Da irredentista ad antimilitarista / La guerra di Alvaro

30 Dicembre 2018

Il 4 novembre 1918, l'armistizio di Villa Giusti, siglato il giorno prima da Italia e Austria-Ungheria, poneva fine alle ostilità fra i due Paesi. Una settimana dopo, la Prima Guerra Mondiale era finita. Evento cardine della modernità novecentesca, la Grande guerra gettava le basi per un equilibrio fragile, destinato a sfociare in un altro e ancora più sanguinoso conflitto. A un secolo esatto di distanza, che cosa rimane di quella terribile esperienza? Siamo stati davvero capaci di elaborare il trauma, o stiamo nuovamente cadendo preda di pulsioni revansciste, militariste e xenofobe? Con l'aiuto di storici, scrittori e studiosi, attraverso una serie di interventi cerchiamo di ricostruire l'impatto del primo conflitto mondiale sulla coscienza collettiva. Un modo per ripensare la memoria della Grande guerra, con un occhio al futuro.

 

Ai primi di gennaio del 1915 Corrado Alvaro «da San Luca» (come si firma nelle prime prove poetiche), classe 1895, si reca da Roma a Firenze, sede del corso per Allievi Ufficiali cui è assegnato. Il suo arrivo è evocato in quello di Luca Fabio, alter ego dell’autore e protagonista di Vent’anni: «All’alba d’una mattina d’ottobre, Luca Fabio scendeva alla stazione di Firenze con una valigia di tela grigia mezzo vuota come un mantice. L’ora era pigra e nebbiosa, e, attraverso la nebbia, chiese e palagi arretravano in una lontananza cinerea, come offuscata dalla terra degli scavi. Luca Fabio era di un qualche paese dell’Italia meridionale, e di una contrada non illustre, nient’altro che pastori [...] pensava per la prima volta che cos’è mai l’Italia se egli, italiano, sentiva soggezione come uno straniero in quella città. Gli si imbrogliava la lingua, aveva timore di chiedere dove fosse la caserma, sentiva la sua parlata meridionale come un gergo, e a nessun patto avrebbe aperto bocca [...]. Questa mescolanza d’espressioni, e la sovrapposizione dei ricordi della sua regione in questo mondo diverso, lo sbigottivano».

 

Corrado Alvaro con i fratelli Guglielmo e Beniamino.


Alvaro ha alle spalle un’infanzia e un’adolescenza intense e sofferte, che lo hanno maturato in fretta, tra entusiasmi e delusioni. A San Luca, in «quel mucchio di case presso il fiume circoscritto da orti dolcissimi e digradante verso il mare, sulla balza aspra», aveva passato gli anni «più vasti e lunghi e popolati» (Memoria e vita, 1942), che torneranno sempre nelle sue opere. Il padre, il maestro Antonio, lo aveva mandato insieme ai due fratelli nel Collegio di Mandragone, da cui sarebbe stato allontanato nel 1910, per aver letto il proibito l’Inno a Satana di Carducci. Nell’autunno del 1911 Alvaro entra al «Galluppi» di Catanzaro, dove si fa notare per cultura, capacità di iniziativa e per le idee irredentiste. Anche il periodo catanzarese si conclude, nel 1914, non senza amarezze. Dopo qualche giorno trascorso presso l’amico Domenico Lico a San Costantino Calabro, Alvaro fugge dalla Calabria, senza passare da S. Luca, alla volta di Roma, dove resterà solo qualche mese.

A Firenze, come ricorda Lico nella Biografia di Alvaro (inedita), il mondo letterario accoglie benevolmente il giovane scrittore, che già a Catanzaro e Roma aveva cominciato a tradurre autori stranieri e a pubblicare su riviste alcune poesie. È qui che Alvaro incontra la contessina Ottavia Puccini, con la quale comincia una frequentazione, seguita da una lunga corrispondenza che durerà fino alla fine della guerra.

