La lotta dei primi Ismailiti Nizariti contro il mondo islamico / Il metodo dell’assassinio

21 Gennaio 2020

C’è curiosità attorno al mondo arabo, in particolare la crisi USA-Iran mette di nuovo in primo piano il mondo sciita, forse scosso da ulteriori divisioni interne nel teatro di guerra iracheno. Rileggere o leggere per la prima volta (è questo il mio caso) L’ordine degli assassini, di Marshall G.S. Hodgson, un libro scritto settant’anni fa ora ristampato da Adelphi, su una setta sciita, gli Assassini Nizariti (Hašīšiyya), può essere di qualche utilità? Dipende dai punti di vista da cui guardiamo al magmatico mondo islamico in generale. Qualcuno può guardarlo dall’alto delle Torri gemelle (ricordando però la matrice sunnita delle organizzazioni in questione). Qualche altro spostando appena più indietro l’asse della storia, attorno alla seconda guerra mondiale, quando, a partire dal 1934, il capo spirituale palestinese, il Gran Mufti di Gerusalemme Amīn al-Ḥusaynī, strinse un infame patto di alleanza con Adolf Hitler, partecipando attivamente allo sterminio degli Ebrei. Il collante antisemita sembra essere ancora l’unico in grado di riunire, apparentemente, l’intero mondo musulmano, che forse unito non sarà mai. Non sono molti i contributi storici da parte araba, impossibile non registrare una perdurante, antica gelosia della propria storia, che si vorrebbe separata rispetto alle altre. Troppe questioni sono liquidate come “affari interni” e questo non ha niente a che fare con la storia. Punti di vista che gettano, giustamente, molte ombre su una storia complessa e per nulla priva di fascino. Ma cercare di decifrare l’attuale crisi medio-orientale leggendo un libro di storia medioevale è ragionevole? Un popolo privo di coordinate religiose sarebbe migliore? Quanto contano davvero le convinzioni religiose nelle guerre e nella politica? (Senza dimenticare che in fatto di ferocia le guerre di religione del mondo occidentale non hanno niente da invidiare ai conflitti inter-arabi, e che anche la nostra è una storia di sangue e di infinite intolleranze.)

 

Con queste non poche domande in mente (e a dire il vero con il continuo desiderio di rispolverare Voltaire) ho iniziato a leggere il libro di Hodgson, scritto e pubblicato negli anni cinquanta dopo un lungo lavoro di ricerca. Il libro cerca di mettere a fuoco un capitolo importante della storia araba del dodicesimo secolo. Gli Assassini del titolo ammiccano a una leggenda nera, quella di una setta implacabile capace di qualunque omicidio grazie all’uso di hashish, che avrebbe ottenebrato le menti dei feroci assassini, improvvisando etimologie basate su assonanze e storie inventate di sana pianta. Probabilmente l’hashish era utilizzato per suscitare sensazioni paradisiache negli adepti: da qui la leggenda del giardino incantato raccolta da Marco Polo, in cui il Vecchio della Montagna drogava i suoi giovani seguaci mostrando come in una visione mistica il loro posto in paradiso. Come è ovvio un combattente imbottito di hashish non può essere un temerario assassino ma soltanto un rimbambito ridacchiante. L’autore stesso nella sua introduzione cerca di fare chiarezza: “il termine Assassino, che in occidente indica sicari e terroristi, era in origine un nomignolo della setta e non aveva nulla a che fare con l’omicidio (…) tanto meno di Crociati.” Molto probabilmente il nome è associato al ribrezzo suscitato negli altri musulmani, che chiamavano così la setta Nizarita per manifestare il loro disprezzo: ai loro occhi apparivano come drogati, immorali, animati da una forza animalesca. Marshall G.S. Hodgson, storico dell’Università di Chicago scomparso nel 1968, dichiara di non volersi adagiare su miti e leggende, e per darci delle coordinate temporali cita alcuni nomi. La prima traduzione in inglese di Fitzgerald delle opere di Omar Khâyyam, per esempio: poeta astronomo e matematico persiano del dodicesimo secolo, che oggi potremmo definire di orientamento cinico-stoico se non addirittura nichilista. Uomo di grande intelligenza e apertura mentale appare anche nella poesia di Borges, e basteranno pochi versi (in questa traduzione italiana proposta dalla Einaudi) per capire perché:

 

Fin quando sprecherai tu la vita adorando te stesso?
E ad affannarti a correr dietro all’Essere e al Nulla?
Bevi vino, ché una Vita che ha in fondo solo la Morte
Meglio è che passi nel sonno, meglio è che passi in ebbrezza.

