Paulownia tomentosa, l’albero della Principessa

26 Maggio 2019

Le quattro di Place de Furstenberg, a Parigi, le più stuporose. In piena fioritura, paiono grandi candelabri lilla, che tendono i bracci fino ai piani alti dei fortunati edifici affacciati sull’isola tonda che le alberga. Più che una piazza, uno slargo in mezzo alla via omonima, un raccolto cortile pubblico assai charmant nell’area dell’antica abbazia di Saint Germain des Prés, scelto da Eugène Delacroix come sua ultima dimora, oggi casa-museo. 

Ci capitai per caso un maggio di molti anni or sono, quando le quattro paulonie erano di eguale età e grandezza, e fu uno spettacolo da togliere il fiato. Ora, una sola delle originarie sopravvive, e l’asimmetria con le più giovani sostitute riduce l’effetto di magie étonnante. Chissà in Cina, da dove provengono, quali e quante venerabili sorelle offriranno vedute ancor più incantevoli. 

La Paulownia tomentosa fu introdotta in Europa a inizio Ottocento dalla Compagnia Olandese delle Indie Orientali, e così battezzata in omaggio ad Anna Pavlovna, figlia dello zar Paolo I, poi moglie di Guglielmo II dei Paesi Bassi. L’aggettivo se l’è guadagnato invece per la peluria che ricopre foglie racemi e frutti (se ne sarà adontata la nobildonna?). 

 

 

Albero deciduo dal portamento maestoso, può raggiungere i venti metri d’altezza ed espandere un’ampia chioma globosa. I rami assurgenti si innestano nella parte medio-alta del fusto dritto che, nei giovani esemplari, mostra una tenera scorza grigioverde picchiettata da lenticelle, fessurata e bruna nei più vecchi. Sono fiori e foglie a renderla una pianta da prendere in considerazione per ampi giardini privati e pubblici. I primi, ermafroditi, compaiono su lunghe e rigide pannocchie terminali: le corolle tubolari, violette sfumate di bianco, aprono una fauce venata di pallido giallo, dall’orlo inciso in cinque lobi – più pronunciati gli inferiori –  ripiegati all’indietro, da cui emana un profumo dolce, avvolgente. Le foglie, ancora piccole, occhieggiano timide per non rubare la scena, consapevoli che la parata sarà effimera. Presto, quando i tromboncini lasceranno il posto alle capsule ovate dei frutti, potranno distendere la grande lamina cuoriforme e dondolarsi dai lunghi piccioli. 

Vigliacca, la mia non fiorisce da tre stagioni: i boccioli compaiono presto sui grappoli eretti, e per tutto l’inverno rimangono chiusi, in attesa del bel tempo, ma cascano se vento e gelo imperversano, frustrando ogni nostra aspettativa. Persistono invece fino alla fioritura successiva le vuote capsule fruttifere: aperte al mezzo dell’apice acuto, liberano leggeri semi alati che, contenti del poco, sfuggono dai giardini e inselvatichiscono in terreni incolti e calcarei, cave e boscaglie.

 

 

Di recente anche in Italia se ne sono riscoperte le qualità non solo ornamentali e se n’è avviata la coltivazione a fini commerciali: di rapida crescita, il suo legno è leggero, senza nodi, resistente alle deformazioni e alle temperature estreme, adatto a fabbricare semilavorati per l’edilizia, mobili e finiture di pregio, ottimo per produrre pasta da carta e biomassa. In Giappone – dove lo stemma araldico imperiale di fiore e foglie di paulonia è secondo solo a quello del crisantemo – è da secoli molto apprezzato anche per confezionare calzature (i geta, gli zoccoli infradito) e strumenti musicali. 

Sei Shōnagon, nelle sue sopraffine Note del guanciale, capolavoro del X secolo, così infatti appunta:

 

Belli sono i fiori rosso-violacei della paulownia, ma è un peccato che abbiano foglie troppo folte e larghe. Però, quest’albero ha doti eccezionali: in Cina si dice che sia l’unico su cui si degni posarsi il Ho, la mitica fenice; inoltre dal suo legno si ricavano i koto dal suono più armonioso, virtù questa che comunemente si ritiene piacevole, ma che io giudico davvero meravigliosa.

 

 

Può darsi che il legame con la Fenice derivi dal fatto che, se tagliato alla base, il tronco di paulonia ne rigetta rapidamente uno nuovo; certo è che l’usanza giapponese di piantare in giardino un kiri (l’albero di paulonia) alla nascita di una figlia femmina ha in sé l’idea di avere legno buono per la cassa in cui la fanciulla, giunta a nozze, conserverà i suoi kimono più preziosi.  