Intanto, per le vie d’Italia risuonano gli echi bellici e i proclami interventisti. Ritroviamo in Vent’anni il clima di attesa e sospensione, di separazione dal mondo vissuto dai soldati e dagli ufficiali chiamati alle armi. Nominato sottotenente, Alvaro lascia Firenze nell’agosto del 1915 per raggiungere il reparto cui è stato assegnato, di stanza a Perugia. All’inizio di settembre il suo battaglione è inviato sull’Isonzo. Lo scrittore entra in contatto con la dura e impietosa realtà della vita dei combattenti al fronte. L’idillio dei mesi fiorentini è un vago ricordo, davanti agli spettacoli disumani ed estranianti della guerra. Nelle lettere indirizzate ad amici e, in particolare, alla contessina Puccini, eletta a «madrina di guerra», Alvaro confessa la propria disillusione. Non rinnega il patriottismo, ma appare critico nei confronti delle gerarchie militari e amareggiato per l’incomprensione degli italiani della condizione dei soldati al fronte. Nelle lettere Alvaro anticipa e descrive stati d’animo, sensazioni, vicende che poi ritorneranno, trasfigurate, in Vent’anni e in Poesie grigioverdi.

Il 9 settembre, scrive all’amica: «Lei non può immaginare quanto faccia piacere ricevere lettere a noi che siamo lontano e pe’ i quali la vita di costì ha una distanza di secoli. Qui si fa la guerra sul serio. [...] c’è gran sole e molto sereno finché i cannoni sparano tanto che le nuvole si adunano e piovono giù. Poi torna un cielo stellato e indifferente. E come qui è gioia vedere il cielo, ho scelto a ponente una costellazione che non so come si chiami ma che si fa vedere ogni sera. Ho finito col volerla bene come tutte le cose nelle su mentovate condizioni. La costellazione è fatta così: [...] Ci ho grande amicizia. Ma non è tempo di fare astronomia filosofica. Perché poi meritano attenzione tante cose: […] Qualcuno non invidiabile nemico è sepolto così leggermente dalla terra e dalla calce che ci s’indovina lo scheletro. Sorgono dalle zolle certi scarponi ferrati in cima a certi stecchi che erano gambe e che ora sono miserevolmente scarnite. In una trincea dietro noi c’era dei tiratori austriaci ancora in ginocchio col fucile tra le feritoie, fulminati, immobili, ancora avendo nella morte un non so che di terribilmente torvo».

 

Sensazioni e immagini che troveranno posto nel romanzo quando, nella notte che precede la prima battaglia, Luca Fabio e Attilio Bandi si confessano sogni, paure e speranze; si dividono, in segno di amicizia, la costellazione di Orione. Ben presto l’amicizia con Attilio Bandi, figlio di un generale fiorentino, fa capire a Luca Fabio le somiglianze tra la «gente della terra di pipe» e quella della «terra ballerina». I soldati al fronte, conoscendosi, «si accorgevano che l’Italia era fatta a un modo, che i paesi si somigliavano tutti, gli uomini stessi, gli stessi piaceri, gli stessi dolori». Al fronte, Attilio Bandi commenta: «Ci sono ancora dei vecchi piemontesi che s’immaginano l’Italia meridionale com’era nel milleottocentosessanta, coi briganti e tutto. E invece sono buona gente, sono intelligenti, e sono puliti. Anche puliti. Lo si vede in guerra come sono puliti. Per orinare e per non mostrarsi, affrontano le fucilate». Alvaro, muovendosi sempre in una cornice nazionale e unitaria, mostra come sia facile decostruire i pregiudizi antimeridionali in un incontro vero e profondo con l’altro. La sua guerra, come scrive Vincenzo Paladino, si potrebbe qualificare come guerra di popoli poveri e guerra proletaria. Luca Fabio, che ha radici contadine, rivela capacità di resistere al dolore e a ogni evenienza, ha l’abitudine alla rassegnazione diversamente dal suo amico Attilio Bandi, che scoprirà, alla vigilia del battesimo del fuoco, la fragilità della sua formazione ed educazione gentilizia e borghese. Molti autori, tra cui Geno Pampaloni, hanno segnalato la polarità, nelle opere di Alvaro, tra mondo della tradizione e mondo moderno, tra l’uomo del Sud, figlio di una civiltà che scompare, e l’uomo che si avventura nell’inebriante crocevia d’Europa, nel tentativo di comprendere il senso di quell’ambivalenza. 

