Vita, opere e incontri / Flannery O’Connor, profeti falliti e padreterni di cartapesta

3 Aprile 2021

Stando a quanto la stessa Flannery O’Connor ha affermato, l’episodio più memorabile della sua vita viene fatto risalire a quando, da bambina, all’età di cinque anni, aveva addestrato un pollo a camminare all’indietro, e un inviato del cinegiornale “Pathè News” di New York era sceso fino a Savannah, in Georgia, dove la piccola Mary Flannery viveva, per filmarlo. Proprio quel giorno però il curioso pennuto non aveva dato prova della sua abilità e l’inviato si era visto costretto, dopo averlo comunque ripreso mentre zampettava in avanti, a montare il filmato al contrario per non sprecare un viaggio che altrimenti rischiava di essere stato fatto a vuoto. Con l’autoironia che le era tipica, la O’Connor avrebbe poi commentato il fatto sostenendo che quello era stato il punto culminante della sua vita e ciò che sarebbe successo in seguito era da considerarsi alla stregua di un anticlimax; come a dire che oltre a quell’episodio c’era ben poco altro da raccontare e niente di ciò che era successo in seguito era stato vissuto con la medesima partecipazione emotiva.

 

Motivo per riparlare proprio della sua vita e della sua narrativa è il bellissimo volume dal titolo Flannery O’Connor. Vita, opere e incontri, che la ricercatrice italiana Fernanda Rossini ha da poco pubblicato per le Edizioni Ares, completando in tal modo un quadro di contributi critici che negli ultimi due decenni hanno letteralmente rivoltato la considerazione in cui era tenuta in Italia questa grande scrittrice. Dopo un primo momento in cui gli americanisti italiani sembravano infatti averla ingiustamente snobbata o sottovalutata forse perché ritenuta un po’ troppo cattolica, come rileva Luca Doninelli nella sua postfazione a La saggezza nel sangue (Garzanti 2002, p. 201), nel corso del tempo si è andato via via sviluppando un sempre maggiore interesse nei suoi confronti, alimentato dall’ottimo lavoro di traduttori, scrittori, saggisti, poeti e critici come Ottavio Fatica, Marco Missiroli, Christian Raimo, Davide Rondoni, Marisa Caramella, Antonio Spadaro e altri che citerò in seguito. Questi autori infatti hanno il merito di aver saputo innanzitutto valorizzare e mettere nella giusta evidenza le ragioni più intime che stanno alla base dell’opera della O’Connor e che per sua ammissione s’incentrano nel mistero cristiano per eccellenza, ossia quello dell’Incarnazione; poi di aver mostrato come questo mistero e questa credenza informassero la sua arte grazie a una sofisticatissima tecnica narrativa; e infine di aver presentato e dato il giusto risalto ai vari apporti teorici che lei stessa aveva elaborato in prose d’occasione raccolte in seguito da Sally e Robert Fitzgerald nel volume intitolato Mystery and Manners.

 

“Tutto oro”, aveva scritto Ottavio Fatica nell’introdurre la versione italiana di questa stessa raccolta, pubblicata da Theoria nel 1993 col titolo Nel territorio del diavolo, e ripresa da minimum fax nel 2010. E in effetti di puro oro si tratta. In un’epoca come questa, dove soprattutto in Italia abbondano ovunque i corsi di scrittura creativa e le pubblicazioni di manuali adatti all’uopo, gli insegnamenti e le riflessioni che la O’Connor sviluppa in questi testi basterebbero, se ben utilizzati e seguiti alla lettera, a creare intere schiere di autori. 

Con la biografia pubblicata da Fernanda Rossini, ora, è possibile collocare in una visuale più ampia e articolata l’evoluzione creativa della scrittrice, penetrare a fondo nel suo carattere, non sempre facile e accomodante sebbene l’osservanza dei precetti cattolici e un’attenta lettura di Dante la inducessero il più delle volte a non peccare d’orgoglio e di superbia, e di seguirla nella quotidianità della sua convivenza con la madre nella fattoria ereditata a poche miglia dalla cittadina di Milledgeville (la stessa in cui era cresciuto il grande Oliver Hardy), e di assistere anche al calvario cui aveva dovuto sottoporsi per causa di una malattia tremenda e allora implacabile come il lupus eritematoso, che le avrebbe corroso pian piano le ossa del bacino, costringendola all’uso delle stampelle e che, con la complicazione ulteriore di un tumore, l’avrebbe condotta prematuramente alla morte a soli trentanove anni, nel 1964. Ma anche in quel caso, fino a poco prima che le cose volgessero al peggio, anziché autocommiserarsi, era riuscita a scorgere i lati comici nella situazione, come quando un gruppo di suore l’avevano invitata a tenere una serie di conferenze in Minnesota e le avevano chiesto se per l’alloggio poteva andarle bene essere ospitata nella loro infermeria.

