A proposito di un 'saccheggio fonico' di John Oswald

26 Febbraio 2015

Nell’aprile del 1968 la Warner Bros. Records, allora casa editrice dei Grateful Dead, pubblica un 45 giri con la prima versione registrata di Dark Star. Oggi l’idea che i Grateful Dead abbiano potuto incidere anche dei 45 giri è piuttosto sorprendente, sopratutto tenendo presente l’esperienza che abbiamo della loro musica. I Grateful Dead sono infatti conosciuti per pezzi ben più kilometrici, come un flusso senza fine, col solo limite della ‘capacità’ di un lato di LP. E per concerti nei quali le separazioni tra un pezzo e l’altro, come l’inizio o la fine degli stessi, erano dovuti più a questioni di comodità che a vere e proprie ragioni musicali. Come se la musica, idealmente, non dovesse mai interrompersi e mentalmente continuasse, filo conduttore della vita, sempre lì presente, e solo sfumasse, s’assopisse, per concedere al quotidiano un minimo di presenza. Dark star è un po’ il simbolo di questo dilatarsi della musica, dai 3 minuti (2’50’’ per la precisione), un po’ meno della capacità di un 45 giri, ai 23 minuti e 15 secondi di Live/Dead, il loro primo LP live del 1969.

 

Quella Stella Nera arriva quasi dieci anni prima di quella di Guerre stellari, ma in questo caso nessuna forza malefica in azione, nessun’arma di sterminio, solo pace e quiete. Comincia in sordina e poi gradualmente, come in un respiro calmo, il volume e il ritmo aumentano, senza però mai arrivare a una conclusione parossistica come invece spesso accade in questo tipo di composizioni, ed evolve verso la quieta fine che può essere sia un ricominciare da capo che la transizione senza rotture al pezzo seguente, un nuovo inizio, a conferma appunto dell’impossibilità a finire di questa musica. Dark Star è un lento ma deciso essere ‘preso per mano’ in particolare dalla chitarra cristallina, balbuziente all'inizio, che cerca, che si ripete, ma che man mano, con dolcezza, ti penetra il cervello, e da quel basso ossessivo che ti fa vibrare fin anche le budella. Un essere ‘portato su’, là dove il ‘viaggio’ è più facile, su di una nuvola di benessere dalla quale vedere il mondo con lenti colorate, per usare la terminologia psichedelica dell’epoca.

 

Comunque sia quella stella nera ha fatto parte della colonna sonora che ha accompagnato buona parte della mia adolescenza e l’ho sempre associata a un’idea di calore, di comunione e di quiete. Poi col passare degli anni l’avevo non dimenticata, ma quel ricordo, quella sensazione, si erano come ritirati in un angolo della mia memoria. È stata la scoperta di Grayfolded, triplo LP di John Oswald, tutto dedicato a Dark Star, che li ha come risvegliati.

 

Grayfolded, 1994

 

Grayfolded è il frutto di una commissione dei Grateful Dead stessi al compositore canadese John Oswald, conosciuto in particolare per i suoi plunderphonics, sorta di ‘saccheggi fonici’ (da plunder, saccheggiare, depredare e phonic, fonico) che lui stesso ha definito come citazioni audio riconoscibili e identificabili come tali di opere altrui, ed è uscita una prima volta su CD nel 1996.

 

I Grateful Dead non hanno mai fatto mistero del loro gusto maniacale a registrare ogni loro concerto e questo fin dagli inizi, mania che ha permesso loro d’alimentare la propria discografia con più di cinquanta CD live. Agli inizi degli anni novanta sono in una fase discendente ed è probabilmente il loro rapporto speciale alla memoria del loro suono registrato, che può spiegare questo rivolgersi proprio a Oswald perché manipoli, lavori su questa memoria. E questo in un momento in cui la pratica del mix e del sampling sono relativamente una novità (sono i primi anni della techno) e in cui Oswald è in pieno sotto i riflettori della cronaca dopo il processo e la sua condanna a distruggere tutte le copie e il master di Plunderphonic uscito nel 1989 (e oggi scaricabile gratuitamente su ubu.com). Condanna voluta dalla CBS, casa discografica di Michael Jackson, un po’ per la ‘cattiva immagine’ che poteva dare di lui, ma forse soprattutto per non aver pagato i diritti d’autore degli estratti musicali usati. In altre parole è probabilmente l’approccio particolare di Oswald al suono registrato, al contempo da compositore e collezionista nonché da geek, in cui in parte i Grateful Dead si riconoscono, che li ha affascinati e decisi a lanciarsi in questa ‘operazione’ sulla loro memoria.

