Storie di immagini / Controtempi

1 Luglio 2013

Un uomo corre sulla terrazza dell’aeroporto di Orly; è colpito da uno sparo, si torce in uno spasmo violento, muore sotto gli occhi di un bambino. È il celebre inizio de La Jetée, il ciné-roman del 1962 di Chris Marker, composto di fotogrammi fissi su cui una voce traccia l’arco della narrazione. Ciò a cui assistiamo è un cortocircuito temporale: il bambino e l’uomo ucciso, tornato da un distante futuro per compiere il suo destino, sono lo stesso individuo. Nell’istante in cui il presente folgora l’immagine esso è già passato, è già ricordo, simultaneamente prologo ed epilogo della storia. L’uomo e il bambino sono sospesi in un paradosso tragico che stringe e proietta la sua ombra luttuosa su un’intera esistenza, futura e già trascorsa. Il passato non torna per redimere il presente, né per fornirgli un senso – sembra dire Marker – ma per obbligarlo a iniziare da capo, per impedire un’alternativa: quella immagine, quel trauma, all’infinito.

 

Chris Marker, La Jetée, 1962

 

Nella stessa modalità traumatica – l’impensabile ripetizione di un’assenza –, lo psicologo-cosmonauta Kris Kelvin reincontra in Solaris, il film del 1972 che Andrei Tarkovskij trasse dal romanzo omonimo di Stanisław Lem (1961; prima traduzione italiana integrale Sellerio 2013), la sua donna amata e perduta, Hari. Copia meccanica proiettata dalla potenza del pianeta pensante, la nuova Hari è la manifestazione vivente e paradossale di una perdita, un impossibile realizzato: un essere in cui conflagrano dolorosamente lo splendore della bellezza e il vuoto più mostruoso, la prossimità e l’essere-morto, il desiderio vivente e l’ingannevole fissità del ricordo. La sua presenza mina la consistenza del presente esponendolo alla reversibilità del passato e fa di quest’ultimo uno spazio malinconico, una prigione che divora il futuro, una allegoria irresistibile e mostruosa della voracità della morte.

 

Andrei Tarkovskij, Solaris, 1972

 

Sin dalla sua nascita, il cinema ha sempre contato sulla propria capacità di sottrarsi alla direzionalità del tempo, di frammentarlo, di piegarlo su se stesso, di far rivivere, e ripetere, un istante, di mettere in relazione in senso non cronologico luoghi e narrazioni o inventarne di inedite. Così fece anche Pasolini scegliendo di girare il suo Vangelo secondo Matteo tra Calabria e Basilicata, regioni che apparivano ancora arcaiche nei prima anni sessanta, e non nei luoghi originali, in un Israele ormai irrimediabilmente «moderno». Al regista, scrive Noa Steimatsky nel suo studio sugli «spazi» del cinema italiano (Italian Locations, University of Minnesota Press, 2008), interessava la sopravvivenza di forme arcaiche nel mondo contemporaneo, in luoghi che apparivano ancora non colonizzati dalla forma di vita neocapitalista, come mezzo per rileggere l’attualità, contrapporle dialetticamente un passato e un immaginario rimosso e cercare così di modificarla.

 

Pier Paolo Pasolini, Il Vangelo secondo Matteo, 1964

 

Sia le immagini rarefatte de La Jetée che i luoghi pasoliniani sorgono dall’incontro di temporalità e ordini del mondo diversi e simultaneamente presenti in una nuova configurazione, quella «immagine dialettica» in cui Walter Benjamin, negli anni trenta del secolo scorso, aveva sintetizzato il sorgere abbagliante di un nuovo paradigma storico. Alla fiducia cronologica dello storicismo positivista, alla meccanica rigidità della successione lineare passato-presente, Benjamin opponeva un modello radicalmente diverso, in cui l’Adesso e il Già-stato, il lampo del presente e l’elemento fossile del passato si combinano dialetticamente proprio perché l’origine non era più pensata solo come fonte del futuro e perché la novità non era più il semplice oblio del passato. Per Georges Didi-Huberman, che della concezione dialettica della storia ha fatto un riferimento essenziale delle sue investigazioni, questo spostamento di visuale consente oggi allo storico dell’arte di interrogare le immagini disancorandole dalla tenace tessitura storicista, dal tempo «assoluto» della loro nascita. Per lo studioso francese, che riprende in questo la lezione di Aby Warburg, le immagini che ci giungono dalla tradizione artistica diventano leggibili proprio grazie allo scontro con un presente che le apre e mostra al loro interno «sopravvivenze», fossili di stati precedenti, presenze, scrive in Storia dell’arte e anacronismo delle immagini (Devant le temps, Minuit 2000), che contraddicono l’idea della storia come filo che si srotola e la configurano piuttosto come assemblaggio di tempi e modelli visivi eterogenei.