 

Una vita scarna di avvenimenti, dunque, scandita dalla necessità di assistere ogni mattina alla Santa Messa e dalla cura quotidiana del proprio allevamento di pavoni e polli, ai quali ultimi era solita far indossare pantaloncini e camicie bianche da lei stessa confezionati, e dare curiosi nomi come Mussolini, Winston e Adolf Hitler. Dotata di una ironia pungente ma incapace di stringere amicizie, da ragazzina era stata piuttosto introversa, forse perché condizionata dalle calzature ortopediche che era costretta a indossare o più facilmente perché a dodici anni, sentendosi già allora molto vecchia (Pinocchio era per lei il peggior libro che avesse mai letto) aveva deciso che non sarebbe cresciuta più, proprio come il protagonista Oskar Matzerath del famoso romanzo di Günter Grass, Il tamburo di latta. Per una strana coincidenza del destino, sarebbe stato proprio questo il romanzo che Flannery avrebbe portato con sé in quello che purtroppo sarebbe stato il suo ultimo ricovero in ospedale, prima di morire.

 

Una vita, la sua, ancora, contrassegnata dalla quasi totale assenza di coinvolgimenti di tipo sentimentale o amoroso, se non quello illusorio la cui realizzazione le era parso di poter intravvedere con un agente di vendita della casa editrice Harcourt, Brace & Co. presso la quale Flannery aveva pubblicato il suo primo romanzo, Wise Blood (La saggezza del sangue). Ma per il resto solo amicizie contratte lontano da casa, nei periodi trascorsi alla Università dell’Iowa, dove aveva conosciuto il poeta Paul Engle, diventato poi suo mentore, o nella comunità per artisti di Yaddo, a Saratoga Springs, dove aveva catturato l’attenzione e la stima del poeta Robert Lowell prima che questi cominciasse a dar di matto, e dei coniugi Fitzgerald, Sally e Robert, che l’avrebbero ospitata più volte anche per lunghi periodi nella loro casa in Connecticut. Grazie a Lowell, poi, in un periodo successivo da lei trascorso presso la Columbia University di New York, sarebbe entrata in contatto con il famoso editor Robert Giroux, della casa editrice Harcourt, Brace & Co., e con Katherine Carver che avrebbe sostituito proprio Giroux quando questi sarebbe passato alla Farrar Straus e che sarebbe stata fonte di preziosi suggerimenti per Flannery fino a che quest’ultima non avrebbe avuto la possibilità di passare pure lei alla Farrar per lavorare di nuovo assieme a Giroux. 

 

Altri rapporti duraturi di amicizia e collaborazione sarebbero stati quelli con Caroline Gordon, scrittrice, che assieme al marito Allen Tate, poeta e critico letterario, aveva fondato una casa per scrittori in Tennessee e sarebbe stata di costante aiuto per Flannery soprattutto durante il processo di revisione degli scritti di quest’ultima, indicandole i possibili difetti formali e stilistici da emendare; poi con la drammaturga e regista teatrale Maryat Lee, con la quale avrebbe avuto più volte bisticci scherzosi riguardo alla questione razziale, e infine con la scrittrice Katherine Ann Porter e con la fantomatica “A”, che Flannery non avrebbe mai conosciuto di persona ma con la quale avrebbe intrattenuto una fitta corrispondenza nell’ultimo periodo della sua vita.

Quanto ai suoi gusti letterari e al rapporto con gli autori americani a lei contemporanei, con particolare riferimento a quelli del Sud, Flannery riteneva di non avere nulla in comune con Carson McCullers, che del resto non apprezzava minimamente, e men che meno con Truman Capote o Tenneesse Williams, che considerava alla stregua di due degenerati. Era stata avvicinata da John Hawkes, col quale avrebbe a lungo dialogato per lettera, e si era incrociata con l’altro grande scrittore cattolico, Walker Percy, ma si era trattato di un incontro che non aveva dato alcun frutto. Qualche lieve simpatia Flannery l’aveva mostrata per gli scrittori beat, soprattutto per quella ricerca di spiritualità presente nei loro testi e che veniva esibita in contrapposizione ai valori materiali di cui si nutriva la società dell’epoca, ma si era ben presto ricreduta vedendo come questo loro atteggiamento non comportasse nessun sacrificio: “La santità costa cara – avrebbe scritto – e a me sembra di capire che loro non sborsano niente” (Rossini, p. 222).