Quanto al koto, lo strumento a tredici corde simile a una cetra, è paragonato al corpo di un drago cinese disteso, perciò le sue parti principali sono chiamate testa, schiena e coda del drago. E di un kiri, di un’arpa e di un drago ci parla questo delizioso apologo taoista tramandatoci da Okakura Kakuzō nel suo Il libro del tè (1906):

 

 

In tempi remoti, nella gola di Lungmen svettava un albero di kiri, un vero re della foresta, che sollevava la chioma per parlare alle stelle. Le radici affondavano a tal punto nel terreno da avviluppare le bronzee spire del drago d’argento che riposava nelle sue viscere. Avvenne poi che un potente stregone ricavò dall’albero un’arpa prodigiosa, il cui spirito selvaggio poteva essere domato solo dal più grande dei musicisti. A lungo lo strumento fu gelosamente custodito dall’imperatore della Cina, ma vani si rivelarono i tentativi di quanti provarono a trarre musica dalle sue corde. In risposta ai loro sforzi, dall’arpa non si levarono che stridule note di disdegno, in nulla accordate ai canti che avrebbero voluto intonare. L’arpa si rifiutava di riconoscere un maestro.

Da ultimo si presentò Po Ya, il principe dei suonatori d’arpa. Accarezzò l’arpa con dolcezza, come per placare un cavallo riottoso, e ne sfiorò delicatamente le corde. Cantò la natura e le stagioni, le vette dei monti e i corsi d’acqua, ridestando tutti i ricordi dell’albero! Ancora una volta, la soave brezza primaverile tornò a scherzare tra i suoi rami. Le cascatelle che danzavano lungo la gola sembravano ridere alla vista dei fiori in boccio. Di nuovo si levarono le voci sognanti dell’estate con le miriadi di insetti, il quieto ticchettio della pioggia, il gemito del cuculo. Udite! Ruggisce una tigre, la valle risponde. È autunno: nella notte deserta, affilata come una spada risplende la luna sull’erba gelata. Ora regna l’inverno, e nell’aria gravida di neve turbinano stormi di cigni, e i chicchi di grandine percuotono i rami con gioia feroce.

Quindi Po Ya cambiò registro e prese a cantare l’amore. La foresta ondeggiava come un ardente corteggiatore perso nei suoi pensieri. In cielo, come una vergine altera, una nube chiara e radiosa il cui passaggio, però, gettò lunghe ombre sulla terra, nere di disperazione. E poi il tono cambiò di nuovo, e Po Ya cantò la guerra, il clangore di spade e i destrieri scalpitanti. E dall’arpa montò la tempesta di Lungmen, mentre il drago cavalcava il fulmine e la roboante valanga rovinava tra le colline. Estasiato, il celeste monarca chiese a Po Ya il segreto della sua vittoria. «Sire», fu la risposta. «Gli altri hanno fallito perché non cantavano che se stessi. Io ho lasciato che fosse l’arpa a scegliere il soggetto, e non sapevo nemmeno se l’arpa fosse Po Ya, o Po Ya l’arpa».

 

 

Un racconto sul «mistero del godimento artistico» ma pure sulla natura del capolavoro, dell’arte che vale e resta, una piccola narrazione sapienziale che dice più di tanti trattati teorici.

Da ultimo – visto che da tre anni dalla mia paulonia non ricevo altro – vorrei rendere giustizia alle sue larghe foglie, sdegnate dalla dama di corte Sei Shōnagon, che regalano un’ombra fresca nel colmo dell’estate. C’è un haiku, tra i suoi più famosi, che il grande poeta e maestro zen Matsuo Bashō (1644-1694) inviò all’allievo prediletto Hattori Ransetsu (1654-1707) per invitarlo a fargli visita e a condividere la solitudine del suo giardino in autunno. In Giappone è questa la stagione malinconica per definizione, la stagione del silenzio, ben resa dalla foglia che cade calma e senza alcun rumore. Bashō, cantore della natura e, attraverso essa, dei sentimenti umani, era forse consapevole di essere giunto anche all’autunno della sua vita. 

 

Sabishisa o

tōte kurenu ka

kiri hito ha

 

La solitudine

non verresti a trovare? 

Foglia di paulonia.

 

Non si finirebbe mai di citare passi, la letteratura cinese e giapponese è piena di paulonie! E vi esorto a leggere il classico per eccellenza della letteratura nipponica, La storia di Genji di Murasaki Shikibu, anch’ella dama di corte (ca. 973-ca. 1014), il cui primo capitolo è dedicato alla Dama del Padiglione della Paulonia, madre del bellissimo protagonista Genji. 

Ma mi piacerebbe assai leggere un’opera che Edoarda Masi segnalò nei suoi Cento capolavori della letteratura cinese (Quodlibet 2014): un testo teatrale di Bai Pu (1226-ca. 1306) dal titolo suggestivo Pioggia sotto la paulonia. Editori e traduttori, fatemi questo regalo! 

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