The Dead don’t Die / Gli zombi votano Lega

4 Luglio 2019

Il film del 2013 di Jim Jarmusch sui vampiri – Only Lovers Left Alive – fu bene accolto dalla critica. Il film recente dello stesso Jarmusch sugli zombi – The Dead don’t Die – è stato invece maltrattato da critici e commentatori. Mi chiedo se questa differenza di valutazione di due film che fanno il verso a due generi cinematografici classici non sia conseguenza in parte delle figure prescelte: i vampiri sono “nobili”, gli zombi invece sono “plebei”, quindi volgari. Per cui chi fa un film di zombi, perde automaticamente la propria aura.

Sin da quando venne creato col romanzo The Vampyre di John William Polidori, pubblicato a Londra nel 1819 (Il vampiro, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 2009), il vampiro appartiene al mondo aristocratico. Era Lord Ruthven, frequentatore della vita mondana londinese, attratto specialmente dal sangue delle belle donne. Polidori era amico e medico personale di Lord Byron, che aveva spinto lui e altri a scrivere un “romanzo gotico”, ma per lunghi anni il pubblico inglese era convinto che Polidori fosse uno pseudonimo di Byron stesso, il più famoso letterato snob dell’epoca. Oggi la storia letteraria insinua malignamente che la figura del Lord vampiro adombrasse in realtà Lord Byron stesso, star che aveva i suoi lati lugubri. In seguito la figura del vampiro si legherà a quella di un famoso condottiero, il conte Dracula. Così, si cimenteranno col tema del vampiro alcuni tra i più grandi maestri da cinemateca: Murnau (Nosferatu, 1922), Dreyer (Vampyr, 1932), Polanski in versione comico-grottesca (The Fearless Vampire Killers, 1967), Herzog (Nosferatu: Phantom der Nacht, 1979), Francis Ford Coppola (Bram Stoker’s Dracula, 1992) e altri ancora.  Insomma, il mito del vampiro, creato esattamente due secoli fa, è circonfuso da un alone aureo della settima arte.

 

Il genere zombi nasce invece nel 1968 con un film quasi artigianale di George A. Romero, The Night of the Living Dead, ma, malgrado il successo dei film di Romero, esso viene tuttora classificato come genere “basso”. Esso starebbe all’horror raffinato così come il wrestilng sta alla boxe. E in effetti le impostazioni dei due film di Jarmusch riflettono bene questo scarto, oltre che di prestigio del genere, di qualità di classe sociale direi.  Questi due meta-film di Jarmusch riverberano le differenze di rango tra i due generi.

I vampiri moderni di Only Lovers Left Alive (Solo gli amanti sopravvivono) sono signori decadenti che vivono in una jet set society notturna. Stanno tra due città per ragioni diverse declinanti, Detroit e Tangeri, entrambe circonfuse da un’aureola di gloria calante. Malinconici e arroganti, questi vampiri conoscono tante lingue, coltivano l’arte e la letteratura, uno ha scritto le opere di Marlowe e di Shakespeare, insomma, odorano di aristocrazia decaduta ma altera. Allegorizzano gli intellettuali umanistici – quelli che si accalcano nei dipartimenti di Comparative Literature o Humanities americani. Il film, con le sue tante strizzatine d’occhio sulla storia della cultura e del cinema, si rivolge a un pubblico che si assimila per affinità ai protagonisti: un pubblico che si crogiola nelle ombre del suo tramonto all’epoca dell’ascesa dei populismi irosi. È interessante che questi vampiri-snob chiamino “zombi” i viventi che si accalcano nelle città alla moda. Per loro, i veri morti sono i vivi…

 