Per quanto riguarda invece la sua maturazione artistica, lo snodo principale, fondamentale, era avvenuto con la decisione che Flannery aveva preso di seguire il corso di scrittura creativa, e non giornalistica, come in un primo momento aveva pensato, all’Università dell’Iowa, a Iowa City, dove avrebbe trascorso due anni.

 

 

Questo corso sarebbe poi diventato celebre in tutta America e parecchi dei più grandi scrittori americani degli ultimi decenni, o lo avevano frequentato da studenti o vi avevano partecipato in veste di insegnanti. Lo stesso manuale di base, il famoso Understanding Fiction (1943), realizzato da Cleanth Brooks e Robert Penn Warren, nelle sue riedizioni successive avrebbe inglobato fra i testi che lo componevano via via racconti di scrittori e scrittrici che sulla prima edizione di quel manuale si erano formati. Proprio come sarebbe successo alla O’Connor. Si può dire anzi che i suoi racconti rappresentano in un certo senso l’esecuzione più perfetta dei criteri con cui Brooks e Warren e altri autori appartenenti alla corrente del New Criticism, che avevano dettato legge fra gli anni Trenta e Quaranta, sostenevano andasse costruito un testo letterario. Questi criteri, che per noi oggi rappresentano una consuetudine e hanno perso quel senso di novità da cui erano caratterizzati all’epoca, erano stati adottati come norme di lettura e quindi trasformati in utili strumenti per l’insegnamento della letteratura. Il manuale stesso ideato da Brooks e Warren doveva inizialmente servire alla comprensione della narrativa più che da prontuario per corsi di scrittura creativa, ed era concepito in modo tale da opporsi alla pratica critica di utilizzare dati storici o biografici per l’interpretazione delle opere, e si focalizzava innanzitutto sugli elementi costitutivi di un testo, da cui poi giungere alla comprensione del suo significato e degli intenti ad esso sottesi. In tal modo veniva da acquisire particolare risalto lo studio della trama, del personaggio, del tema e di come questi fattori contribuissero al funzionamento della storia narrata e alla estrinsecazione del suo significato, assieme ad altri elementi, come il possibile uso di forme simboliche, ambiguità semantiche e aspetti ironici o drammatici che il testo poteva possedere.

 

Fin dai primi racconti la O’Connor aveva mostrato di sapere impiegare nel migliore dei modi queste risorse teoriche che le venivano fornite e che lei in seguito avrebbe rielaborato e integrato con riflessioni sue proprie o mediate dagli autori che apprezzava maggiormente, come Conrad o Joyce. In primo luogo, fra queste, la tendenza a estromettere dal testo qualunque tipo di spiegazione. Secondariamente, e di conseguenza, nel propendere in maniera netta e decisa per un tipo di scrittura incentrato più sulla capacità di mostrare che su quella di dire, tecnica in cui era stato Hemingway il primo a eccellere. Questo aveva dato alla sua scrittura, fin dal primo racconto con cui la O’Connor avrebbe catturato l’attenzione degli addetti ai lavori e suscitato una forte impressione nei lettori, ossia A Good Man Is Hard to Find (Un brav’uomo è difficile da trovare), una speciale concretezza grazie alla quale ciò che viene narrato acquisisce una particolare qualità visiva senza scadere mai nell’introspezione o nell’approfondimento psicologico. Anzi, questo elemento di concretezza coincide con la sostanza stessa della idea di narrativa che lei intendeva praticare, la quale trovava fondamento nella convinzione che compito dello scrittore fosse quello di rafforzare il senso del soprannaturale e del mistero che è insito nelle cose del mondo, e di mantenersi a stretto contatto con la materia di cui è fatta la realtà in modo da poterla rappresentare tramite ciò che si può vedere, sentire, odorare, gustare e toccare, rifuggendo da qualunque tipo di astrazione o di elaborazione concettuale. E questo compito non poteva che essere un’emanazione della fede religiosa, dato che per lei “non credere a niente equivaleva a non vedere niente”, e ciò sarebbe risultato contrario all’essenza stessa del lavoro dello scrittore di narrativa il quale per l’appunto “non afferma, ma mostra, raffigura” (Flannery O’Connor, Sola a presidiare la fortezza, Einaudi Stile Libero 2001, pp. 60 e 56). Ed è proprio a tale scopo che uno degli stilemi da lei maggiormente usati è quello rappresentato dal costrutto comparativo “come se”, tipico di un narratore che tende a rendere visivamente le modalità esplicative che si accompagnano in genere alle battute di un dialogo o alla descrizione di un fatto. Alessandro Clericuzio, nel suo Grottesco americano. I racconti di Flannery O’Connor  (Diabasis, 2003, p. 69) conta qualcosa come 687 occorrenze di questa forma di similitudine nell’intera opera della O’Connor, ma ciò non dovrebbe stupire, dato che questa forma ha la stessa forza e la stessa pregnanza comunicativa di una metafora e come la metafora tende ad aumentare l’intensità espressiva di un’immagine.

