Scene napoletane / Taiuti/Musella, per un teatro dell’abbandono

7 Febbraio 2020

Gennaio 2020. Nella Sala Assoli di Napoli ha da poco debuttato Play Duett 2, nuova creatura firmata Taiuti/Musella con i musicisti Vidino e Canciello, una sorta di veglia allucinata in forma di concerto in cui i talentuosi autori-attori napoletani – diversi per età e formazione ma accomunati da un simbiotico comune sentire – fanno incontrare tradizione e avanguardia, lirica e suono, canone e sperimentazione totale. Questo secondo lavoro si presenta in una forma più articolata e “rock” del precedente Play Duett 1 e richiama molto le atmosfere sfocate e underground delle cantine, con una quantità notevole di altissima poesia e libertà da ogni tipo di convenzione. Li incontro prima di una delle ultime repliche, terminate le quali il piccolo gruppo partirà alla volta di Pontedera. Mentre i due musici settano suoni e rumori, con Taiuti e Musella ci sediamo nei camerini per una chiacchierata a tre voci con sottofondo noise che ci accompagna fino alla fine. 

 

Tonino Taiuti e Lino Musella.


Prima domanda, andiamo un po’ indietro. Come vi siete conosciuti e da dove nasce questa collaborazione? Magari parla prima Tonino e poi Lino. 

 

Musella – Cerchiamo sempre di dare due versioni differenti (ridiamo tutti)

 

Taiuti – Ci siamo incontrati per la prima volta in occasione di Circo Equestre Sgueglia di Viviani fatto da Arias. Abbiamo lavorato assieme, ci siamo trovati bene, ci siamo innamorati. A prima vista. E abbiamo deciso di fidanzarci (sorride)

 

Musella – La versione è questa. Ci siamo effettivamente conosciuti in occasione di quel lavoro. C’era una cosa che abbiamo iniziato a fare fin da subito. Essendo in tournée, succedeva che magari facevamo una passeggiata e Tonino mi diceva: “Sient’ stu piezz’!”. Un frammento di una poesia, un frammento di un testo. Io rispondevo con altre cose, ognuno aveva un suo repertorio. Forse è stato questo l’inizio del ‘gioco’. L’attore possiede una memoria fatta di frammenti, magari anche di spettacoli che non ha fatto. Io sono pieno di frammenti di spettacoli che non ho recitato. È stata questa la prima connessione. Una volta finito lo spettacolo e la tournée, circa un anno dopo, Tonino mi ha proposto di fare una cosa insieme. Lui conosceva questo teatro Arcas (l’Arcas un piccolo teatrino off dietro via Foria, a Napoli, dove la primissima versione di Play Duett ha debuttato, con pubblico di una ventina di persone, inclusa la sottoscritta) e così siamo finiti qui. 

 

Come si compongono questi Play?

 

Musella – Il primo è nato proprio da quel meccanismo di cui parlavo prima. Metti insieme dei pezzi, un repertorio umano, prima ancora che attoriale. Tonino per esempio mi ha presentato tutto il repertorio Moscato che io un po’ conoscevo. Mentre io portavo Iacobelli (un poeta che ha tradotto i sonetti di Shakespeare in napoletano, alcuni dei quali sono finiti in Play Duett 1) non solo i sonetti ma anche altri testi. Questo secondo Play invece è completamente tematico. 

 

Voi giocate sempre, improvvisate. A livello di composizione come vi siete bilanciati per arrivare a una forma, quand’è che avete detto ok, siamo arrivati?

 

Taiuti – È la scena che lo decide, provando e provando. Siamo partiti con dei testi che poi abbiamo eliminato, poi ovviamente c’è la verifica con il pubblico. È abbastanza difficile da spiegare. 

 

Quanto tempo è durato questo processo creativo/ compositivo? 

 

Musella – Per me le prove giuste in teatro sono dieci giorni. Quindici sono ricchi. Però sotto quei dieci giorni ci deve essere una sostanza. Parlo di lavori esili, per due attori: questo con Tonino, la mia collaborazione con Paolo Mazzarelli. In questo secondo Play abbiamo lavorato molto perché c’è la presenza importante della musica. 

 

Taiuti – L’approccio è quello. Si è verificata un’intesa. Nel primo Play Duett siamo stati più veloci perché c’era già un bagaglio condiviso a disposizione, mentre in questo secondo Play eravamo quasi nudi, siamo andati a cercare i testi, studiare, sgrossare, togliere. 

 

Tonino Taiuti.


Mentre il primo Play è uno scambio, un fraseggio, questo secondo sembrerebbe un concerto…

 

Musella – È teatro. Noi siamo teatro. 

