L’ultimo Muccino / Gli anni più belli. (Non) c’eravamo tanto amati

12 Marzo 2020

Che cosa vuole essere Gli anni più belli, il nuovo film di Gabriele Muccino? Per stile e tematica, tante cose assieme ma soprattutto un racconto del tempo che passa, attraverso le storie di tre amici lungo il corso di quarant’anni.

Dopo un legame forte, che si consolida per merito di un grave incidente di uno dei tre durante uno scontro nelle contestazioni studentesche, e di un tempo adolescenziale passato insieme, fino diciamo alla maturità, le strade si dividono nel momento in cui scelgono facoltà universitarie differenti. Uno Legge, l'altro Lettere, l'altro ancora intraprende un percorso artistico-intellettuale: una grossolana tripartizione delle classi sociali. Il presunto povero che scala i gradini dell'arrivismo in virtù delle sue stesse condizioni di partenza; quello che vive con la madre malata, che fa scelte prudenti e opta per un impiego parte time nel pubblico; e infine il presunto ricco (o con famiglia comunista alle spalle) che può permettersi di seguire le sue passioni. Cosa li porteranno ad essere? Avvocato, professore di latino e greco al liceo, artista/intellettuale. Dispersi ognuno nelle rispettive diversissime vite, e ognuno a suo modo tormentato da relazioni sentimentali turbolente, si perderanno di vista. 

 

 

Schematicamente si potrebbe dire che trent'anni più tardi li ritroviamo uno professionalmente soddisfatto ma con una vita che disprezza, il secondo che ha trovato una sua quadra nella massima latina dell'aurea mediocritas che egli stesso insegna ai suoi studenti, con un lavoro che adora, e la sempre amata donna che riconquista e che sposa nonostante abbia fatto un figlio con un altro, e infine l'ultimo fallito professionalmente, ma presumibilmente felice di non aver mollato mai le sue passioni, e con un figlio che adora. Tuttavia, dopo tantissimi anni si riuniranno a brindare in extremis all'anno nuovo sul terrazzo di uno dei tre, ognuno coi relativi figli, che ora hanno la stessa età che avevano loro all'inizio. Sembrerebbe che ci si ritrovi più per solitudine che per amicizia, più per aprire a un nuovo episodio generazionale, che in nome di qualche valore realmente condiviso. Eppure si è parlato di lieto fine.

 

Gli echi iniziali alla Meglio gioventù lasciano subito il posto ai toni amari di una commedia alla Virzì e al ritratto di un effimero tempo corrente (di cui lo stesso Muccino si fa esponente), per poi rifare capolino, stabilendo un labile fil rouge con l'apertura, grazie a una spruzzata di Tangentopoli, un accenno alla deturpata classe degli insegnanti con il loro precariato perenne, e infine un neanche troppo velato ammicco al Movimento 5 Stelle.

 

Perché se una cosa si deve dire di questo film è che riesce a sintetizzare autenticamente il meglio del peggio di un preciso filone del cinema italiano. Una versione cinematografica del “voi siete qui” delle mappe. Forse è giusto che i film siano sempre un po' figli di qualcos'altro, e al contempo un omaggio a ciò che li ha preceduti: una sintesi di caratterizzazioni, storie e ambientazioni. Muccino rimanda prima di tutto a se stesso, attraverso quell'impianto corale “autoriale” che va da L'ultimo bacio a Ricordati di me (legame ribadito dalla ri-scelta di Nicoletta Romanoff). A seguire si aggancia orizzontalmente al cinema contemporaneo (anzi, praticamente in sala) con la scelta attoriale di Pierfrancesco Favino. Contemporaneamente, lancia un ponte verso l'ultimo Notti magiche di Virzi, vuoi per l’ambientazione, vuoi per i casuali incontri notturni nei bui vicoli romani (dove tutti si incontrano sempre per caso: sembra il condominio di Un posto al sole), vuoi per il presunto ménage à trois. Infine, gli fa gioco lo sfruttamento della caratterizzazione identitaria di Micaela Ramazzotti (altro inevitabile rimando a Virzì) e l'esplicita clonazione del personaggio a metà tra sfiga e ossessione di Kim Rossi Stuart, mutuato pari pari da Tommaso – dove già l’attore-regista scimmiottava tardivamente Nanni Moretti con effetti di comicità involontaria. Del resto è lo stesso Muccino, durante la conferenza stampa, a confessare che i provini li ha fatti a tutti… eccetto a Kim Rossi Stuart e Micaela Ramazzotti, i cui ruoli sono stati cuciti addosso agli attori. A mo’ di conclusione, l'operazione citazionistica individua la sua acme sacrale nella variazione sul tema dell'immersione – qui fallimentare – dei protagonisti in una notturna e deserta Fontana di Trevi.