 

Presenza apparentemente dissonante, tra i nomi che si faranno via via, ma che rende giustizia di una complessità che va oltre le semplici ramificazioni settarie del variegato mondo musulmano. Che c’entra Omar Khâyyam con la setta dei Nizariti? Il gran Visir Nizām al-Mulk che lo proteggeva venne ucciso proprio dai seguaci del leggendario fondatore degli Assassini, Ḥasan-i Ṣabbāḥ, impedendogli di portare a compimento la sua grande riforma del calendario. La rivolta nizarita coinvolge infatti l’intero mondo islamico, che attorno all’anno mille ha già una storia secolare difficile da riassumere. Questi pochi nomi citati da Hodgson all’inizio del libro, che riguardano le conoscenze ipotetiche del suo lettore dell’epoca, dicono con garbo e stile più anglosassoni che statunitensi: so che non ne sapete niente. Quindi si tira su le maniche e comincia ad aprire le sue scatole cinesi. I Nizariti appartenevano a un’altra grande famiglia islamica, gli Ismaeliti, la cui conoscenza è imprescindibile per comprenderli, anche se il conflitto tra loro sarà a volte cruento e prolungato nel tempo. La storia islamica assomiglia al deserto: è mobile e multiforme, il nemico di oggi sarà l’alleato di domani. La senescente presenza del mondo romano e la grande tradizione filosofica greca vanno sbiadendo, lasciando il posto al nascente mondo islamico, che lentamente imporrà una visione totalmente autonoma e indipendente dal mondo esterno, offrendo “una via di salvezza ancora più perfetta”. Gli Ismaeliti governavano l’Egitto da due secoli, e le divisioni con il mondo sunnita sembravano ancora componibili. Il vecchio mondo basato sul conflitto tra impero romano e lo storico rivale persiano sassanide lasciava il posto al Califfato islamico che si estese consolidandosi sempre di più, eliminando ogni traccia del vecchio mondo. Il Califfato era a tutti gli effetti un governo militare sin dagli inizi, capace però di assorbire al suo interno infinite lingue e religioni tutte in forte opposizione tra loro. Varie forme di Cristianesimo si intrecciavano con la presenza ebraica, con il Manicheismo, lo Zoroastrismo, il Buddhismo, l’Induismo, il Paganesimo gnostico a sua volta parcellizzato in mille antiche credenze tribali. Per non parlare della Babele linguistica: greco, latino, armeno, copto, siriaco, pahlavi, sogdiano, sanscrito e così via.

 

Opera di Sanam Khatibi.


L’Islam era un grande ideale che si realizzava, aperto e inclusivo, qualcosa di più e di meno di una religione intesa in senso stretto. Muhammad era il Nuovo, la fede purificata, la fine delle infinite superstizioni beduine, si dichiarò appartenente alla religione di Abramo, e indicò una nuova direzione geografica della preghiera: la Mecca al posto di Gerusalemme, il rifugio del figlio di Abramo Ismaele, spirito originario del mondo arabo. In questa fase sorgiva l’Islam assimila senza alcuna difficoltà le antiche tradizioni greche e persiane, si forma un’importante élite intellettuale di studiosi e scienziati, si cercano strade originali, nuove forme d’arte e di poesia, sembra davvero realizzarsi il grande sogno di perfezione e purezza. Ma mentre il Califfato arabo si estende a macchia d’olio tra penisola araba e Africa settentrionale le divisioni si approfondiscono. Dopo Muhammad chi era autorizzato a guidare un popolo così variegato? Gli Imām sviluppano nell’ampio territorio le nuove teorie religiose e filosofiche, vere e proprie scuole capaci di rispondere alle domande più ardue sul senso dell’esistenza, della collettività, ma anche delle forme legislative e statuali: nasce così la šarī‘a. L’universo Sunnita offre una soluzione basata sulla šahāda, la dichiarazione di testimonianza: non c’è dio all’infuori di Allāh e Muhammad è il suo profeta. Il Califfato abbaside di Baghdad si basa sull’assoluta alterità di Allāh rispetto a tutte le concezioni umane. Ascetismo, purezza, castità e pietà sunnita si mescolano a un solido pragmatismo, la “lucida concretezza” di Muhammad. Nelle sue fazioni più estreme la scuola sunnita si evolve nel misticismo e nell’ascetismo della tradizione sufista, accettata ma non amata dal resto del mondo sunnita. Tanta apertura avrebbe dovuto accogliere tendenze di ogni tipo ma le resistenze al progetto di Baghdad prendono una forma irriducibile: la ši‘a, lo schieramento di ‘Alī, del quale fanno parte gli Ismaeliti. ‘Alī, cugino e genero del Profeta, dopo l’uccisione del terzo successore di Muhammad, stabiliva la linea di successione accettata dagli Sciiti, la ši‘a, appunto. Il meccanismo della designazione (la Nass) dell’imām divide sin dall’inizio le due scuole di pensiero. Per gli Sciiti Ismaeliti l’imamato aveva senso soltanto nella linea discendente di ‘Alī da Fāṭima, figlia di Muhammad: l’imām designato era l’unico sovrano e l’unico garante della šarī‘a. “Un tratto che si riscontra costantemente in questo tipo di sciismo è una religiosità fortemente drammatica. (…) Passionali nell’amore come nell’odio, gli sciiti vedevano se stessi come un residuo di salvati in un mondo corrotto.”


