Un libro di Niccolò Reverdini / Anche l'usignolo (o del cambiare vita)

22 Luglio 2021

Gli anni del boom economico cancellarono la miseria ma cancellarono anche le tracce del mondo rurale. Si volle scappare dalla fatica ripetuta del lavoro agricolo, dai capricci del clima, dal senso di soffocamento provocato da comunità fin troppo coese, dai rapporti gerarchici di una società dove comandavano sempre gli stessi, ma al tempo stesso si accantonò il patrimonio di tradizioni millenarie che hanno scolpito il volto del nostro Paese. Perciò fu esperienza comune, a partire dagli anni Settanta, per chi è cresciuto in una grande città, intrattenere rapporti sporadici con la campagna, spesso incontrata soprattutto nelle vacanze estive quando si tornava al paese d’origine, piuttosto che nei film o telefilm western della televisione in bianco e nero durante il resto dell’anno. Esperienza in parte condivisa da Niccolò Reverdini, autore di Anche l’usignolo (Mondadori), che tuttavia mantenne un tenue filo con le terre che il nonno Franco Pisani Dossi (figlio dell’autore delle Note azzurre) possedeva a sud di Milano, verso Abbiategrasso.

 

È lì che Reverdini ritorna trentenne, alla metà degli anni Novanta, in un momento di impasse della vita, quando, senza nessuna esperienza, decide di diventare coltivatore diretto. Il libro, che deve il suo titolo al Pascoli, è il resoconto di un lungo apprendistato, un quarto di secolo, e oggi, alla fine di due anni di pandemia, è forse un possibile manifesto per un ritorno alla natura. È un’opera che potrebbe appartenere alla tradizione anglosassone: lo scrittore che lascia la città e scopre un mondo nuovo, abitudini più semplici, valori più autentici, ma lo stile di Reverdini, il filtro culturale che applica alle esperienze di vita, la rendono, felicemente, un’opera inclassificabile, destinata, crediamo, a durare nel tempo, come i classici di cui si nutre (in primis Virgilio e i classici greci e latini, poi, lungo il filo dei secoli, Bonvesin de la Riva, Petrarca, Manzoni, Cattaneo, Pascoli).

 

Invischiato in studi letterari, allievo del grande filologo (e notevole scrittore in proprio) Dante Isella, l’autore legge la natura con uno scrupolo di esattezza filologica, a volte quasi con furore, ma si capisce che la posta in gioco è alta: il mondo naturale va descritto, rispettato e, se possibile, amato senza nessuna scorciatoia. Flora, fauna, pratiche agricole: ogni cosa ha il suo nome. Così come gli inserti dialettali, un milanese ‘arioso’, rivelano i personaggi che fanno da coro a un racconto cadenzato in brevi capitoli. Il Lino, l’Antonio, il Gino, nella loro calda umanità, sono indispensabili nel trasmettere al giovane Niccolò i primi rudimenti per apprendere a seminare, piantare, raccogliere, utilizzare le macchine agricole, ora naturale complemento al lavoro dell’uomo e parte integrante delle vicende narrate. “Un diesel Lombardini immortale”, scrive a un certo punto.

 

Così come sono ricordati i mezzi per raggiungere la campagna da Milano: un Ciao, poi un’Apecar, sostituita infine da un Fiorino Diesel, quando è ormai maturata la scelta di lasciare definitivamente la città. Nonostante la pedagogia dei compagni di lavoro, gratificati che qualcuno che sentono superiore (se non altro per ceto ed educazione) voglia condividere le stesse esperienze, i primi anni si rivelano durissimi: solo l’entusiasmo per la scoperta di un mondo nuovo che lo rivela a se stesso consente all’autore di riprendere il lavoro nei campi lasciato interrotto con la morte del nonno molti anni prima. “Trovavo quiete e dignità nel mio lavoro manuale, anche il piacere di vedervi, quasi ogni volta, un inizio, uno svolgimento e una fine. Non le sconfinate mete della lettura e dello studio, ma il trapianto di sei cassette di lattuga o un sentiero da tracciare nel Bosco”. Il bosco è sempre scritto in maiuscolo ed è il luogo dove la comunione con la natura diventa completa. È qui che la lettura di Virgilio indica un cammino di vita.

 

 

Ripercorrere un quarto di secolo significa anche fare i conti con un momento di trasformazione storica: le politiche comunitarie verso l’agricoltura, la sua applicazione attraverso gli enti regionali, il progressivo affermarsi del biologico. Tutte esperienze che Reverdini compie da pioniere e da cui emerge un quadro incoraggiante, di rara lungimiranza istituzionale. L’azienda agricola, che porta Il nome di “Forestina”, allaccia nel frattempo rapporti con gli abitanti delle vicinanze, sempre meno sospettosi, e, attraverso i GAS (Gruppi d’Acquisto Solidali) anche con le propaggini della città. È proprio la rinascita del rapporto tra città e campagna la novità più evidente che emerge dalla lettura del libro: le distanze, mentali prima di tutto, si vanno in questi anni accorciando. È un movimento al contrario: chi vive in città ora cerca di ristabilire dei rapporti con la campagna, con le radici. Così come è stata forse più facile l’integrazione del personale extracomunitario: è il caso di Alì che proviene dal Ghana e impara un po’ alla volta a stare insieme agli altri. Non sono sempre rose e fiori, tanto è vero che, una volta riattata la cascina, si persegue l’apertura di un agriturismo con ristoro e stanze per gli ospiti come strumento indispensabile per integrare i magri redditi dell’agricoltura.

 

La vita della Forestina diviene più movimentata, anche se in campagna il fluire del tempo ha in realtà continue interruzioni. Arrivano cacciatori, viandanti, ci sono le vivificanti visite delle scolaresche. “Avevo sempre pensato che le cascine somigliassero ai porti di mare. Fin da ragazzo, le avevo viste accogliere chi proveniva dagli urti della vita ed era in fondo successo anche a me”. Ora attorno all’agriturismo si aggregano nuove forze, come Seba e Silvia che traferiscono qui l’attività di allevamento equestre e delle mucche di Varzi.

Il tempo sospeso della pandemia è stato probabilmente l’occasione per la scrittura di questo libro che suona come un provvisorio bilancio.

 

“Cerco spesso la voce di Virgilio e ripenso al suo sguardo sui fusti, sulle foglie e sui frutti della flora lombarda, misurandone la millenaria eredità”.

Quando con Niccolò si studiava ai tempi dell’università di Pavia per il temuto esame di Letteratura latina, illuminante fu la lettura dei saggi di Antonio La Penna sull’ideologia sottesa alle classiche opere di Virgilio, strumento della pax augustea dopo gli anni tremendi della guerra civile. Oggi, dopo aver archiviato il secolo delle ideologie, siamo più prudenti nell’imbracciarne di nuove ma, si parva licet, Anche l’usignolo ambisce allo stesso scopo: l’autore con il suo racconto, dove forse prevalgono i chiari sugli scuri, ci suggerisce che è possibile cambiare vita. La sua è una proposta degna della massima attenzione.

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