 

Generalmente si è soliti considerare Flannery O’Connor una diretta discendente di Faulkner (anche se lei in realtà si sentiva più legata a Hawthorne) e associarla, in quanto scrittrice del Sud, alla corrente gothic, o grottesca, della letteratura americana, e questo in buona parte è vero, considerata anche la sua passione giovanile per i racconti di Poe e l’uso che fa come scrittrice di certe particolarità tipiche della narrativa meridionale, come l’ambientazione rurale, la creazione di personaggi tipicamente locali, il ricorso alle maniere tradizionali. Ma nelle sue mani, il grottesco, l’orrore, il terrore e il mistero, che sono elementi tipici del romanzo gotico originale, trascendono la dimensione letteraria per trasformarsi in simboli di una condizione esistenziale tarata, ossia quella, come suggerisce Elena Buia Rutt, “di una umanità marchiata nel corpo e nello spirito dal peccato originale, rappresentato, in una narrativa della concretezza, da una deformazione fisica o psichica” (Flannery O’Connor, il mistero e la scrittura, Ancora Editrice 2010, p. 28). L’oggettivazione di questa deformazione viene utilizzata per giungere a una rappresentazione non più grottesca ma realistica della realtà, che la O’Connor ottiene ribaltando a proprio vantaggio il cliché collegato alla letteratura meridionale, secondo cui tutto ciò che proveniva dal Sud sarebbe stato chiamato grottesco dal lettore del Nord, tranne il caso in cui fosse stato davvero grottesco, che allora sarebbe stato chiamato realistico (Nel territorio del diavolo, p. 137).

 

Il ricorso frequente a episodi di violenza e alla descrizione di comportamenti brutali nella sua narrativa, oltre a simulare una sinistra e misteriosa azione della volontà divina e a suggerire la costante presenza della morte, che lei, da scrittrice cattolica, considerava “sorella della sua immaginazione”, ha anche come scopo quello di scuotere il lettore, di scioccarlo, o di prenderlo a sberle, com’è stato detto, e soprattutto di riuscire a farlo senza mai indulgere “in conati introspettivi tipici di tanto narcisismo letterario” (Buia Rutt, p. 38). Come la stessa O’Connor aveva specificato, “il romanziere cristiano troverà nella vita moderna storture che lo disgustano e il suo problema sarà di farle apparire come storture a un pubblico abituato a considerarle naturali, e potrebbe vedersi anche costretto ad adottare mezzi sempre più violenti per far pervenire la sua visione a questo pubblico ostile. Supponendo che il tuo pubblico abbia le tue stesse convinzioni, puoi rilassarti un po’ e usare mezzi più normali per parlargli; costretto a supporre il contrario, devi sbalordirlo per rendere manifesta questa visione: gridare ai duri d’orecchio e tracciare immagini grandi e strabilianti per gli orbi” (Nel territorio, p. 157). E questa ai suoi occhi era ben lungi dal poter essere considerata una forma grottesca di rappresentazione, in quanto al contrario la si poteva definire in un solo modo, cioè letterale. Letterale come il disegno di un bambino. “Quando un bambino disegna – scrive infatti la O’Connor – non intende distorcere ma mettere sulla carta esattamente ciò che vede e poiché il suo sguardo è diretto vede le linee che creano un movimento. Ora, le linee che interessano lo scrittore sono di solito invisibili. Sono le linee del movimento spirituale” (Ivi, p. 84).

 

 