È l’imām che dà delle scritture (Il Corano, lo zāhir) la corretta interpretazione, rivelandone il significato occulto, il bātin. Come il nostro medioevo anche quello islamico non è soltanto un periodo oscuro, ma anche di luci. Gli Ismaeliti d’Egitto, chiamati anche Fatimidi perché discendenti della figlia del Profeta Fāṭima, aprirono le menti ad arti e mestieri, approfondendo lo studio delle scienze naturali e dell’alchimia, dimostrandosi tolleranti verso sunniti, cristiani ed ebrei. Sarebbe interessante e utile cercare di capire perché la saggezza illuminata di molti arabi medievali sia andata lentamente sparendo lasciando il posto alla ferocia e al fanatismo. La ricostruzione della lunga lacerazione interna del mondo ismaelita impegna Hodgson per molte pagine, tutte di grande interesse storico ma impossibili da riassumere in poche righe. Dal punto di vista drammaturgico si può dire che metà del suo saggio non sia altro che un necessario preambolo, al quale mi sono attenuto. Il rigore dello storico e dello studioso prevale sulla godibilità della narrazione, ponendosi il saggio l’unico obiettivo di fornire un valido strumento di lavoro agli studiosi. L’ordine degli Assassini (il cui vero titolo secondo me dovrebbe essere il sottotitolo: La lotta dei primi Ismailiti Nizariti contro il mondo islamico) si legge alla scrivania, con i dizionari e le cartine geografiche davanti, e non è certo lettura da comodino. Per ora abbiamo stabilito una grande differenza sul significato stesso della figura dell’imām: l’egualitarismo sunnita che rifiuta quasi completamente ogni tipo di clero, basandosi unicamente sulla šarī‘a uguale per tutti, si oppone all’imām sciita, figura quasi divina, fonte di leggi e di sapienza assoluta. Consumata la rottura con i fatimidi (ismaeliti) si apre la ribellione nizarita nei confronti dei domini selgiuchidi. La separazione dall’Egitto avviene parallelamente all’inizio delle operazioni militari contro di loro. Con la presa di Alamūt del 1090, una roccaforte desertica ma in posizione strategica sulla via del mar Caspio, entra in campo la figura carismatica di Ḥasan-i Ṣabbāḥ.

 