 

In Vent’anni questa opposizione è colta in un diverso modo di vivere il rapporto con la tradizione e la modernità. La differenza è tra chi viene dalla terra e dalla città, tra chi conosce la lotta quotidiana per la sopravvivenza e chi, vivendo tra sovrastrutture e pregiudizi costruiti nel tempo, ha smarrito il senso di questo legame. «La guerra è un mestiere d’uomini che non si sono dimenticati la terra», dove si trovano «meglio coloro che sono abituati a vivere a contatto con la natura e con la fatica umana più dura».

In molte poesie grigioverdi Alvaro mostra di restare ancorato a quel mondo di beni essenziali, naturali, sacri che anche al fronte gli assicura un senso di presenza e di convinzione. Si veda, ad esempio, A un compagno, in cui ritornano parole e metafore – casa, padre, madre, festa, mangiare, acqua, letizia, morte, memoria, vita – ricorrenti nell’Alvaro che resta legato al «mondo sommerso» pure nel suo abitare e camminare nel mondo aperto.

Tutti i soldati si sentono lontani dal mondo e avvertono l’indifferenza di quanti non possono capire cosa significhi cercare di sopravvivere al fronte. Una lunga lettera, scritta qualche giorno prima di essere ferito, alla fine di ottobre del 1915, è uno sfogo intimo in cui Alvaro mette in fila ricordi, impressioni, delusioni: «Se voi sapeste in Italia che cosa è il Carso non sareste così stupidamente leggeri nel giudicarci. Dunque noi siamo a più di trenta chilometri dal vecchio confine. Trincee sull’altopiano. L’altopiano. Sassoso, scoglioso, pieno di valli, di reticolati. Noi siamo gente miracolosa, mi-ra-co-lo-sa. Attaccare il nemico, metterlo in fuga, tra un fuoco d’inferno, tra traditori, contro gas, contro Dio, quasi, l’opera da diavoli. Contro i fucili nulla vale, né sacchi, né muro, nulla. Qui davanti a me ci è una linea di nemici a terra. Son diventati del colore delle statue di cartapesta che fabbricano a Bari per le Chiese: giallorosa lucidi con i pochi capelli biondicci calanti dalla nuca, con il corpo miserabile divenuto quasi di pietra, col cranio dove c’è un buco rossiccio, con le mani aggrappate alla terra. Qui nelle trincee stesse molti muri sono piantati sui cadaveri nemici che sembrano schiacciati da una rabbia tremenda. I nostri morti sono seppelliti tutti con le croci cristiane dove c’è il nome, un monumento di proiettili di artiglieria con iscrizioni come queste: “Per la grande Italia” “sul campo dell’onore”, “Pace a lui”. Ma il piano avanti è seminato di scarpe, abiti, ossa». 

 

In una lettera del 29 ottobre 1915 all’amico Giuseppe Foderaro, un Alvaro ironico, quasi sarcastico, rivela la sua tenacia nel portare avanti i progetti letterari, quasi con la certezza che sarebbe sopravvissuto alla guerra (gli stessi positivi presentimenti ha anche Luca Fabio). Sono aspri i giudizi e severi sui giornalisti, su alcuni letterati, soprattutto futuristi, che detesta fin dal periodo catanzarese. «Motto: C’è poco a dir l’esercito va piano e, ahimè, l’Italia ha troppo sangue sparso. Ma venite, toccatelo con mano […] I giornalisti – peste – conoscono il fronte da trenta chilometri di distanza. Io finora non ne ho veduto uno: ma ciò non toglie che dicano molto al pubblico che si contenta. [...] Io continuo a lavorare come fossi in casa mia. Scrivo. […] Ci scrive il Papini, i futuristi (più francesemente decadenti), Soffici e altri tra i vecchi come la non mai sarda abbastanza Deledda e via dicendo finché non te ne pentirai (Moretti, Gozzano, ecc.). Antologia, ecco. Mi stamperà tra poco anche “Noi e il Mondo”, se vivrò e se questi assalti quotidiani mi risparmieranno».