 

Taiuti – L’idea di base è creare un’opera musicale, può essere un’opera contemporanea questa, quasi da teatro lirico, con giochi di teatro sperimentale, d’avanguardia. La cosa interessante è come questi materiali s’innestano con la tradizione in maniera lineare, fino a sembrare un’unica lingua. A un certo punto sembra che stai facendo un testo unico. Un’opera come quella che può essere Laborintus di Sanguineti. Nel nostro caso la difficoltà è stata maggiore perché le lingue e gli autori sono diversi e tu devi farli diventare un’unica lingua, legata dai nostri corpi dal nostro modo di farlo diventare un solo percorso. 

 

Parlando di testo, questa volta sembra esserci più suono che parole

 

Musella – Abbiamo molti più testi ma abbiamo proprio scelto, stavolta, di andare a togliere, a ridurre. 

 

Taiuti – La parola diventa anche un suono, va di pari passo con la musica. Ci piaceva lavorare ad asciugare la parola per farla diventare un unico suono. 

 

Musella – Il concerto è la forma scenica, ma noi non facciamo un concerto. Noi facciamo sempre la stessa cosa: abbandono. Per noi l’obiettivo è sempre che l’attore deve trovare un momento di abbandono, deve respirare, vivere. Anzi, in relazione al tema dello spettacolo, che in questo secondo Play è quello della morte, ci sono proprio dei feticci di vita. Per provare a respirare in scena, senza la responsabilità di un plot, né di virtuosismi che ci obblighiamo a fare in Play Duett 1. Qui invece è proprio uno stare, un abbandonarsi, un vivere. Non è un concerto ma un pezzo di vissuto. 

 

Nel primo Play i testi andavano da Moscato a Viviani a Shakespeare tradotto in napoletano. Parliamo dei testi che compongono questo secondo lavoro. 

 

Musella – Rabal, Rosso di San Secondo, Conversazione con la morte di Testori, Congedo del viaggiatore cerimonioso di Caproni. Molta poesia. Quello che viene fuori rispetto a questo lavoro è il rapporto con l’argomento che qualche volta ci ha suggerito di prendere delle distanze, di andare ancora di più in zone fisiche, di usare parole in meno, lavorare tanto con la musica e il suono che più di tutto possono raccontare la morte. 

 

Taiuti – C’è molta libertà, è come se noi non avessimo niente. È una pagina che devi riempire teatralmente, non hai riferimenti ma frammenti. C’è questo nero che ti dà energia, mistero, non sono i testi. Ti guida altro. La tua anima, la tua storia, il rapporto che hai con l’altro. 

 

C’è un po’ l’atmosfera dell’avanguardia, delle cantine. Questa cosa ve la siete andata a cercare?

 

Taiuti – Quello è il nostro, il mio modo di fare teatro, è la forma di teatro che conosco di più e in cui so più esprimermi. Non lo cerco, lo faccio sempre nei miei spettacoli, anche quando lavoro da solo. Con Lino è stato un miracolo: dall’altra parte ho trovato una persona che ha le stesse esigenze, le stesse passioni, lo stesso modo di approcciarsi al teatro. L’abbandono di cui lui parla non sempre puoi condividerlo con gli altri, questo mistero che c’è dietro e che si sviluppa sera per sera. È come se il teatro mi tirasse dentro. Io metto la vita, metto me, Tonino, però poi ogni tanto è come se qualcuno mi dicesse: tu non sei solo Tonino, sei anche qualcos’altro. Questo gioco a me piace molto. Lo riesco a fare solo quando sto da solo o con Lino. Con altri non mi è mai riuscito, tranne quando lo facevo con Antonio Neiwiller o con Silvio Orlando. 

 

Musella – Io non vengo da quel tipo di mondo lì. Io ho iniziato molto presto a occuparmi di teatro ma non ho avuto una formazione avanguardistica. Io non sapevo niente di sperimentazione. Se per sperimentazione s’intende Bob Wilson, allora sì. Mi è capitato di fare allestimenti al teatro Politeama per lui. Ma de Berardinis, Carmelo Bene, li ho scoperti molto dopo. È strano perché è come se avessi trovato in questo modo di lavorare qualcosa che appartiene più a me come persona, che a me teatrante. Io sono così nella vita. In questo modo di stare, d’inventare, di giocare ho trovato qualcosa che mi corrisponde umanamente. In questo gioco mi si è liberato qualcosa e ho detto: io sono questo. Io in stanza da solo sono qualcosa di molto simile a questo. 

 

Taiuti – Il teatro è anche fatto di scazzi, odio, amore, qua non succede. C’è una grande energia condivisa.