Gli scontri con i sunniti sono violentissimi. I nizariti privilegiano la tecnica dell’uccisione del sultano locale, per demotivare e spesso scompaginare il suo esercito. Esemplare l’uccisione di Nizan al-Mulk, citato all’inizio, pugnalato da un uomo vestito da sufi che fingeva di presentargli una supplica. Per spiegare il concetto di omicidio selettivo Hodgson racconta un episodio leggendario molto diffuso nel mondo sciita: la madre che non indossa il lutto per onorare la morte del figlio ucciso durante una missione assassina, ma anzi si adorna e festeggia. Quando invece le dicono che il figlio non è morto da martire ma è sopravvissuto e sta tornando a casa allora la donna si veste a lutto. Chi vuol vederci qualcosa di Sparta libero di farlo. Appare qui per la prima volta il termine jihād, guerra santa: più esattamente jihād hāfi, guerra segreta. In realtà sono molte le sette islamiche che avevano usato in modo sistematico la tecnica dell’assassinio, compreso lo stesso Muhammad che dichiarava alcuni nemici indegni di vivere. I puristi Kharjiti, più estremisti, dichiararono apostati tutti gli altri musulmani e si sentivano autorizzati ad ucciderli se li incontravano lungo il loro cammino. Un altro gruppo sciita veniva chiamato hunnāq, strangolatori, perché pare prediligesse quella tecnica omicidiaria. In questi giorni non è stato sufficientemente notato un particolare dell’intervento dell’Ayatollah Khamenei: “colpiremo i soldati americani ma non il popolo americano”. Ecco, questo ha molto a che fare con il mondo sciita. (Anche ammettendo, dopo solo due giorni di balle, di aver abbattuto per errore un aereo civile la dice lunga sulla sua non banale astuzia politica, se facciamo il paragone con il rozzo e per nulla democratico silenzio occidentale sulla strage di Ustica…) Uccidendo capi e leader, con qualsiasi mezzo, si evitavano guerre devastanti che avrebbero coinvolto gli innocenti, quindi l’omicidio si poteva definire compassionevole. I fedeli nizariti disposti al martirio pur di uccidere la vittima designata si chiamavano fidāi’ī.

 

Opera di Sanam Khatibi.

 

Il lettore appassionato di storie sanguinarie non si preoccupi delle mie scarne note in proposito: il libro li sazierà di stragi infinite e di intrighi e complotti segreti così segreti da sembrare improbabili. Chi erano le vittime dei famosi Assassini? I capi militari, i visir, gli amir, i califfi (ben due califfi di Baghdad furono eliminati dai Nizariti). Si noti che tra migliaia di assassinii, attribuiti a Nizariti e Ismaeiliti, neppure uno fu eseguito con il veleno: il nemico si uccideva platealmente con un pugnale, spesso in moschea, davanti al suo popolo. Battaglie, assedi feroci, massacri di massa, il mitico Ḥasan-i Ṣabbāḥ che allontana la sua e le altre mogli per combattere liberamente. La lunga guerra nizarita contro tutti sembra non avere mai fine. Anche se a un certo punto emergerà il bisogno di una terra stabile, trasformando guerrieri nomadi in popolo. I signori di Alamūt (fortezza a circa cento chilometri dall’attuale Teheran, da cui si irradiavano gli ordini di Ḥasan-i Ṣabbāḥ) estendono progressivamente il loro dominio. Per localizzare le capacità espansive dei Nizariti si pensi che nel 1133, a seguito del massacro sunnita a Damasco, conquistarono Qadamüs, nel Jabal Bahrā, a nord del Libano. Tra gli eserciti in campo non vanno dimenticati i Franchi, in una intricata partita che vedeva fortezze cadute e riconquistate all’infinito, con alleanze mobili che si trasformavano continuamente nel loro contrario. Il rapporto tra Ismaeliti e Nizariti sarà mobile come un elastico: dal punto di rottura totale si passava a una sorta di freddo buon vicinato. Nonostante tutto per un secolo e mezzo i Nizariti mantennero le loro posizioni senza subire alcuna umiliazione da parte dei loro innumerevoli nemici. Quando nel 1164 l’imamato nizarita viene rivendicato da Ḥasan II, figlio di Muhammad inn, si respira aria di cambiamento nei giardini di Alamūt: non siamo più di fronte a un dā‘ī, ma a un califfo, l’imām tanto atteso, il sovrano investito da Dio. Proclama la fine del mondo e annuncia la resurrezione dei morti (qiyāma) nel diciassettesimo giorno di Ramadān: si poteva bere vino e festeggiare. La šarī‘a non serviva più a niente. Gli ismaeliti sembrano apprezzare il nuovo imām, molto più colto e intellettualmente aperto dei precedenti, addirittura attirato dalla mistica sufi e dalla filosofia greca. Il primo dei due squilli di tromba della resurrezione l’aveva suonato Ḥasan-i Ṣabbāḥ; il secondo annunciava l’avvento del qā ‘im, il giudice della resurrezione.