 

Corrado Alvaro ferito, 11 novembre 1915.


A novembre Alvaro, ferito nella zona di San Michele del Carso, è costretto ad abbandonare il fronte e a un lungo periodo di degenza. In un biglietto del 13 novembre 1915 scrive a Ottavia Puccini: «Sono ferito, non gravemente, ad ambo le braccia e come vede mi servo della cortesia di un collega per notificarglielo. Mi trovo all’ospedale della Croce Rossa H 42 a S. Giorgio di Nogaro, ma spero presto di poter venire in un ospedale territoriale di codesta Città. Affettuosamente». La convalescenza lo porta in diversi luoghi da cui, pur in condizioni malferme, continua a mantenere rapporti di corrispondenza. Su un foglietto dalla grafia incerta indirizzato ad Ottavia leggiamo: «autografo scritto con la bocca non potendo usare le mani. Corrado Alvaro, Ferrara 23-XI-1915». La risposta, in data 27 novembre 1915: «Il suo autografo mi ha talmente commossa, che non ho la forza di dirle nulla. Bacio le sue mani, le sue bende con la gratitudine più profonda e cara».

 

Autografo scritto con la bocca, 23 novembre 1915.


Lo stato d’animo e i pensieri di Alvaro affiorano in alcune lettere inviate da Livorno agli amici del liceo. Il 21 giugno scrive a Domenico Lico: «Caro Micuccio, non mi sono dimenticato né di te né dei miei migliori amici: sto traversando un grigio periodo come tu puoi immaginare possa essere negli spedali dove si è lontani dalla vita attiva e dove non c’è da fare che raccomandarti che ti mandino fuori. […] Sai che io non ho voluto prendere la licenza dopo Catanzaro e che sono da poco entrato a far parte del Resto del Carlino, e faccio di tutto. Critico d’arte, corrispondente a te. Per ora non lavoro tanto lì perché non si può noi Ufficiali. Ma quando verrà la pace, se vivrò, sarò al mio posto a Bologna».

In ospedale, tra una operazione chirurgica e l’altra, mette mano a Un Paese (1916). Tentativo di Romanzo, qualificato in una lettera a Lico come il primo tentativo di Gente in Aspromonte. Nel settembre del 1916 Alvaro è a Roma. Comincia a collaborare con «Il Resto del Carlino», diretto da Mario Missiroli, pubblicando i primi racconti. Si trasferisce a Bologna quando ne diventa redattore. Si occupa della pubblicazione delle Poesie grigioverdi. Su carta intestata del giornale, Bologna 9 gennaio 1917, Alvaro scrive ad Ottavia Puccini: «Amica carissima, mi dispiace che sia così sola e tanto più triste di prima. La ringrazio delle buone parole che ha per me e le mando un’altra novella. Sono qui redattore e lavoro se non con la gioia degli anni passati, almeno con accanimento. Lo sa? Le Grigioverdi le aspetto in libro da un giorno all’altro. Gliele manderò. Io qui vado a lavorare alle 9 ed esco alle 2 di mattina e son contento perché sono già a un giornale dove non speravo di entrare se non in età tarda. La giornata la passo a lavorare per me. Conosco poco Bologna e son diventato egoista». Tra marzo e ottobre del 1917 Alvaro dà gli esami di licenza al Liceo Galvani di Bologna. Ripresosi dalle ferite, nel febbraio 1918 è destinato all’Ufficio censura di Chieti. Qui «inganno l’attesa lavorando – scrive alla Puccini – e dopo molte crudeltà ho messo insieme delle novelle che stamperò». Da Chieti viene distaccato a Francavilla al mare, dove conduce una vita da «esiliato come al fronte» e lo raggiunge la notizia del ferimento del fratello Beniamino, sottotenente nel 5° Alpini.

 

Lettera a Ottavia Puccini, 19 febbraio 1917.