E se è appunto il difetto fisico a oggettivare la presenza di una magagna morale o spirituale, allora si spiega il motivo per cui nella sua opera sia pressoché costante l’uso di personaggi segnati di una distorsione fisica o mentale: una ragazza con una gamba artificiale, un giovane con un piede deforme, un maestro sordo, un predicatore itinerante pazzo, una vecchietta petulante e antipatica, un vagabondo con un braccio monco, una ragazza ritardata, solo per citare alcuni esempi. Lontanissima dal proporre un tipo di letteratura amena, rassicurante o consolatoria, la O’Connor era stata per questo attaccata dopo la pubblicazione della sua prima raccolta A Good Man Is Hard to Find (1955) in due recensioni piuttosto ingiuste e malevole, apparse la prima sulla rivista “Time”, intitolata Bifolchi intossicati da Dio, nella quale la scrittrice veniva definita una “pedante zitella che vive ritirata fra i suoi libri e che si diletta sulle variazioni del peccato e della salvezza da isolata teologa autodidatta” (Rossini, p. 251), e la seconda, sul “New Yorker” che liquidava il volume con sufficienza descrivendolo come “una serie di racconti di creature che si scontrano e annegano o sopravvivono per galleggiare passivamente nel mare isolato della compassione dell’autrice, che li accetta senza riflettere nulla” (Rossini, p. 161). Quanto fossero sballate queste critiche, quanto fosse stata fraintesa la sua sensibilità e quanto superficiale fosse stata la lettura dei suoi testi è perfin superfluo farlo notare, ma è interessante che nella seconda si faccia riferimento proprio a uno dei racconti più belli e commoventi della O’Connor (anche se questo lo si potrebbe dire di ognuno degli altri), ossia Il fiume.

 

In questo racconto un bambino di quattro o cinque anni, di nome Harry, viene portato fuori città dalla sua sitter, la signora, Connin, una fondamentalista cristiana, per partecipare a un incontro di Guarigione che si svolgerà sulle rive di un fiume. A tenere questo incontro è un predicatore evangelista di nome Bevel Sommers, che gode della devozione di tutti i partecipanti, ad eccezione di quella di un vecchio, il signor Paradise, malato di cancro, che partecipa agli incontri solo per far vedere che non è mai guarito, e se ne sta seduto sul paraurti di una macchina a osservare la scena con disprezzo, sicuro che il predicatore non è altro che un impostore capace solo di spillare denaro alla gente. Il predicatore poi, dopo essersi intrattenuto con gli intervenuti, battezza il bambino, Harry, nell’acqua del fiume, dicendogli che ora è entrato a far parte del Regno di Cristo e che per questo egli ora “conta”:  ha un padre in cielo che lo ama e appartiene alla schiera di coloro che verranno salvati. Dopodiché il bambino viene riportato a casa dalla signora Connin, ma il giorno dopo tornerà di nuovo al fiume da solo e, nel tentativo di entrare nel Regno di Cristo, di cui ora fa parte, morirà annegato, e a nulla sarà valso il tentativo del vecchio Paradise di salvarlo.

 

E questa, in sintesi, è la sequenza dei fatti. Ma il problema con i racconti della O’Connor è che il vero contenuto, le vere informazioni non passano mai attraverso le parole, ma sono il frutto di un’allusione prodotta da una sapiente organizzazione del materiale descrittivo. Questo infatti viene suddiviso in tantissimi piccoli dettagli che partecipano attivamente alla narrazione, integrandola con un sottotesto altrettanto significativo. In Il Fiume, ad esempio, il sottotesto ha a che fare con la situazione famigliare del bambino, di cui nulla ci vien detto all’inizio, tranne che la madre non sta bene. Proprio per questo, al momento opportuno, il bambino chiederà al predicatore di intervenire in favore di lei, e quando il predicatore gli chiederà di quale malattia soffra, il bambino, ingenuamente, risponde che soffre di un hangover, cioè dei postumi di una sbornia. Nel racconto questo punto è cruciale, sia perché è sorprendente e inatteso, sia perché è costituito da una parola che da sola basta a darci un quadro della famiglia in cui vive il bambino suggerendo che egli sia – come di fatto è – trascurato dai genitori e abbandonato a sé, e rendendo in tal modo credibile l’epilogo della storia. A prescindere dal significato profondo del testo, che come in altri racconti della O’Connor ha a che fare con la grazia e con il suo modo misterioso di operare, per cui il bambino si salverà trovando la morte nel fiume ed entrando effettivamente nel Regno di Cristo, è proprio il dettaglio relativo alla ragione del malessere della madre a costituire il tessuto emotivo su cui si regge l’intera vicenda.