 

A proposito di variazioni: stilisticamente parlando, stupisce l'assenza di montaggio freneticamente “alternato” in stile Ultimo bacio, che va a seguire la progressione parallela delle vite di tutti i protagonisti; al suo posto, si opta per un modo di narrare che procede maggiormente a blocchi infrangendo uno degli stilemi della narrazione corale mucciniana, protagonista del primo decennio degli anni Duemila. Per altri versi, ciò permette un racconto fortemente ellittico e il ritorno su ciascun personaggio ad avvenimenti già ampiamente accaduti nel frattempo.

 

 

Inizialmente la storia si concentra esclusivamente su Paolo, il professore di lettere. Ha sedici anni e incontra Gemma. Un terzo del film è dedicato a lui e alla sua storia, al punto tale che saremmo portati a pensare che gli altri personaggi siano meramente secondari, se solo il film non ci avesse già mostrato all'inizio Giulio (Favino) cinquantenne, mentre smezza una sigaretta con quella che potrebbe a occhio essere sua figlia. Il personaggio di Riccardo (Claudio Santamaria) è quello su cui gli effetti dell'espediente narrativo appaiono più chiaramente. L' avevamo abbandonato tempo addietro, agli esordi della sua carriera e in procinto di avere un figlio con la sua compagna, e lo ritroviamo in piena crisi coniugale e lavorativa. Non lavora, non guadagna e la moglie arriva al punto di abbandonarlo portando il figlio con sé. A voler essere buoni, non è escluso che forse proprio a causa dell'assenza di escalation drammatica che il ruolo di Anna (Emma Marrone) risulti così innaturalmente esasperato, arrivando fino al punto di spingere la sua rivolta sentimentale verso una scarsamente verosimile sottrazione di minore; a non volerlo essere, invece, si può solo constatare come le donne del film siano puttane oppure isteriche, con la conseguenza che il maschio risulta alla fine vittima ed eroe. In effetti, il film è narrato chiaramente da un punto di vista maschile. Niente di male, beninteso: succede anche nel recente Storia di un matrimonio, dove pure l'agire della donna rimane prevalentemente misterioso. 

 

Ad avvalorare questa seconda ipotesi è il personaggio di Gemma (Ramazzotti). Pur avendo avuto una madre morta di cancro in tenerissima età, Gemma è capace di battute di spirito sull'ictus della madre di Paolo (Rossi Stewart), che ha bisogno di cure proprio nel momento in cui i due hanno deciso di metter su casa per conto proprio. Si invaghisce poi di Giulio, da cui verrà a sua volta lasciata e al quale recriminerà incoerentemente quegli stessi valori (il tradimento degli ideali della gioventù in favore della ricchezza) che lei stessa non ha mai posseduto. Infine, se ne esce col fatto che ha sempre amato Paolo, benché, nei numerosi incontri che la sceneggiatura le ha fornito per dimostrarlo, tutto sembrava meno che questo. 

