwatch. Il processo ha investito il commercio al dettaglio, comprese le librerie, con “il grande negozio online” dalla “cultura aziendale spietata e incentrata sui dati”; e poi il turismo, con “la piattaforma di home sharing”, i trasporti, con “la startup di ride sharing on demand”, la ristorazione, con la “app per consegne a domicilio”. 

 

Per Anne Wiener, i nomi delle aziende high tech sono tabù. Sono parolacce che non vanno scritte né lette, compresi marchi per cui ha lavorato tra il 2013 e il 2018: “la start up di e-book”, “la start up di analisi dei dati” che lancia la app Addiction per monitorare le reazioni degli utenti, la tecno-utopista “start up open source”. Non sono invece censurati i nomi degli scrittori e dei pensatori che apprezza, con qualche eccezione, come il “filosofo sloveno responsabile di aver rilanciato il marxismo in un certo sottogruppo della mia generazione” (per i più curiosi, Dan Kois su “Slate” si è divertito a recuperare i nomi dei brand cui allude Wiener).

 

 

Con la sua satira morale, La valle oscura rilancia un filone che è ormai diventato un genere, il romanzo di formazione 2.0, che vanta precedenti illustri. In Microservi di Douglas Coupland (1995, ed. it. Feltrinelli 1998), un gruppo di ex dipendenti del “conglomerato informatico di Seattle dalla querela facile” si lancia in una startup. The Circle di Dave Eggers (2013, ed. it. Mondadori 2014), diventato anche un film con Emma Watson e Tom Hanks, denuncia i danni di una corporation tecnologica fintamente democratica e partecipativa. Questi romanzi, come il memoir di Anna Wiener, sono veri e propri trattati di sociologia e di moda e mode culturali. Hanno per protagonisti tre successive ondate di giovani aspiranti miliardari che travolgono l'ancien régime e vogliono conquistare il mondo, come i loro coetanei Alessandro Magno e Napoleone qualche secolo prima. Oggi le armi di questi giovani condottieri non sono le spade e i cannoni, ma sofisticati algoritmi ispirati da qualche Aristotele cibernetico della Stanford University: “niente ostacoli, niente limiti, niente cattive idee”. Il risultato è questo inferno neo-capitalistico

Wiener setaccia i numerosi “lati oscuri” dell'utopia tecnologica (e capitalista).

 

È una bolla fatta soprattutto di maschi tra i venti e i quarant'anni, dove le rare donne sono considerate intruse e le molestie sono quotidiane. Il confine tra pubblico e privato si sgretola, in aziende che lavorano in sede 24/7 ma che avevano già adottato lo smart working e le teleconferenze molto prima del lockdown: due forme estreme di autosfruttamento in “ambienti lavorativi progettati per assomigliare agli uffici degli inquilini, che a loro volta erano progettati per assomigliare a una casa” (p. 258). È una bolla quasi tutta bianca e metropolitana (o metrosexual), incapace di vedere la realtà: il memoir si conclude con una surreale giornata di campagna elettorale pro-Clinton in un sobborgo urbano di Reno, dove però si vota per Trump. Dove vince, è il trionfo della gentryfication, che stravolge il tessuto urbano di San Francisco (“senza dubbio il posto migliore per essere giovani”). I suoi eroi non hanno alcuna prospettiva storica e considerano le stratificazioni istituzionali un insulso fardello di cui liberarsi al più presto. Parlano “una specie di non-linguaggio, un miscuglio di gergo aziendale e metafore atletico-belliche, gonfio di presunzione” (p. 108). Prediligono il “soluzionismo” denunciato da Evgenij Morozov: semplificare problemi complessi riducendoli ai “principi primi” e poi bombardarli con algoritmi sofisticati, senza preoccuparsi delle conseguenze, fatta salva l'accumulazione del capitale. I diritti dei lavoratori vengono ignorati e i sindacati nemmeno presi in considerazione, considerati estinti.

 


In questa giungla, Anna Wiener è l'antieroina di una carriera brillante, almeno per una donna non nerd e dunque apprezzata “solo” per le sue doti emozionali ed empatiche. Finché, dopo diversi anni inebrianti, in un ambiente sempre sopra le righe, non decide di mollare tutto, salvo un pacchetto di stock options da 200.000 dollari e il fidanzato programmatore. Tornerà ai libri e alla scrittura, per raccontare la sua odissea e l'incontro con il perturbante che si nasconde tra le ombre della “valle oscura”. 

Le motivazioni della scelta sono diverse e intrecciate. In primo luogo l'incontro con il whistleblower Edward Snowden, che aveva scoperchiato la colonizzazione (illegale) della privacy condotta sistematicamente dalla NSA e dalle aziende dell'high tech. Erano minacce, compresa quella dei troll e dei complottisti, che la stessa Wiener aveva sottovalutato, pur avendole avute sotto gli occhi proprio nelle aziende per cui lavorava: e di Snowden parla in diversi momenti, anche per ricordare la propria colpevole cecità (per esempio pp. 97, 143 e 279-280). 

 

Un'altra epifania arriva a New York, una sera a teatro con un'amica. Dopo mesi di consultazione compulsiva di internet e una overdose di letteratura contemporanea, con “una prosa affastellata di dati, nessi storici inconsistenti, dettagli messi a punto con precisione tale, che potevano essere solo il risultato su una febbrile notte di ricerche in rete”, quello spettacolo off la commuove fino alle lacrime. Il suo amico musicista e coreografo la colpisce perché “faceva arte a dispetto di una cultura che attribuiva ben scarso valore al lavoro creativo” e “si costruiva una vita attorno a essa, per la sua grazia e la sua fermezza”. A lei e alla sua amica era parso che lo spettacolo fosse solo per loro” (p. 215).

 

 

È in quella fase che si tocca il fondo della “valle del perturbante”. Il rimosso – la realtà – riemerge dall'oscurità: “I siti di e-commerce che non avevano già bruciato del tutto i loro finanziamenti cominciarono ad aprire negozi bandiera – la vendita di persona, rivelò l'approccio basato su principi primi, era una piattaforma per promuovere il coinvolgimento del consumatore. (…) Il grande negozio online apriva librerie, con gli scaffali adorni di recensioni degli utenti e cartelli promozionali basati sui dati”. I dati, fantasma macchinico e burattinesco, incontrano la realtà, cercano di colonizzarla. Tuttavia, nota questa Alice nel Paese delle Tecnomeraviglie, “in quegli spazi c'era sempre qualcosa che non tornava – qualcosa di un po' disonesto. Era inquietante trovare la polvere sugli scaffali; strano vedere delle piante vere”. Erano solo “spenti simulacri del mondo che avevano rimpiazzato” (p. 264).


I maghi degli effetti speciali sanno che è molto difficile rendere credibile lo stormire delle foglie al vento, i granelli di sabbia su una spiaggia, il pelo soffice di un gattino. È la cangiante granularità del reale, la sua insondabile profondità che sfugge ai signori dei big data. È per questo che si arrestano alla superficie, che non riescono ad assumere quella profondità di sguardo, quella molteplicità di punti di vista che è il presupposto di qualunque etica.

Come risalire, allora, la ripida sponda della valle del perturbante? Forse i big data riusciranno a plasmare irrimediabilmente la realtà, come sta accadendo a Shenzen. O forse sapremo mettere quelle informazioni al servizio del reale e della sua complessità. E riusciremo ad addomesticare il mostro. 

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