La chiave del paradiso

13 Febbraio 2014

Pubblichiamo un estratto dall'ultimo libro di Marco Belpoliti, L'età dell'estremismo (Guanda).
In questa occasione abbiamo inaugurato una sezione sul nostro sito che raccoglie materiale inedito e d'archivio messo a disposizione di tutti gli interessati.

 

Nel gennaio del 1984 Mohammed Salam, giornalista libanese, si trova nelle immediate retrovie del fronte dove iracheni e iraniani si fronteggiano, precisamente vicino al villaggio di al-Usair, nei pressi del ponte sul Tigri, dove sette anni dopo, nel 1991, il generale americano Norman Schwarzkopf si fermerà nella sua avanzata durante la Prima guerra del Golfo. Nelle settimane precedenti c’è stata una lunga tregua, poi di colpo comincia un attacco iraniano. Salam è uno dei pochi giornalisti che si trovano nelle immediate vicinanze dei combattimenti. Se ne sta lì, intento a osservare un tiratore scelto iracheno. Questi è seduto dietro alla sua mitragliatrice pesante, ben in equilibrio così da poter resistere nella sua postazione. Il dito è fermo sul grilletto. All’improvviso si sente un suono acuto, stridulo, ronzante, come se venisse da un nugolo di cavallette, dice Mohammed. Il suono va intensificandosi, ma anche abbassandosi di tono, fino a quando  si percepisce chiaramente che è un grido articolato. Sono migliaia di bocche che urlano: « Ya Kerbala! Ya Hussein Ya Khomeini ».

 

Avanzano come un’onda umana che esce dalle trincee e dai ricoveri iraniani e viene avanti. Sbucano dietro gli avvallamenti e le colline del fronte: sono ragazzi, giovanissimi, adolescenti. Alcuni brandiscono a fatica il kalashnikov, altri alzano solo il pugno contro il cielo e scandiscono quelle parole. In mezzo a loro un uomo più anziano, con il turbante in capo, li incita. L’iracheno seduto dietro la mitragliatrice comincia a sparare. Racconta a Mohammed di averne uccisi a decine, di aver sparato come si spara a una fila di bottiglie, li falcia con la sua arma, anche se vede benissimo che sono solo bambini. Nonostante il fuoco di fila continuano ad avanzare: scavalcano i caduti, passano sopra i morti. Arriva anche un elicottero che spara dall’alto sulla marea umana. Ma non si fermano. Corrono incontro alle postazioni irachene, « come se nulla potesse fermarli ».

 

 

Mohammed Salam sta raccontando tutto questo a un suo collega, un giornalista tedesco, Christoph Reuter, studioso del mondo arabo. Stacca il filtro da una sigaretta e la infila nel bocchino annerito da anni e anni di catrame, e continua il racconto che ha raccolto dal soldato iracheno: « A un certo punto gli sono arrivati talmente a ridosso che il mitragliere è balzato in piedi, ha afferrato a sua volta il kalashnikov ed e scappato verso di noi, verso la postazione dove mi trovavo, nelle retrovie. Dopo poco siamo scappati da lì ». L’avanzata dei ragazzini non sembra arrestarsi. Ne aveva sentito parlare, Mohammed, ma ora li vede coi suoi occhi, seppur a distanza: « Cosi avvenivano le offensive iraniane, mandando i ragazzini al macello ».
Si calcola che nel periodo che intercorre tra il settembre 1980, inizio dell’invasione irachena, con cui comincia la guerra, e il 1982, momento in cui gli iraniani riconquistano la città di Khorramshahr, ondate successive di diecimila ragazzini arrivassero al fronte il giorno stesso o quello precedente l’attacco. A ogni assalto sul terreno restano centinaia e centinaia di cadaveri: giacciono vicino alle linee di difesa, galleggiano nelle acque ferme dei crateri creati dalle bombe, semisepolti dal fango. Hanno il cranio rasato e fasce legate alla fronte; ognuno di loro ha una chiave appesa al collo. Con quella, è stato loro detto, una volta caduti in battaglia potranno aprire la porta del paradiso.

 

Lo racconta anche una pagina dei disegni di Persepolis di Marjane Satrapi, e lo si vede nel film che ne è stato tratto: la signora Nassarine, che lavora in casa dei genitori dell’autrice come domestica, si presenta con una chiave in mano. Dice Nassarine : « Sono preoccupata per mio figlio ». « Vede questa? » continua. « Certo, è una chiave di plastica dorata » risponde la madre di Marjane. « Gliel’hanno data a scuola. Hanno detto ai ragazzi che se avranno la fortuna di morire in battaglia, questa chiave permetterà loro di entrare in paradiso. » La donna, dice, è credente, « devota alla religione tutta la vita », ma ora non sa più cosa pensare. « Gli hanno raccontato che in paradiso c’è cibo in abbondanza, donne, palazzi d’oro e di diamanti... »

 

 

« All’inizio della guerra » dice Mohammed Salam al collega tedesco « erano ancora di ferro, vecchie chiavi, di quelle che si tengono infilate nelle porte degli armadi o nei cassetti dei comò. Quel giorno a Bassora erano però già di plastica. Evidentemente il ferro era diventato troppo caro. » In Europa, commenta Reuter riferendo il racconto del collega libanese, era successo ai tempi delle battaglie nelle Fiandre, nel corso della Prima guerra mondiale; erano stati mandati a morire in migliaia, da entrambe le parti, contro le mitragliatrici di nuovo modello. Settant’anni dopo, ed era evidente a qualunque comandante militare che l’assalto frontale era un vero e proprio suicidio: conquistare pochi metri di terreno sacrificando centinaia e centinaia di soldati. Di nuovo, in quel conflitto che opponeva mussulmani sciiti a mussulmani sunniti, c’era la volontà di martirio dei ragazzini: andavano a morire in modo deliberato. Sul fronte opposto i soldati iracheni, riferisce il giornalista libanese, a un certo punto lasciavano le mitragliatrici e fuggivano. Gli sembrava di impazzire: sparare su dei bambini, che avevano l’età dei loro figli.