 

Il paradiso si può conquistare prima della morte, perché la resurrezione è solo dello spirito e non dei corpi. Dio si può conoscere subito e direttamente, come insegnavano i Sufi. La proclamazione della fine della šarī‘a segna il punto più profondo della frattura con il mondo sunnita. Il risultato di questo sconvolgimento? Un omicidio, naturalmente. Ḥasan II viene ucciso quasi subito, non da mano sunnita ma dal cognato, appartenente a una dinastia sciita duodecimana. L’assassino fu poi ucciso dal figlio di Ḥasan Muhammad, insieme a tutta la sua vasta famiglia. Si apre l’era di Muhammad II, che regnerà a lungo, seguendo le orme del padre. La figura mistica dell’imām-qā ‘im è tutto: attraverso di lui i fedeli potevano essere ammessi alla presenza del divino. Dice un antico detto sciita: “Se per un solo istante non ci fosse un imām il mondo cesserebbe di esistere.” Quella che potrebbe apparire un’anomalia assoluta, la resurrezione dei morti (qiyāma), apre in realtà una parentesi di assonanze con le scritture evangeliche cristiane, note anche ai Nizariti, e Hodgson giustamente ci si sofferma a lungo, scrivendo forse le sue pagine migliori. Io sono la resurrezione e la vita; Io sono la via; viene l’ora ed è questa; Io sono nel Padre e il Padre è in me. Giovanni Evangelista descrive esattamente l’imām Nizarita. Che ha però un carattere meno accomodante del Profeta Gesù e non laverebbe i piedi a nessuno. Dobbiamo anche ammettere che gli stessi discorsi sull’infallibilità del capo religioso si ritrovano identici nel nostro mondo. Raggiunto il culmine del conflitto religioso attorno all’applicazione della šarī‘a il conflitto con gli altri musulmani, con il passare di tre generazioni, sembra quasi dissolversi. Il massimo allontanamento teologico produce una nuova forma di convivenza. La furia di Ḥasan-i Ṣabbāḥ evolverà in figure sempre più spirituali, come quella del leggendario Rashīd ad-Dīn Sinān, che in territori siriani acquista già all’epoca di Muhammad II fama di perfezione e di santità.


Vede le impurità nelle pentole chiuse, annuncia la morte dei suoi interlocutori precisando date e modalità: è anche un mago-veggente. Gli omicidi si fanno più rari, e lentamente sfuma la storia leggendaria degli Assassini, che in realtà continua in altre forme. “La vasta campagna militare ismaelita contro i Selgiuchidi sembrava assai diversa, quando Ḥasan-i Ṣabbāḥ dirigeva in silenzio le sue forze ubique da un’inflessibile Alamūt, rispetto alla resistenza virile ma disorganizzata dei montanari del Rūdbār. La severa dottrina del ta‘lim (…) era stata sostituita da un misticismo eclettico, o dall’adorazione di un eroe locale. I partigiani onnipresenti di una rivoluzione islamica erano diventati impercettibilmente un popolo rustico, gelosamente appartato dal mondo.”

A questo punto vorrei fare un’osservazione solo apparentemente stilistica: a rendere ardua la lettura di questo testo, soprattutto nella parte inevitabilmente riassuntiva, è una sorta di vuoto antropologico, nel senso che si vorrebbe qualcosa di più umano: etnie, guerrieri, autorità, geni della matematica e studiosi esoterici appaiono tutti come predoni del deserto, nel senso che appaiono a una sola dimensione, come una caratterizzazione già stabilita a priori. Forse avvertendo questo limite, in appendice sono stati inseriti ampi frammenti di testi dell’epoca. Testi che divulgano la dottrina nizarita a un pubblico non colto, ma non per questo meno interessanti. Una mistica ingenua ma altissima sembra fondersi con le necessità della vita quotidiana: com’è Dio-Allāh? ha le gambe, ha le braccia? e se non le ha è perché lo ha voluto? Non voglio che la mia osservazione sembri una critica al grande lavoro di scavo portato fino in fondo da uno storico scrupoloso, alle prese con materiali frammentari, spesso traduzioni di traduzioni, quasi sempre senza data. Agli storici di oggi l’arduo compito di riempire le caselle lasciate vuote da Hodgson.

 

Marshall G.S. Hodgson, L’ordine degli assassini – la lotta dei primi ismaeliti nizariti contro il mondo islamico, a cura di Svevo D’Onofrio, pp. 522, Adelphi, 2019

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