 

Infine, ancora un appunto stilistico: la voce narrante dei personaggi, più saltuaria che uniforme, proprio come i loro sguardi in macchina. Ed eccoci al punto. Abbiamo parlato di tutto fuorché del fatto che il film di Muccino abbia fortissime similitudini con C'eravamo tanto amati. Alla luce dell'analisi, perché Gli anni più belli non è stato presentato come un remake, aggiornato al tempo corrente, del film di Scola? Ci avrebbe portato ad apprezzare la libera rivisitazione di certi personaggi e relative contaminazioni, traslazioni, punti di divergenza, variazioni sul tema, fornendo la possibilità di ridimensionarne e mitigare allo stesso tempo le pecche: gli incontri casuali impossibili, l'assurda vacuità e contraddittorietà di Gemma – a questo punto palesemente ispirata a Luciana (Stefania Sandrelli) – il montaggio a blocchi ampi, l'occasionalità di voci narranti e sguardi in macchina (il fermo immagine iniziale del tuffo di Gassman); e finanche l’altisonante rimando alla  Dolce vita, “filologicamente” già presente nel film di Scola.  

 

Ma sarebbe bastato per giustificare il fatto che, sebbene a un personaggio muoia la madre di cancro (un espediente narrativo per spiegarne l'allontanamento dal gruppo), questo poi sia capace di ironizzare su un ictus? O si tratta semplicemente di una indelicata sciatteria di sceneggiatura? Il riferimento a Scola viene tirato in ballo durante la conferenza stampa, dove la stessa Micaela Ramazzotti precisa che, a suo parere, “Loro giocavano una partita completamente diversa”.

 

Ettore Scola, “C’eravamo tanto amati”, 1974.


A giudicare dagli esiti differenti dei due film, c'è una doppia possibile chiave di lettura. La prima, di natura “meta”, vorrebbe che, visto che d'italianità si parla, possa esserci il beneficio del dubbio che C’eravamo tanto amati sia stato eletto a capolavoro in quanto passato (in Italia, tutto quello che c'è stato prima è sempre meglio di quello che c'è adesso): è l'Italia del si stava meglio quando si stava peggio e dell'all'estero questo non succederebbe. La seconda, in virtù della prima, prevederebbe che, mutatis mutandis, a parità di condizioni i tempi odierni siano senza spessore, esattamente come il film che pretende di farne il ritratto. 

 

Sulla prima, le nebbie sono presto diradate: già all'indomani dell'uscita del film di Scola, nel dicembre del '74, si inneggiava al capolavoro (l'Unità, Il Messaggero, Il Giorno, Paese Sera...). Quanto alla seconda, l'argomentazione è volutamente fallace. Superfluo dire che, da Petronio in avanti, la presunta degenerazione di un'epoca può essere inversamente proporzionale alla maestria con cui è raccontata: meglio è raccontata, più è degenerata. Altrimenti i personaggi (prototipici) senza spessore di questa stessa epoca ne risultano addirittura più avvilenti di quanto in realtà non siano. Se da un lato se ne può sempre ricavare qualcosa andando a sentire cosa ha da dirci un film che si posiziona sul mercato nel modo in cui lo fanno i film di Muccino, sempre forieri di un certo “sentimento popolare”, ogni volta l'intima speranza è che i personaggi siano qualcosa di più dei luoghi comuni che invece qui rappresentano, nel momento in cui dicono esattamente quello che ti aspetti che dicano nella peggiore delle ipotesi. La figlia di Giulio, Sveva, perfettamente in linea con questa tendenza, alla fine non può esimersi dalla classica rivolta nei confronti dei genitori: “Sono anni che recitate la parte di una coppia felice”. Il vizio a quel punto è ereditario, oltre che generazionale.

 

Della panoramica, Gli anni più belli mantiene solo lo sguardo da lontano. A mancare è la solennità delle scene, e quindi ciò che potrebbe rendere memorabile quella storia che si prefigge di narrare. Per sintetizzare un’epoca è necessaria una preventiva profondità di analisi, che qualche volta può essere restituita da situazione indimenticabile (l’equivoco del parcheggiatore in C'eravamo tanto amati) o da una battuta; altrimenti, in presenza della stessa ambizione narrativa, è necessario il decorso di un tempo adeguatamente lungo (le sei ore fisiologiche di La meglio gioventù). I conti alla fine non tornano, nonostante Muccino passi una mano di bianco di lieto fine, una baglionata a vedere del simbolico dove non c'è. Siamo lontani da quando si cantava tutti insieme Anatomia, intonato, sulle note di Amado mio, da un Luigi Lo Cascio specializzando in psichiatria.  

 

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