Ben diverso è il setting di questo ultimo film sugli zombi. Si svolge in una sperduta cittadina della provincia americana, sarcasticamente chiamata Centerville, e ne sono protagonisti umili agenti di polizia del piccolo centro, contadini, cameriere di diners, minorenni in riformatorio, ragazzi squattrinati che dormono in un banale motel da Psycho…  Per il resto, Jarmusch si attiene scrupolosamente a tutti i luoghi comuni delle figure mitiche degli zombi, a cominciare dal loro modo sciancato e ridicolo di deambulare come marionette senza fili, fino… all’interpretazione finale del genere, al “messaggio” come si diceva un tempo, articolato a fine film come morale della favola, dall’unico personaggio immune dalla carneficina dell’umanità perpetrata dagli zombi: un eremita scorbutico che contempla la catastrofe da lontano e ci ammannisce le interpretazioni filosofico-morali ormai consolidate di questo genere, ribadite da una valanga di dotti articoli e saggi. Dice che gli zombi sono una metafora del materialismo contemporaneo delle masse, le quali puntano al possesso dei beni materiali e si escludono dalle solidali gioie dell’intersoggettività. In effetti, non si tratta di un film sugli zombi, ma di un film sul cinema del genere zombi, e l’interpretazione ormai canonica di questo genere è parte degli stereotipi che il regista ripete ironicamente. Il commento cliché si incolla ai cliché del genere, l’interpretazione psico-sociologica del genere diviene parte del genere stesso. Il film dovrebbe anche far ridere, ma non chiunque: possono ridere solo gli intellettuali che seguono la cultura popolare con una certa condiscendenza.

 

Anche le tante allusioni del regista sono diverse nei due film: mentre in quello sui vampiri i riferimenti sono colti, “alti” – il vampiro Adam, ad esempio, che si finge medico per rubare sangue, si fa chiamare Doctor Faustus – in quello sugli zombi i tanti riferimenti riguardano la cultura popolare dell’horror. 

Come è noto, il nome che si è imposto – zombi – è una distorsione di senso del termine originario usato ad Haiti: qui gli zombi non erano morti, ma uomini viventi completamente asserviti alla volontà e al potere di altri uomini viventi. Al contrario, gli zombi del genere cinematografico non obbediscono affatto agli esseri umani viventi, anzi, il loro unico obiettivo è mangiarseli, rendendoli zombi a loro volta. Filosofi e saggisti hanno sempre trovato un filo essenziale tra lo zombi haitiano originario e quello di celluloide, dato che in entrambi verrebbe annullata la libera volontà individuale. Entrambi raffigurerebbero le masse alienate e oppresse. Ma gli zombi del genere cinematografico sono in effetti dominati da un’unica pulsione, che Freud chiamerebbe sadico-orale: quella cannibalica. Essi si riducono a puro bisogno di mangiare carne umana. Sono quindi gli esemplari più radicali del degrado dell’umanità. Da notare che mentre i nobili vampiri devono nutrirsi del sangue dei viventi per sopravvivere, hanno insomma bisogno dei vivi per continuare a “vivere” (interpretazione marxista d’obbligo: “sono metafora della borghesia che per vivere e dominare ha bisogno di sfruttare il lavoro altrui”), gli zombi non sono famelici di carne umana per “sopravvivere”, ma per pura ingordigia. 

 

 

Secondo il copione classico chiunque muoia diventa zombi, insomma, lo zombismo è democratico, dato che non guarda in faccia a nessuno. Ma la connotazione plebea – un tempo si sarebbe detto proletaria – si impone proprio attraverso questo egualitarismo di destino (che contrasta con l’eccezionalità invece della condizione vampiresca). Lo zombi può essere visto come la caricatura mostrificante del modo in cui le classi più prospere e istruite vedono le classi basse, i rednecks, chi unisce basso reddito a basso titolo scolastico, e chi per di più vive in piccoli centri irrilevanti come Centerville, insomma – secondo tutti i sondaggi – coloro che oggi in Occidente votano per Trump in America, per Farage in Gran Bretagna e per Salvini in Italia. Non è un caso che in The Dead don’t Die vediamo un rozzo contadino reazionario indossare un berretto con su scritto “Make America White Again”. Mentre si può scommettere che i vampiri di Solo gli amanti sopravvivono voterebbero PD, dato che ormai il voto per la sinistra, in Occidente, è voto dei benestanti e delle persone colte. Possiamo vedere nel vampiro l’esagerazione caricaturale del modo in cui le classi più basse vedono “i signori”. 