 

Plunderphonics, 1989

 

Oswald si era già cimentato nell’accumulazione di più versioni di uno stesso pezzo ma mai in un progetto di tale ampiezza. In pratica i Grateful Dead, gli hanno fornito un centinaio di registrazioni live di Dark Star ripartite in un periodo che va dal 1968 (anno d’uscita del 45 giri) al 1993 e con questo materiale Oswald grazie ad un’azione di chirurgia quasi invisibile ricostruisce un altro pezzo, restando però estremamente fedele all’originale, rispettandone l’evoluzione, le respirazioni, la struttura generale. Oswald in un certo senso concretizza l’idea della dilatazione del tempo già ben presente nel lavoro dei Grateful Dead, e ricucendo tra di loro le diverse versioni di Dark Star a sua disposizione la dilata fino ad raggiungere una durata di 110 minuti. Per ottenere questa dilatazione temporale Oswald giustappone frasi musicali, alle volte anche estremamente brevi, provenienti dalle varie versioni a disposizione, senza tener conto della data di registrazione, ma prelevate dallo stesso momento 'cronologico' dell'evoluzione del brano e le cuce tra di loro. Ad ogni momento di Grayfolded fa seguito un momento simile ma prelevato da un'esecuzione di Dark Star che ha avuto luogo in un altro tempo.

 

È questo rispetto della ‘cronologia’ e della struttura di Dark Star che gli permette di conservare una grande assonanza e fedeltà allo spirito dell’originale (anche se si può dire che un vero e proprio originale non esiste, non è certo il 45 giri del 1968, forse la versione inclusa in Live/Dead, ma piuttosto una forma che si è andata definendo nel corso delle varie esecuzioni live) e di dilatare il pezzo senza però tradirlo. Oswald spezzetta e ricompone, il suo è un puro lavoro sul materiale e sul tempo, sulla temporalità sia essa quella del presente, interna alla composizione in corso, che quella ‘assoluta’, legata al quando le diverse esecuzioni di Dark Star hanno avuto luogo. Nel suo lavoro di cucitura non c'è opposizione, contrasto, non c'è concentrazione o sovrapposizione, ma dilatazione, ed è grazie al grande rigore ed alla grande precisione nel mascheramento delle dissolvenze tra un prelievo e l'altro che il risultato risulta estremamente fluido e tendente a sottolineare la continuità. Continuità che però non è semplice ‘fare un’altra volta’ o ripetizione di ciò che è già stato fatto, perché, come si è detto, l’estratto musicale deve essere riconoscibile ma non identico, ma piuttosto un leggero spostamento come un’assonanza con l’originale, assonanza già percepibile tra il titolo Grayfolded e i committenti Grateful Dead. O nella bella copertina composta da citazioni di temi cari ai Grateful Dead (il cranio, le rose, ecc.) il tutto organizzato come una vanità del Seicento. Più che il rifare, viene in mente uno degli elementi fondamentali della composizione, vale a dire il darsi una regola e rispettarla.

 

Diagramma dei primi 50min di Grayfolded

 

Infine, sia al CD che al vinile è poi allegato un grafico attraverso il quale possiamo seguire l’evoluzione temporale di Grayfolded e l’origine dei prelievi, vale a dire da quale esecuzione live di Dark Star provengono i suoni usati, e, anche se questo è stato redatto a lavoro terminato, si tratta infatti della traccia sonora, di come il suono ‘appare’ sullo schermo di controllo del computer, quindi più ‘fotografia’ del suono che spartito, possiamo considerarlo come prova del fatto che questo come gli altri plunderphonics di Oswald sono operazioni concettuali, dove tutto è costruito e pensato e dove niente è improvvisato o lasciato al caso.