 

Le grandi metafore e i modelli temporali che la storia dell’arte ha creato per dare ordine a un percorso ricostituito dal punto di vista postumo del Museo ­– e per noi da quello doppiamente postumo della postmodernità – si trovano sfidate così da una lettura anacronica dell’opera d’arte che contesta l’idea del suo supposto ruolo di testimone del proprio tempo, di inalienabile impronta di un'epoca, come sembra credere una storiografia arcigna e tutta in difensiva che in Italia conta tuttora molti seguaci, e mostra invece la sua capacità di montare al proprio interno paradigmi culturali e modelli di visualità provenienti da altri contesti distanti nel tempo e nello spazio. In altre parole, l’opera eccede sempre la sua temporalità per produrre (per profetizzare, avrebbe detto Benjamin) significati in momenti e luoghi diversi del suo futuro.

 

Due libri recenti articolano in modi diversi e originali questo nuovo approccio alla storia dell’arte. In Anachronic Renaissance Alexander Nagel e Christopher Wood procedono a una serie di acute e spesso impreviste riletture di opere e artefatti prodotti in un arco temporale che va dalla tarda antichità all’epoca rinascimentale, abbracciando culture figurative diverse e mettendo in rapporto dialettico due concezioni contrapposte, già individuate da Hans Belting nel suo saggio Il culto delle immagini (Bild und Kult, 1990): quella basata sulla sostituzione, dove l’autorità di un’immagine (come nel caso delle icone sacre) si fonda su una sorta di legame magico con un’origine remota, con un’altra immagine di cui si presenta come la perpetuazione nel presente (e dunque con un effetto di «ripiegamento» del tempo su stesso), e quella fondata sulla performatività, ovvero sulla presenza di un autore, riconosciuto come sola origine autentica, che agisce all’interno di un confronto tra convenzioni e innovazioni, vale a dire la concezione dominante l’arte (e la sua «storia») dal Rinascimento in avanti, la prima epoca, secondo una famosa definizione di Erwin Panofsky, capace di riconoscere esplicitamente la storicità e la relatività dello stile classico come un corpus nettamente distinto da quello dell’epoca «di mezzo». Anziché in termini di «superamento» o evoluzione, Nagel e Wood mostrano con grande lucidità metodologica come queste due concezioni si siano spesso sovrapposte e intrecciate, dando origine a dinamiche in cui l’ancoraggio cronologico si dissolve a contatto con la potenza sacrale dell’immagine e quest’ultima, trasformata in reliquia, viene a sua volta resa unica dalla prestigiosa distanza storica che le viene attribuita. Definire un’opera d’arte «anacronica» significa in effetti, scrivono gli autori, dire ciò che l’opera fa quando è ritardataria, quando ripete, quando esita e ricorda, quando proietta un futuro o un modello ideale.

 

Vergine col Bambino, 1300 ca, Santa Maria del Popolo, Roma - Vergine Eleousa, Venezia, XIV sec.

 

L’icona trecentesca della Madonna con Bambino conservata in Santa Maria del Popolo a Roma diventa così il punto di partenza per ricostruire la complessa relazione che si instaura nel Rinascimento tra immagini “senza autore”, o con un autore mitico (San Luca nel caso in questione), e le copie o derivazioni di mano di artisti ben identificati, da Melozzo da Forlì a Giovanni Bellini. La maniera autoriale “moderna”, mostrano Nagel e Wood, è costantemente attraversata e rimessa in questione dalla dinamica della sostituzione. Se infatti un dipinto quattrocentesco si ritiene “trasmetta” direttamente, in accordo con la teoria della mimesis, il suo contenuto visivo e concettuale, il genere del ritratto, che di tale concezione sembra essere l’emblema, appare affermarsi nella prima metà del Quattrocento sulla base dell’inatteso recupero del modello dell’icona bizantina a mezza figura, ritenuta in quest’epoca non già manifestazione di una realtà ultraterrena, ma al contrario registrazione visiva, testimoniale, di una presenza, nella fattispecie quella dei protagonisti della vicenda evangelica. I ritratti prodotti dai pionieri quattrocenteschi – da Jan van Eyck a Rogier van der Weyden, da Antonello da Messina a Giovanni Bellini – vengono posti così in relazione dialettica col modello antico del ritratto dipinto attraverso la mediazione dell’icona, il cui potere di resistenza alla temporalità e alla mortalità diviene un fattore decisivo nell’affermazione del nuovo genere. Un ritratto di Sandro Botticelli, ora a Washington, fornisce una sintesi simbolica e concettuale di questo processo: un ragazzo vi è raffigurato mentre regge tra le mani un medaglione al cui interno è stato incastonato un autentico dipinto trecentesco, un’icona che mette in tensione, all’interno della stessa immagine, due procedimenti figurativi polarmente contrapposti. 

 

 

Madonna di Cambrai, 1340 ca. - Hayne de Bruxelles, Madonna con Bambino, 1455 ca.