 

Musella – Siamo in una zona un po’ spirituale del nostro lavoro. A volte ti succede di attingere a delle zone in cui più che recitare preghi, più che stare, ascendi. E questo è il risultato di un artigianato. Noi sappiamo come combiniamo i nostri frammenti. Ragioniamo come musicisti. Credo che alla fine formalizziamo secondo una dinamica musicale. “Senti sto pezzo, senti quest’altro. Che dici se dopo ci mettiamo questo?” Non è come lo fai o non lo fai o cosa dice la parola. È qualcosa che ha a che fare con il suono. 

 

Lino Musella.


Secondo voi cosa vi accomuna? Oltre dal punto di vista personale, sembra che ci sia qualche radice teatrale profonda 

 

Musella – Io sento sicuramente una somiglianza, con le dovute differenze. Io ce l’ho già un compagno con cui mi sento all’opposto (parla di Paolo Mazzarelli). La differenza con Tonino è lo scarto di età, di corpi.

 

Taiuti – Ci rispettiamo, questa è una cosa strana. Se lui mi propone una cosa, so che mi piacerà. E viceversa. Meccanismo difficile da creare a teatro. Sono quei miracoli che ogni tanto succedono. Io la sera ho il piacere di venire qui e stare con Lino, Marco e Luca. 

 

In questo nuovo lavoro sul finale ci sono dei guests in scena. Come mai?

 

Musella – Una delle ultime sere di Play Duett 1, vennero a vederci Monica Nappo e Cristina Donadio. Sul finale entrarono in scena, fu un intervento estemporaneo, non preparato, memorabile. Da qui decidemmo che nel prossimo Play avremmo voluto degli ospiti con una precisa funzione drammaturgica, ovvero salutare il “morto” in scena: il teatro è un rito in cui c’è anche la commemorazione funebre. Gli ospiti vengono a portare un contributo, delle parole. 

 

Verso il finale, Lino Musella monta una bara. Per chi la monti? Chi è quel morto? 

 

Musella – Lo monto per me. Anche se poi non ci salgo. Ne sono attratto ma poi ci va Marco (uno dei musicisti). Tutti abbiamo un rapporto con questa ritualità. È una cosa che mia madre ha culturalmente, ha fatto per tanto tempo la vestizione dei morti. Io l’ho ereditato da lei. Mi è successo di vestire più di un morto. All’inizio nello spettacolo lo facevamo, poi l’abbiamo tolto. Quel gesto non era pretestuoso ma era un feticcio della mia vita. 

 

Taiuti – Io penso spesso alla morte. Credo che sia anche qualcosa rispetto all’età, alla vita. Ogni volta penso: chissà se riesco a fare un altro spettacolo. Mi sono sempre sentito molto vicino a questo tema e l’ho approfondito molto in letteratura e in poesia. Poi si mischia al nostro teatro, alla nostra tradizione, alla nostra città. È qualcosa che ritorna quotidianamente in noi napoletani. (Fa una pausa, parla piano.) Soprattutto in questi ultimi anni. In questa città che io non riconosco più perché non ci s’incontra più. Non hai più possibilità di incontrarti con le persone, c’è questo consumismo, queste folle terribili, che ti fanno sentire veramente un fantasma. 

 

Si tratta di uno spettacolo completamente non convenzionale rispetto alla maggioranza della proposta scenica. Tonino, tu hai iniziato in un periodo in cui c’era molto più spazio e apertura per questo tipo di lavori. Perché uno dovrebbe fare questo oggi, ne vale (ancora) la pena? 

 

Taiuti – Io prima di fare uno spettacolo penso sempre che non valga la pena di farlo. Poi quando lo faccio, mi ricredo. Questo vale soprattutto per me. Non so se dall’altra parte si acchiappa tutto. Discutevamo proprio di questo: per me questo spettacolo è importante, è molto più forte del primo Play Duett ma, dall’altra parte, questo arriva? Questa condizione mi fa pensare: ne vale la pena? Poi quando la sera viene la gente a salutarmi, anche se c’è una sola persona, mi riempie di gioia. Alla fine il pubblico reale, non gli addetti ai lavori, è più intelligente di quello che uno pensa. 

 

 

(A proposito di addetti ai lavori, ho delle domande per Lino. Tonino allora si congeda e va sul palco a provare i suoni che diventano molto forti. A questo punto ci spostiamo nell’attrezzeria, ovvero uno dei camerini adibiti a deposito per tutti gli oggetti di scena dello spettacolo.) 

Tu sei un artista spurio, lavori e hai lavorato con registi diversi. Al contempo ti ricavi lo spazio per i tuoi progetti personali, come con Mazzarelli o Taiuti. Come ti collochi nel contesto teatrale italiano? 