 

Oswald inizia nei primi anni ‘70 a lavorare sui testi di William Burroughs con una tecnica simile ai suoi cut-up, poi si interessa a pratiche analoghe in musica e pubblica nel 1985 Plunderphonics or audio piracy as a compositional prerogative, testo fondatore della strategia futura. La regola che si è imposto della riconoscibilità del materiale sonoro lo orienta evidentemente verso un repertorio pop o di musica leggera; o quanto meno appartengono a questo repertorio gli estratti che vengono messi in avanti: da qui tra l’altro l'origine dei suoi problemi giudiziari. Così nel CD Plunderphonic del 1989 questi riferimenti, la loro successione e la loro organizzazione sono chiaramente spiegati e dettagliati nelle note del libretto che lo accompagna quasi a 'giustificare' il risultato ottenuto e come per dire che questo non è dovuto al caso ma alla sua volontà.

 

Due pagine dal libretto di Plunderphonics

 

Effettua ‘prelievi’, con una tecnica che può far pensare ad una sorta di copia-incolla del computer, dai Beatles, Michael Jackson, Elvis Presley, ecc., nella sua pratica non esistono più frontiere tra i generi musicali, e questi ‘prelievi’ sono manipolati, rallentati, accelerati, mischiati ad altre musiche e quasi naturalmente decontestualizzati, usati per produrre altro. La tecnica dell’accostare due oggetti incongrui per ottenere un effetto comico è un classico dell'umorismo e in diverse plunderphonics possiamo trovare momenti comici, ma non è certo l’elemento che Oswald ricerca. Ciò che lo interessa non è tanto l'accostamento incongruo o il détournement del senso, quanto piuttosto la forma generale del pezzo che quell’accostamento gli permette d’ottenere. I prelievi sono considerati come elementi a sé e usati come tasselli, come mattoni per ‘costruire’, più che comporre, prima grazie alle tecniche analogiche (nastro magnetico, montaggio manuale, ecc.) e poi a quelle digitali.

 

Oswald considera più il materiale sonoro come materia sonora direttamente manipolabile, da plasmare, da scolpire, e questo in sintonia con l’epoca sua, fatta appunto di musica onnipresente e già preconfezionata, alla quale le nuove tecnologie permettono un accesso diretto, rendendo la musica quasi palpabile, concreta, togliendole così una parte della sua immaterialità, della sua astrazione.

 

Il suo lavoro sottolinea l’importanza capitale di un ascolto cosciente, nel senso cageano dell’essere coscienti delle nostre orecchie aperte, e di un ascolto critico, nel senso dell’affermazione di un’autonomia di giudizio e del non subire passivamente e beatamente il flusso sonoro del mondo circostante. Del resto lui stesso si considera, più che un musicista, un ascoltatore:

 

«Passavo (played) dei 33 giri di musica classica a 78 giri, e ... la struttura m’appariva nettamente in una sorta di versione auditiva della visione panoramica (overview) ... spesso ... preferivo ascoltare dei pezzi musicali a velocità diverse da quella alla quale erano destinati»

Citato da Peter Szendy in Id. (a cura di), L’écoute, L’Harmattan - Centre Pompidou, Paris 2000, p. 64.

 

Ed è così che, in un certo senso, Oswald ci dà in ascolto il proprio ascolto, un ascolto che non è certo neutro o passivo, ma piuttosto un ascolto attivo e critico del mondo sonoro che ci circonda.

 

Probabilmente ciò che ha infastidito di più la CBS, forse inconsciamente, è stata la libertà che un ascoltatore si prendeva con la musica: da fruitore passivo l’ascoltatore diventava attivo. Non che l’ascoltatore critico o attivo sia una ‘scoperta’ di Oswald, è probabilmente sempre esistito, ma ora, in un primo tempo con la ‘democratizzazione’ del registratore a nastro magnetico e poi con la banalizzazione delle cassette, era possibile fare la propria hit parade a partire dalla radio o copiando gli LP degli amici e darla ad ascoltare, farla circolare, regalarla ad altri amici. Il supporto sul quale la musica era fissata diventava di facile riproduzione e di facile circolazione. E, come poi l’evolvere del conflitto tra case discografiche e ‘pirati’ ha dimostrato, è verosimile che questo ascolto attivo non piacesse alla CBS. Senza dimenticare che a Plunderphonics era aggiunta la menzione

 

«Questo materiale può essere condiviso con chiunque fin tanto che questa condivisione non faccia l’oggetto di un profitto finanziario diretto»

Citato da Peter Szendy in Id. (a cura di), L’écoute, cit., p. 65.