 

Di figure simili al predicatore Bevel Sommers che compare in questo racconto, o di profeti itineranti che parlano in nome di Dio battendo le strade della cosiddetta fascia biblica del Profondo Sud, in parte fanatici esaltati e in parte loschi individui e scaltri abbindolatori di folle, ognuno con una propria versione di Gesù da predicare, è piena l’opera della O’Connor, al punto che essi costituiscono una categoria complementare a quella dei personaggi segnati da deformazioni fisiche. Anzi, di questi a volte non sono che una riproposizione modificata solo dal fatto che la menomazione corporale si è trasformata in una distorsione mentale, costituita nella maggior parte dei casi da una fissazione o da una forma di fanatismo religioso. Appartengono a questa categoria il falso profeta o predicatore di strada, finto cieco, Asa Hawks, che compare in La saggezza nel sangue, e il profeta mancato, protagonista dello stesso romanzo, Hazel Motes, che dopo aver girovagato per la città di Taulkinham in preda a un invasamento anticristiano e con l’intento di fondare quella che egli chiama la Chiesa della Verità senza Cristo, predicando sul cofano della sua vecchia auto, alla fine, suo malgrado, si redime da sé accecandosi con la calce viva e attorcigliandosi del filo spinato intorno al torace. A questi poi se ne aggiunge un terzo che viene creato su due piedi da una specie di impresario per profeti per fare concorrenza a Hazel, ma finisce male perché dopo aver predicato la parola di Dio promettendo la salvezza al prezzo stracciato di un dollaro, viene ucciso proprio da Hazel che lo investe con l’auto, infuriato per aver visto in lui una parodia di se stesso.

 

Della stessa tipologia sono anche i protagonisti di Il cielo è dei violenti (Einaudi, 1960), il secondo romanzo della O’Connor. Qui il vecchio Mason Tarwater, un contrabbandiere che vive in una baracca in mezzo ai boschi convinto di essere un profeta e che già in precedenza ha rapito suo nipote Rayber per battezzarlo e fare anche di lui un profeta, tiene con sé il nipote di quest’ultimo, Francis Tarwater, cioè suo pronipote, per allevarlo e trasformare pure lui in profeta. Prima di morire si assicura che Francis gli dia una sepoltura cristiana per essere pronto a risorgere il Giorno del Giudizio, e soprattutto che questi battezzi il figlio ritardato di suo nipote Rayber. Il ragazzo, Francis, è dibattuto, anziché sentire la chiamata divina, sente una voce amica che in realtà è quella del diavolo che gli suggerisce di lasciare a metà lo scavo della fossa e di dar fuoco alla baracca in cui ha sempre vissuto assieme al vecchio e di andarsene. Cosa che lui fa, cercando poi riparo presso lo zio Rayber, il quale è ben felice di accoglierlo e di aiutarlo a intraprendere una vita normale, priva delle superstizioni religiose con cui è cresciuto e soprattutto libera delle storture dell’educazione che gli è stata impartita dal fanatico prozio Mason. Per spingerlo poi a chiudere i conti una volta per tutte col passato e prendendo con sé anche il suo figlioletto ritardato Bishop, riporta il ragazzo, Francis, alla baracca in mezzo ai boschi, ma durante una sosta lungo il tragitto, Francis, memore delle raccomandazioni del prozio, battezza il piccolo Bishop nelle acque di un lago e, nel farlo, lo annega.

 

Questa continua insistenza della O’Connor su temi di fervore religioso un po’ folle e maniacale, o di invasamento spirituale senza costrutto, che a tutta prima potrebbero sembrare inadatti per i libri di una scrittrice cattolica dai quali ci si sarebbe magari aspettati di trovare storie imbastite su messaggi quanto meno edificanti o consolatori, è sintomatica invece di una posizione dura, quasi di scontro, nei confronti di una realtà governata da un lato dalla fede laica nel progresso, che la O’Connor disprezzava perché esso tendeva “a segnare il dissolvimento del mistero che è alla base del mistero sacrale dell’esistenza” (Clericuzio, p. 63), e dall’altro era complicata dal dissolvimento in atto dei tradizionali gruppi protestanti del Sud, rimpiazzati da “ogni sorta di strane sette che non ricordano neanche lontanamente il protestantesimo tradizionale: i testimoni di Geova, i manipolatori di serpenti, i Liberi Pensatori Cristiani, i Profeti Indipendenti,  gli impostori, i matti, e qualche volta i sinceramente ispirati (Sola a presidiare la fortezza, pp. 123-24).