 

Ogni tanto devo fare lo scritturato: così facendo ho fatto delle cose che mi sono piaciute, penso a Latella, De Rosa, Baracco, Martone. Anche quando faccio lo scritturato, per me è importante l’incontro con altri artisti, io mi diverto quando viene fuori qualcosa da questo incontro. Io non sono per il teatro di regia. Sono per l’attore- autore che costruisce anche in scena, per l’autonomia dell’attore. Spero che il rapporto attore- regista non sia mai un rapporto di potere. Un patto, non una costrizione. Non è un banale rapporto di lavoro. È qualcosa molto delicato. Un regista, come un allenatore, può dire: sei uno stronzo! E questo ti fa nascere delle cose. Sei tu che stabilisci che lui lo può fare. Bisogna insegnare agli attori che sono loro che possono tagliare questa cosa o possono tenerla in piedi. Se a te piace fare sesso sadomasochista che c’è di male? Però, se dici basta, basta. 

 

Qualche settimana fa, alla cerimonia degli Ubu, dove sei stato premiato come migliore attore per Night Writer di Jan Fabre. Antonio Latella, ex aequo per miglior regia (Aminta) con Massimo Popolizio (Nemico del popolo), al momento della premiazione, oltre a dedicare il premio alle donne che si ribellano agli uomini, ha detto che più di chiedersi dove va il teatro, sarebbe interessante sapere dove sta andando la critica che sembra un po’ confusa alla luce di tutti questi “ex aequo”. Cosa ne pensi?

 

Io ho un punto di vista molto preciso sulla critica italiana. Non si è ancora storicizzata la questione. Nel Novecento abbiamo avuto diverse figure teatrali importanti. Diversi capisaldi. Pirandello, Eduardo, Strehler, Carmelo Bene, Leo de Berardinis. E poi abbiamo avuto Franco Quadri. Quadri è dentro la storia del teatro italiano. È l’unico critico esistito che è stato importante nel teatro quanto i teatranti, ha mosso il teatro italiano. Franco Quadri è morto e i critici non hanno ancora elaborato questo lutto. Non hanno ancora capito che cos’è la critica. Perché è ancora troppo presto. Al premio di Franco Quadri non si parla, bisognerebbe elaborare la figura di Franco Quadri. I critici dovrebbero fare auto analisi, capire cos’è la loro posizione, la loro attività. Me lo ricordo io che ho trentanove anni: se stasera c’era Quadri si fermava il mondo. Franco Quadri non solo spostava le cose, ma t‘interessava proprio quello che poteva dire. Adesso questa cosa non c’è più, viene a cadere. Con la morte di Quadri è morto il critico e sono nati i critici, il sistema critico che da una parte è interessante, dall’altro funziona sempre più come rete. Con la sua domanda su dove stia andando la critica, credo che Antonio intendesse dire: che succede? E anche: non associatevi troppo tra di voi, mantenete un punto di vista personale, vostro, che ognuno si relazioni a quello che vede, non telefonatevi, non mettetevi d’accordo. Io sono per dare importanza alla critica, il critico è un innamorato del teatro, quindi li difendo sempre. Se non ci fossero i critici, bisognerebbe inventarli. Però credo che la critica si debba fare delle domande su di sé, capire cosa è successo nella sua storia, com’erano i critici e come sono adesso, non a cosa serve la critica. Siamo in Italia, Quadri è morto nel 2011 e non si è detto abbastanza. Perché? 

 

Non credo sia questa la sede ma hai voglia di dire qualcosa sulla “questione” Fabre, le accuse rivoltegli di abusi da alcune esponenti del movimento #metoo ripresa anche da un appello su Facebook? 

 

Io sono molto sensibile all’argomento, in generale: credo che sia la questione dell’oggi. Come detto più volte, sono aperto a qualsiasi tipo di confronto. Allo stesso tempo però credo che sia mancato e manchi un reale spazio di approfondimento sulla questione. Per tutto quello che ci siamo detti fino a ora rispetto al mio modo di fare teatro, credo che questo spazio di approfondimento vada cercato in un luogo fisico, reale e non virtuale. 

 

Ultime domande: cosa stai leggendo in questo periodo? 

 

Amelia Rosselli. Sono innamorato di questa poetessa e de La libellula. Se fossi una donna, lo farei subito. Infatti vorrei prima provarlo su di me e poi magari cercare un’attrice. 

 

I tuoi prossimi progetti? 

 

Sicuramente un nuovo lavoro con Paolo Mazzarelli, un progetto legato alla formazione: ci piacerebbe lavorare su dieci giovani, non stare in scena, creare dei gruppi di lavoro. Dopo alcuni laboratori è nata l’esigenza di farlo e di farlo adesso. Ora è il momento di dare. Poi con Tonino stiamo lavorando già alla terza tappa di Play Duett e chissà che non ci si possa incontrare tutti insieme... 

 

Fotografie di Sabrina Cirillo.

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