 

Verso del CD Plexure 1993

 

Comunque il processo che Oswald ha dovuto affrontare contro la CBS non ha avuto che degli inconvenienti. Infatti la giapponese Avant Record, fondata da John Zorn prima della nascita della Tzadik, gli ha proposto una collaborazione che si concluderà con l’uscita di Plexure (1993), nel quale Oswald aveva deciso di provare a includere in uno stesso disco tutti i nomi della pop music emersi tra il 1982 e il 1992, il primo decennio del CD. Se in Grayfolded Oswald dilata Dark Star, in Plexure comprime. Plexure è un condensato, un ‘riassunto’ degli standard del primo decennio d'esistenza del CD. Comprimere, espandere: il movimento temporale del respiro.

 

È compressione, riduzione, anche b9, the 9 symphonies of Beethoven … in 30 minutes, lavoro commissionato dall'Ensemble Modern di Francoforte nel quale Oswald seleziona una serie di sequenze sonore provenienti dalle sei o sette ore delle nove sinfonie di Beethoven in modo da ‘concentrarle’, appunto, in 30 minuti (un estratto può essere ascoltato qui ).

 

E questi sono solo alcuni dei lavori di John Oswald (e solo nel campo delle plunderphonics). La sua è un’opera labirintica, fatta di riedizioni mai uguali di un materiale sonoro mai fissato ma continuo, in divenire, di pseudonimi e mascheramenti (solo in parte e solo fino alla metà degli anni novanta, per sfuggire alle case discografiche). Così negli anni ottanta col nome Mystery Tape Laboratory fonda un ‘fantomatico e misterioso’ Laboratorio produttore di cassette, allora, come si è detto, supporto privilegiato per la diffusione semiclandestina di quei lavori ‘fatti in casa’. Poi adotta lo pseudonimo di Plunderphonic e con la fondazione della propria etichetta, che chiama scherzosamente fony, appare Norman Igma suo alter ego e suo intervistatore ‘ufficiale’.

 

Mystery Tape Laboratory, s.d.

 

Probabilmente la vera ragione della molteplicità dei nomi d’autore e dell’instabilità, della moltiplicazione, delle versioni è da ricercare nel rifiuto dell'unicità, nella perdita d’identità, dell’autore, e nell’utopica ricerca di una sorta d'autore collettivo. In questa prospettiva le plunderphonics, nel loro uso di un materiale sonoro alla portata di tutti, sono anche il rifiuto del virtuosismo dello strumento. Il sogno, solo in parte naif, di poter produrre suoni organizzati senza dover passare attraverso le forche caudine dell’apprendimento dello strumento. E infatti da più di un secolo la tecnologia, che permette di ‘fissare’, riprodurre, trasportare e manipolare i suoni, consente questo tipo di esperienze sonore, e, attraverso la manipolazione, dà accesso direttamente al suono, come se questo fosse materia non fissata una volta per tutte ma plasmabile all’infinito.

 

Le prime esperienze significative di manipolazione del suono registrato si concretizzano nei lavori elettroacustici di Pierre Schaeffer e Pierre Henry all'inizio degli anni cinquanta, ma è sopratutto dalla fine di quel decennio con la democratizzazione del magnetofono a nastro magnetico, che assistiamo alla loro moltiplicazione. Pensiamo, anche se da prospettive e con intenti diversi, oltre alla ‘scuola’ elettroacustica francese, ai cut-up di William Burroughs e Brion Gysin e alle esperienze di poesia sonora iniziate proprio in quegli anni da Henri Chopin e Bernard Heidsieck. Indubbiamente è questo ‘strumento’ che ha permesso, grazie alla possibilità d’intervenire direttamente sul nastro magnetico, di accedere direttamente al suono, al materiale registrato. O ne ha dato l’illusione.

 

Una delle peculiarità di queste esperienze, dal mio punto di vista anche una delle più interessanti, era quella di usare sia suoni musicali che suoni naturali, i suoni della vita, rompendo così la separazione tra gli uni e gli altri ed espandendo la gamma dei suoni potenzialmente musicali praticamente all’infinito. Quindi non più solo suoni strumentali prodotti da strumenti standardizzati, ma anche suoni nuovi, o meglio, suoni che sono sempre esistiti, i suoni del mondo, ma fino ad allora relegati al di fuori della sfera musicale. È il mondo che ci circonda che entra nella musica o viceversa. Opinione non condivisa da Schaeffer ad esempio che anzi scriverà il Traité des objets musicaux in parte anche per ‘canalizzare’ i suoni esterni al mondo musicale verso appunto il mondo musicale, osteggiando questa visione ‘pansonora’. Cage da questo punto di vista sarà molto più radicale.