 

Come per altri versi Quentin Tarantino, Jarmusch evita accuratamente ogni concessione alla verosimiglianza, dato che entrambi costruiscono film a partire da altri film. C’è però una differenza importante tra Tarantino a Jarmusch, dato che il secondo fa un cinema “per pochi”, mentre Tarantino fa un cinema “per tutti”, e in tutti includo anche critici cinematografici, professori universitari, storici, filosofi, ecc., che lo amano. Anche Tarantino provocatoriamente si mette sotto i piedi ogni criterio di plausibilità, ma enuncia sfacciatamente: “Un film è una macchina per divertire. Punto”. Non c’è alcun secondo fine morale, estetico, pedagogico dietro film tarantiniani che devono fare molti soldi. Certo i film di Tarantino sono correttissimi politicamente – i neri, gli ebrei e le donne sono quasi sempre gli eroi positivi – ma questo perché nel pubblico non sorgano resistenze all’abbandono al puro piacere dello spettacolo truce. Questo cinismo piace anche all’intellettuale, che vede in Tarantino del cinema puro, liberato cioè dalla zavorra dei fini edificanti. Jarmusch invece infarcisce i suoi film di citazioni ironiche e di allusioni sofisticate che disturbano il pubblico di massa, il pubblico zombi (così gli intellettuali considerano le masse che godono del cinema Kitsch, diciamola tutta) il quale vuole andare a vedere un film di zombi per spaventarsi e basta. The Dead don’t Die rischia però di scontentare entrambi i tipi di pubblico:  il pubblico di “zombi” vuole solo godere-soffrire del suspense, e quindi non apprezza le scivolate meta-filmiche (verso la fine, per esempio, i personaggi fanno riferimento esplicito al copione della sceneggiatura del film che li costringe ad agire in un certo modo…). Insomma, il pubblico-zombi – se mi si permette questa qualifica che mi assimila a un vampiro blasé – non gradisce il Verfremdungseffekt, l’effetto di straniamento di Brecht, che Jarmusch applica in quasi tutti i suoi film. Ma il pubblico sofisticato e cinefilo non trova il film abbastanza “straniato”, dato che riproduce tutti i marchingegni tipici del genere per creare paura e raccapriccio. Perché l’horror consiste appunto nel creare paura e raccapriccio, diciamo disgusto, fino a goderne. È quella che chiamerei la catarsi orrifica.

 

Ci si potrebbe chiedere, infine, che cosa attragga della saga zombi un regista come Jarmusch, come molti pensatori (in Italia il filosofo Rocco Ronchi ha dedicato agli zombi un bel libro, vedi qui e qui). Al fondo, credo, il mito seduce perché nella figura del morto-vivente si esprime una crescente repulsione per la morte e i morti, il crollo di una certa aura religiosa che finora aveva circondato la morte. Morire coincide con la forma più degradata di vita carnale: un’incoscienza ravvivata solo da una incoercibile voglia di mangiare. In passato i morti che non volevano morire erano spiriti, figure eteree, smaterializzate. A Napoli i fantasmi si chiamano munacielli perché le loro forme curve ectoplasmatiche li rendono simili ai monaci, ma questo riferimento ecclesiastico in qualche modo li spiritualizza. Invece oggi la morte che non muore del tutto è ridotta a puro corpo, a bruta vitalità minimale. I morti non sono più soggetti che ci assillano, ma meri corpi-scarto che ci minacciano. L’invidia dei morti per i viventi – tema ancestrale che si ritrova in quasi tutte le culture – si riduce alla sua forma più materiale e orrida.

Ma se partiamo dal presupposto che il morto è la figura paradigmatica dell’Altro (in senso lacaniano), possiamo leggere la paura-attrazione per gli zombi come segno della nostra crescente intolleranza nei confronti dell’Altro, in tutte le sue forme: chi non è civilizzato come noi è peggio di una bestia, è carne cieca, feccia. Nella nostra cultura non c’è posto per il radicalmente Altro se non nella forma disgustosa e persecutoria dello zombi. E non a caso, credo, nel suo film Jarmusch associa l’invasione degli zombi a una vita di piccolo centro percorsa da minacce di esclusione: dalla presenza del razzismo bianco, ma soprattutto dalla secessione dell’eremita Bob, che si pone come Altro assoluto rispetto alla comunità vivente. Bob, all’inverso degli zombi, è Altro positivo, ed è l’unico a sopravvivere.

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