 

Ciò che viene scossa in Anachronic Renaissance, attraverso questo e molti altri esempi, è in altre parole la fiducia riposta dagli storici dell’arte nella «distanza cognitiva», in senso razionalista e protoilluminista, tradizionalmente attribuita alla cultura rinascimentale nei confronti del del suo passato «medioevale». Ciò che si presenta oggi a uno sguardo che ha ormai abbandonato il modello storicista è al contrario una tessitura fluida, in cui due modi antinomici di concepire l’origine di un’immagine – per sostituzione o per intervento di un autore identificato – convivono e interferiscono tra loro all’interno dello stesso spazio storico. L’opera d’arte rinascimentale, sostengono Nagel e Wood, non nasce in definitiva dal superamento «inevitabile» di una modalità precedente, quanto piuttosto dalla dialettica tra due modalità che genereranno presto a loro volta una intera gamma di nuove problematiche – dal falso all’imitazione dello stile classico, dall’arcaismo alla citazione ecc. – di importanza determinante per la pratica artistica moderna nel suo complesso.

 

Rogier van der Weyden, Madonna con Bambino e Ritratto di Philippe de Croÿ, 1460 ca.

 

Nel più recente Medieval Modern (2012) Nagel riprende questi temi in una prospettiva storica che si salda con la nostra epoca, analizzando una serie di casi esemplari in cui il riaffiorare di temi e concezioni medioevali solleva questioni cruciali dello statuto delle immagini nell’epoca contemporanea e allo stesso tempo si tiene intelligentemente a distanza da confronti puramente iconografici o dalle variegate forme di revival neomedievale. Ciò che interessa l'autore è piuttosto l'emergere di «analogie strutturali» che riguardano aspetti specifici della produzione e della diffusione delle immagini secondo una prospettiva antropologica che trova numerosi punti di contatto con le ricerche di studiosi come il già citato Belting, Horst Bredekamp, Gottfried Böhm e altri. Così, ad esempio, le installazioni Non-site di Robert Smithson – come quella della sua mostra Earthworks alla Dwan Gallery di New York nel 1968, in cui contenitori geometrici contenenti sassi prelevati nel New Jersey erano esposti insieme alla fotografia aerea dello stesso sito – sono messe a confronto con una scatola-reliquiario del VI secolo contenente pietre e frammenti lignei provenienti dalla Terrasanta e protetti da un coperchio dipinto con scene della vita di Cristo. Ciò che interessa Nagel è qui la modalità con cui le pietre e le immagini dipinte entrano in relazione e come questo nuovo insieme appaia connesso a distanza con i luoghi reali della vicenda evangelica, una «destabilizzazione topografica» che appare centrale anche nell’operazione di Smithson. Esiste infatti una relazione metaforica tra site e Non-site, una sorta di viaggio mentale, o di «anti-viaggio» come scrive l’artista, in un luogo simultaneamente «qui» e «altrove» che propone allo spettatore un’esperienza intensificata in senso percettivo e mentale. L’opera di Smithson “accade” dunque nella tensione tra queste polarità, cioè nello spazio percettivo/mentale dello spostamento, così come nella cappella di Sant’Elena in Santa Croce in Gerusalemme, dove erano esposte le reliquie della Crocifissione e sotto il pavimento era stata sparsa, secondo la tradizione, la terra del Calvario, si proponeva al fedele un vero e proprio pellegrinaggio, virtuale ma spiritualmente equivalente, in Terrasanta.

 

Robert Smithson, A Non-site: Franklin, New Jersey, 1968

 

In entrambi i libri, il recupero in senso anacronico delle complesse negoziazioni tra modelli, pratiche e usi delle opere d’arte apre anche a un decisivo ripensamento dell’improduttiva contrapposizione tra un passato immodificabile e un presente incomprensibile, tra integralismo della conservazione e irreparabile oblio, in cui si sono troppo spesso impantanati il dibattito storico-artistico e le scelte di politica culturale nel nostro paese. Confutando il sottinteso evolutivo dell’«inevitabilità» della concezione moderna dell’opera come singolarità ancorata a un evento creativo e a un momento storico irripetibile, e mostrando  come questa contenga originariamente una pluralità eterogenea di tempi e potenziali di senso, Nagel e Wood indicano una possibilità per rileggere anche la nostra esplosa contemporaneità artistica dal punto di vista di durate che resistono al ciclo ossessivo del consumo e dell’obsolescenza, di tempi e memorie in attrito con l’eterno presente dei media, di presenze non dissolte nell’uniforme bidimensionalità dello spettacolo. Interrogare la storia equivale in questo senso a scandagliare quella pluralità dialettica di tempi in cui Giorgio Agamben (Che cos’è il contemporaneo?, nottetempo 2006) individuava di recente il senso di «contemporaneo», mostrando come la categoria contenga in realtà una paradossale sfasatura, un anacronismo appunto: contemporaneo non è ciò che procede «insieme» ma piuttosto contro il (suo) tempo, che scorge l’oscurità dietro l’apparente trasparenza dell’oggi una discontinuità, una relazione problematica, uno scontro o un appuntamento tra tempi, storie, mondi diversi. Significa, in altre parole, aprire una possibilità per trasformare il presente e riattivare la storia.

 

 

Una versione più breve di questo articolo è uscita sul numero 30 di «Alfabeta2».

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