 

Comunque sia trovo estremamente interessante la pratica che consiste a registrare, fissare, su di un nastro magnetico qualsiasi suono per poi prelevarne anche delle parti minime e dopo averli manipolati o meno, aggiungerli ad altri. Così come mi piace questa terminologia così poco da musicologo (fissare, manipolare, aggiungere), che da un lato molto toglie all'aura romantica del compositore-creatore e dall'altro mette l'accento sull'aspetto quasi da lavoro manuale, da meccanico che mette le mani nella pasta del suono. Tutto ciò era particolarmente vero quando queste manipolazioni si facevano direttamente sul nastro magnetico. Questo registrare, ascoltare, tagliare (facendo attenzione al clic che può produrre il contatto delle forbici metalliche col nastro magnetico), trovare il punto giusto di sutura, incollare, ascoltare di nuovo è, sia detto en passant, anche un bell’esempio di feedback. Così il supporto diventa il medium, diventa ciò su cui il compositore, Oswald ad esempio, lavora, attento all'involucro che contiene i suoni, non più a ogni suono individualmente, ma alla forma d’insieme che questi producono.

 

Fino all’introduzione delle tecnologie digitali tutto ciò era lavoro da certosino, ma oggigiorno queste tecnologie fanno sì che tutte queste operazioni siano diventate molto più rapide e semplici eppure nel contempo c'è, proprio in questa semplificazione, come una perdita di contatto col suono, un tenerlo a distanza, come se non lo si potesse più toccare ed eventualmente ‘sporcarsi’ le mani con esso. Quindi pratiche forse più asettiche, quasi da laboratorio, riducendo così poco a poco l'immagine del ‘mettere le mani in pasta’. Il compositore toglie la tuta e mette il camice anche se questo camice è alla portata dei più.

 

Da notare infine che, paradossalmente, questo lavoro quasi concreto sul materiale sonoro dei compositori elettroacustici ha condotto ad un risultato astratto, come erano i loro concerti a cavallo tra settanta e ottanta, solo alcuni altoparlanti sul palcoscenico (molto più raramente il magnetofono stesso perché il suono era regolato a partire da un banco di controllo situato in generale al centro della sala, tra gli spettatori) e gli ascoltatori con gli occhi semichiusi concentrati sull'ascolto. Sarà solo con l’accettazione della riconoscibilità della sorgente, punto d'incontro con le plunderphonics, e grazie anche alla generazione tecno e del mix, che si perderà questo aspetto astratto. Perché cercare di mascherare la sorgente dei suoni ottenuti, ad esempio, sfregando o percuotendo una spirale in acciaio? Se questi sono interessanti per il proposito del compositore, perché non chiamare la spirale in acciaio molla e concederle di 'presentarsi' per quello che è? Questa possibilità di 'riconoscimento' è estremamente aumentata negli ultimi anni proprio grazie da un lato all'accettazione in musica del mondo comunemente esterno ad essa e dall'altro grazie all'accettazione di quei 'soggetti sonori' in quanto tali, per quello che sono.

 

Comunque sia da più di un secolo accumuliamo, fissiamo, suoni su diversi supporti, tanto che, a condizione d'averli preventivamente registrati, potremmo far suonare assieme anche due morti. Così, anche se l'umanità perdesse la voce o la capacità di produrre suoni nuovi, saremmo in grado di continuare a fare musica sempre diversa semplicemente usando questa immensa biblioteca. E nelle plunderphonics è questa biblioteca che diventa il materiale sonoro. Ma adesso all’epoca dello sharing, che possibilità rimarrebbero a queste pratiche, che presuppongono comunque un materiale pre-esistente, sia esso il nastro magnetico o le curve del digitale, se non avessimo più accesso alle ‘tracce’ di quei suoni sul nostro computer perché il rubinetto del flusso sonoro dell'enorme memoria nella quale sono accumulate è stato chiuso? È questa la risposta delle Majors al tentativo, sotteso dalle plunderphonics e grazie alla tecnologia, di rendere impossibile la proprietà della musica cominciata con la sua fissazione?

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