 

L’8 aprile del 1918 Alvaro sposa la bolognese Laura Babini, conosciuta durante la guerra. L’ultima lettera a Ottavia Puccini da Chieti, 7 luglio 1918, suona come un addio: «Cara amica, Spero che a quest’ora si trovi già all’Impruneta dove le porto i miei saluti e i miei augurii. Credo che sia difficile una mia visita costì, per quanto cercherò di fare una capatina nei bei luoghi che mi ricordano il 1915. Io lavoro, specialmente ora che è estate, e cercherò di mandarLe qualcosa. Le riscriverò. Le terrò compagnia. Per ora tanti saluti Alvaro». Un anno e mezzo dopo il matrimonio Alvaro si trasferisce a Milano con la moglie e il figlio Massimo, nato nel frattempo. La guerra è finita, così come l’infanzia e la gioventù. A Corrado Alvaro resta la missione di trasformarle in poesia e in letteratura. Nel 1930 pubblicherà sia Gente in Aspromonte, in cui comincia a narrare l’universo di origine da cui non si è mai allontanato, che Vent’anni, libro autobiografico dai forti toni antimilitaristi, già maturati nell’immediatezza della guerra, come ci mostrano le sue lettere.

Letteratura e vita, memoria e racconto, per Alvaro, sono davvero inseparabili; intrinsecamente connessi. «Camminavo solo, avanti, per Polsi…»: è l’incipit del primo libretto a stampa (1912) pubblicato quando è ancora studente liceale. Cammino, viaggio, fuga, pellegrinaggio: sono parole e motivi che ricorreranno in tutta la sua opera. La storia narrata in Vent’anni si conclude, dopo una cruenta battaglia, in cui Luca Fabio si accorge di essere sopravvissuto assieme ai suoi compagni: «Si misero in cammino. Camminare voleva dire essere vivi». Camminare, lavorare, fare strada è la missione che l’uomo e lo scrittore Alvaro si assegna ed è una consegna che gli arriva dal padre, dal suo mondo di origine, dai pellegrini che andavano Polsi, dalle donne che camminavano con l’orcio sulla testa, dall’antropologia di una terra in fuga, che conosceva la fatica, la bellezza, la sacralità del cammino, della vita.

 

Nota Bibliografica

In questo scritto si fa riferimento in maniera particolare a: C. Alvaro, Vent’anni, Treves, Milano 1930; nuova ed. rivista Bompiani, Milano 1953; con una prefazione di A.M. Morace, ivi, 2016 (collana “I grandi Tascabili”); Id., Poesie grigioverdi, Lux, Roma 1917. Per ulteriori notizie su argomenti qui trattati si rinvia alle Opere di Corrado Alvaro, pubblicate in due volumi presso l’editore Bompiani, a cura di Geno Pampaloni. 

Le lettere dal fronte a Ottavia Puccini, agli amici di Liceo Giuseppe Foderaro e Domenico Lico, al fratello Beniamino sono custodite (assieme a poesie e racconti giovanili, manoscritti o dattiloscritti, di Alvaro liceale, alla Biografia su Alvaro di Lico, alla corrispondenza tra Lico e la Puccini, a manifesti e alle fotografie qui pubblicate) nel Fondo Lico presso Sistema Bibliotecario Vibonese - Dipartimento Studi Umanistici dell’Università della Calabria. 

Si rinvia inoltre a: C. Alvaro, Un paese e altri scritti giovanili (1911-1916), introduzione e cura di V. Teti, con un saggio di P. Tuscano, Donzelli, Roma 2014; V. Teti, “Il sottufficiale Corrado Alvaro da San Luca. Lettere dal fronte”, in O. Greco, K. Massara, V. Teti, La Guerra La Calabria e i Calabresi, I quaderni di “Rogerius” 2, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2016, pp. 9-76 .

 

Gli altri interventi pubblicati:

Claudio Piersanti, Aforismi per una sceneggiatura di guerra

Enrico Manera, Memoria dalla Grande guerra

Massimo Marino, La Grande guerra cantata

Carlo Greppi, La Grande Guerra e i suoi detriti

Stefano Valenti, La guerra degli scemi

Daniela Brogi, Alberi e prati della Grande Guerra

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