 

Reuter prosegue spiegando il significato di quel grido, cosa vuol dire Kerbala, parola urlata dai giovani suicidi: è una città dell’Iran dove trovarono la morte nel 680 un Imam e i suoi seguaci trucidati dalle truppe di un califfo. Nessuno poteva immaginare di risentire milletrecento anni dopo quel toponimo sulle bocche di giovanissimi martiri ispirati da un altro Imam, Khomeini, tornato qualche tempo prima dall’esilio parigino per istituire la « repubblica islamica ». Ma c’è un’altra ragione che ci porta a raccontare dell’assalto alle postazioni irachene in una guerra che farà milioni di morti inutili: vent’anni dopo saranno altri attentatori suicidi a riprendere, dall’Iran degli hezbollah, riti suicidi a loro estranei e a farne uno degli avvenimenti centrali del conflitto arabo-israeliano.

 

 

Reuter, nel ricostruire sul suo libro La mia vita è un’arma, pubblicato nel 2002, la storia degli attacchi suicidi, sottolinea come il fenomeno si sia manifestato per la prima volta, almeno nella nostra epoca, sulle linee davanti a Bassora, sui campi di battaglia tra Iran e Iraq, all’inizio degli anni Ottanta, con le piccole « chiavi del paradiso ». Scrive che fu come se il carismatico capo rivoluzionario iraniano « avesse deciso di far risuonare uno strumento rimasto a lungo accantonato: fece rivivere gli antichissimi, fondamentalisti riti sacrificali dell’Islam sciita, una versione di fede nata milletrecento anni prima come rivolta contro i califfi. Fu l’ayatollah Khomeini a resuscitare l’idea dell’autosacrificio come arma di guerra ». A posteriori sembra assurdo che questo antico rituale sia diventato uno strumento di azione bellica e insieme politica, un prodotto da esportazione. E furono le guardie della rivoluzione iraniana, sostengono vari autori e studiosi del fenomeno, a portarlo in Libano e a costruire insieme ad altri sciiti il partito degli Hezbollah, il « partito di
Dio ».

 

L’« operazione martiri » nasce proprio in Libano. Nell’autunno del 1982 e in quello del 1983 a Beirut e a Tiro cinque individui disposti al sacrificio, cinque autocarri carichi di tonnellate di esplosivo, e un piccolo movimento che li sorreggeva, costrinsero Stati Uniti e Francia a ritirare le loro truppe dal territorio libanese. Gli attentati suicidi diventano cosi un fenomeno moderno che mescola il ricordo antico di Kerbala e la televisione via cavo, antichi miti di sangue e internet, l’irruzione dell’arcaico, dell’ancestrale, del passato, nella contemporaneità postmoderna, o ipermoderna, che dir si voglia.

 

Leggendo il fumetto della Satrapi s’incontrano riferimenti precisi al lutto che coinvolse l’intero Iran. Il pianto era un dovere, anche perché il pianto era considerato, chiosa Reuter, un momento preliminare del martirio e poteva diventare, secondo Khomeini, un’arma terribile contro ogni oppressione. Il lutto non poteva essere qualcosa di privato, racconta Persepolis, bensì di collettivo: doveva volgersi, come apprende la piccola Satrapi, in ira, azione, volontà di vendetta. Nell’immenso cimitero di Behesht-e Zahra, lungo la strada per Qum, a sud di Teheran, che nel periodo della guerra con l’Iraq cresceva più velocemente dei nuovi quartieri popolari della capitale iraniana, era stata eretta una fontana con getto d’acqua rossa, che scorreva verso il basso su gradini di marmo proprio come una cascata. Era la fontana del sangue dei martiri. « L’albero dell’Iran può crescere solo se è costantemente imbevuto del sangue dei martiri » aveva sentenziato Khomeini. Le pagine dolenti che Reuter dedica a questo luogo fanno molto riflettere, anche perché oggi, senza che si sappia bene quanti corpi di combattenti custodisca, è quasi abbandonato, o almeno la fontana non getta più sangue. Restano solo le immagini di adolescenti, bambini di dodici, quattordici, sedici anni che fissano i visitatori dalle tombe del cimitero.

 

23 ottobre 1983, giorno festivo, a Beirut. Un grande camion giallo si avvicina al quartier generale dei Marines statunitensi nella zona meridionale della città. Sono le 6.20 e mancano pochi secondi alla sveglia dei militari. Il sergente Eddie Di Franco, in servizio di guardia, fa appena in tempo a scorgere l’autista mentre si dirige verso l’edificio principale dove esploderà uccidendo 241 uomini dell’esercito americano. Nella sua memoria resta stampata un’immagine. Non ricorda se il guidatore fosse magro o grasso, di carnagione chiara o scura, ma, come ripeterà successivamente, si ricorda benissimo che guardava verso di lui e sorrideva. Un sorriso indelebile che in seguito sarebbe diventato la base della leggenda del farah al-ibtissam, il « sorriso della gioia » stampato sulle labbra degli uomini-bomba negli ultimi istanti della loro missione.

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