 

Non bisogna poi dimenticare che, in quanto cattolica, la O’Connor non godeva certo di una condizione di privilegio all’interno del contesto in cui viveva, dal momento che i cattolici erano “oggetto di pregiudizi feroci da parte dei protestanti bianchi e diversi dai neri solo perché non soggetti alla segregazione” (Rossini, p. 9). Con ciò si spiegherebbe anche il motivo di quello che a tutta prima potrebbe sembrare un suo atteggiamento di inclemenza nei confronti di certi personaggi cui, almeno sulla carta, riservava la sorte peggiore, salvo poi recuperarli tramite l’azione invisibile della grazia. In genere questi personaggi incarnano l’aspetto più becero del perbenismo sociale, ossia quello che conferisce la massima importanza al valore delle apparenze, e sono rappresentati da petulanti vecchiette prevenute o da garrule bigotte chiuse nei loro pregiudizi arcaici e inclini a considerarsi moralmente superiori a chicchessia. Gli esempi che vengono subito alla mente sono quello della nonna protagonista di Un brav’uomo è difficile da trovare, la quale durante una gita in auto con il figlio, la nuora e i tre nipotini finisce con tre colpi al petto sparategli da un malvivente evaso dalla galera; e quello della madre in Punto Omega, che alla fine di un tragitto in autobus viene colta da un malore e muore sulla strada, dopo essere stata umiliata da una donna di colore che a sua volta lei aveva umiliato dando una monetina al figlioletto di quest’ultima solo per dimostrare quanto fosse di larghe vedute, mentre al contrario era di vedute ristrette e razziste e la donna di colore lo aveva capito.

 

 

C’è sempre un gesto nei racconti della O’Connor che fa esplodere la situazione descritta, come se la superficie della narrazione venisse a un certo punto lacerata dalle tensioni che ne formano il substrato e la conflittualità latente fra i personaggi trovasse la giusta sorgente d’innesco per detonare, ponendo quello che fra i personaggi è il più esposto nella vicenda a contatto con una verità che lo annichilisce. Si tratta di un punto culminante della storia in cui viene a crearsi un effetto simile a quello che nei racconti di Joyce era prodotto dal cosiddetto momento epifanico, ossia quel momento speciale di intuizione improvvisa che può condurre a un diverso stato di consapevolezza e a cogliere il vero significato della vita che in quell’attimo si manifesta. In Punto Omega, il diverso stato di consapevolezza ha inoltre attinenza col titolo stesso del racconto, che si richiama a un concetto elaborato dal filosofo e paleontologo francese Teilhard de Chardin il quale lo aveva coniato per descrivere il massimo livello di complessità e di coscienza verso cui l’universo sembra tendere nella sua evoluzione, e che la O’Connor mette in relazione alla figura di Cristo che accoglie tutte le cose in Sé, secondo il principio per cui ogni cosa che si eleva converge. Qui però il tentativo di elevarsi finisce male per la protagonista, mentre a trarne beneficio sarà il figlio che l’ha accompagnata nel suo tragitto, il quale, di fronte alla madre morente sente rinascere dentro di sé quell’amore per lei che egli credeva di aver perso per averla così spesso criticata per i suoi pregiudizi razziali.

 

Una sorte analoga è riservata a Sheppard, il protagonista di Gli storpi entreranno primi, che, nel vano tentativo di aiutare un ragazzino del riformatorio di nome Rufus Johnson, menomato da un mostruoso piede equino ma dotato di una grande intelligenza, lo prende a vivere in casa propria con l’intenzione di farlo diventare uno scienziato. Ma questo suo desiderio di rendersi socialmente utile lo porta a scontrarsi proprio con Rufus il quale è abbastanza scafato da riuscire a scorgere dietro lo slancio assistenziale e filantropico di Sheppard il bisogno che quest’ultimo ha innanzitutto di appagare se stesso, ed è tale lo sdegno che il ragazzo prova nel constatarlo che egli non solo non si mostra riconoscente col suo benefattore ma arriva a definirlo con disprezzo un “padreterno di cartapesta”. Dal canto suo, Sheppard è così preso da questo suo atteggiamento altruistico da trascurare il figlioletto Norton, ignorando perfino il dolore che quest’ultimo prova per la scomparsa della madre avvenuta da poco e negandogli, da ateo razionalista qual è, ogni speranza di poterla rivedere. Speranza che invece gli viene mantenuta in vita da Rufus il quale, essendo un fervido lettore della Bibbia e pure lui non privo di una certa stoffa da predicatore esaltato, lo convince che sua madre è ancora viva in cielo, inducendolo per questo, involontariamente, a commettere il suicidio per poterla rivedere.

 

Ora, queste brevi note non possono certo render conto della complessità di significati che si sviluppano all’interno dei racconti della O’Connor, e nemmeno sono tali da poter alludere al fatto che la sua narrativa, sempre, è concepita come una forma di esortazione al lettore affinché questi riconosca ovunque, nelle persone, nei luoghi e nelle cose più impensabili e disparate la presenza salvifica e illuminante di Cristo. Negli stessi racconti queste sollecitazioni non appaiono mai in forma didascalica, ma sono sepolte in profondità, come radici che generano ciò che appare in superficie, nelle vicende di ogni storia. E potrebbero anche non essere necessarie all’apprezzamento dei testi. Ma sicuramente conferiscono ad essi una sostanza duratura, che riguarda tutto ciò che è umano, perché fatta di materiali umili, non di idee astratte che per un po’ possono essere protette dallo spirito del tempo ma che poi, una volta che questo si sia dissolto, perdono di colpo qualunque sostegno e diventano insignificanti. Per la O’Connor un racconto che fosse riducibile a una dichiarazione ideologica o a una proposizione astratta o a un messaggio morale era per antonomasia un brutto racconto, frutto solo della cattiva influenza che le scienze sociali avevano sulla letteratura (Nel territorio, p. 135). La trasformazione in materia narrativa delle sue motivazioni avveniva sulla base della consapevolezza che la narrativa è “un’arte incarnatoria”, che deve dar conto del mistero “che ritroviamo incarnato nel mondo concreto dell’esperienza sensoriale” (Nel territorio, p. 94) e far emergere dalla concretezza che in tal modo viene ad acquisire ogni racconto “l’azione della grazia in un territorio tenuto in gran parte dal diavolo” (Ivi, p. 90).

 

Uno dei segnali che maggiormente tradiscono la presenza del Maligno lo si avverte proprio nel modo cui viene vissuta la figura di Cristo in quel territorio, dal momento che è proprio in quel territorio che la presenza di Cristo, “sebbene sia tutt’altro che centrale, di sicuro è ossessionante” (Ivi, p. 142). E questo lo si può constatare, oltre che dal clima di febbrile esaltazione religiosa che in termini narrativi trova una sua realizzazione nelle tante figure di mitomani folli sbandati balzani cui s’è accennato in precedenza e che sono in attesa di ricevere la chiamata per assolvere alla loro missione profetica o già si sono mossi per realizzarla, dalla totale assenza di quel particolare sentimento che è l’amore. Amore inteso non solo come dedizione nei confronti del prossimo o come disponibilità a sobbarcarsi quell’impegno sociale a favore degli altri che viene richiesto dall’etica cristiana, ma inteso proprio nelle sue svariate accezioni di amore materno, amore paterno, o affetto intenso che lega due persone, fatto di tenerezza, passione, attrazione, tormento, desiderio. Il mondo descritto dalla O’Connor è arido in questo senso. Anche le coppie formate da marito e moglie sono rare nella sua narrativa, più spesso le famiglie sono formate da uno solo dei genitori (perché l’altro è morto), più la prole. E ancor più spesso da nonno/nonna e nipote, o prozio e pronipote, con salto generazionale. E quello che si avverte fra di loro è il più delle volte solo risentimento, rancore, rabbia, perfino disprezzo. È come se effettivamente ognuno vivesse solo in virtù delle proprie convinzioni religiose o ideologiche e volesse piegare chi gli sta accanto non solo ad approvarle ma a farne il vessillo anche della propria vita e se questo non accade, ecco allora che nasce fra loro quella che col tempo non può che diventare un’antica ruggine.

 

E questa aridità di sentimenti si riflette in qualche misura anche sullo scenario che fa da sfondo alle storie raccontate e su cui la O’Connor con grande maestria riesce a infondere un’atmosfera desolata utilizzando con pochi tocchi descrittivi gli elementi caratteristici del paesaggio che le era più famigliare, come stazioni di servizio, officine meccaniche in disuso, empori, baracche un po’ cadenti situate in mezzo ai boschi, strade costeggiate da cartelloni che ammoniscono e invitano al pentimento, muri ciechi coperti da tabelloni su cui sono affissi manifesti che recano scritte come LA VITA CHE SALVI PUO’ ESSERE LA TUA – SATANA TI HA IN SUO POTERE? – PENTITI O BRUCERAI ALL’INFERNO – GESU’ SALVA IL MONDO, carraie di terra rossa battute in lungo e in largo da piazzisti di Bibbie, case circondate da striminziti fazzoletti di terra dove di solito siede un bambino sporco o una donna coi bigodini, depositi di ferrivecchi e rivendite di auto usate, campi di carcasse d’auto o pieni di ornamenti da giardino come gru, galline di pietra, urne, fontanelle, e quartieri di grosse case sgangherate con i portici a livello del marciapiede dove la gente si culla sul dondolo e guarda la strada.

A completare il quadro manca solo l’accompagnamento sonoro di un inno religioso, o la voce piagnucolosa di un cantante country, o ancor meglio il lamento lontano di un blues, come quello cantato da Bessie Smith sul brav’uomo difficile da trovare che a Flannery aveva suggerito il titolo del suo grande racconto.

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